Chapter 2\ "Oppure, in alternativa, mi butto nei Navigli"...
Che rumore frastornante. Ma sta venendo giù la casa?
Ah no, è il camion dei traslochi; otto in punto. Che efficienza.
Mi sfrego gli occhi, sperando che il calendario menta, che il rumore sentito poco fa sia frutto della mia immaginazione. Poi sento la voce assordante di mia mamma, che chiama a gran voce un nome femminile.
Il mio nome? <<Fa che Anna non sia il mio nome>> mormoro, a occhi chiusi.
Agata piomba in camera come un leone. Ci somiglia pure, dopo gli orrendi colpi di sole e la permanente che si è fatta fare da Paolina "perchè gli anni ottanta sono tornati di moda". Ruggisce alla vista delle mie scatole ancora aperte, sparse qua e là per la camera, e mi tira in faccia un calzino a pois viola. Che non appartiene a me, lo giuro.
<<Anna, tesoro mio>> inizia dolcemente, per poi terminare con uno spaventoso <<MUOVITI!>>, alzando di parecchi decibel la voce, raggiungendo la porta con uno scatto felino. Molto eloquente, non c'è che dire. Ma io non mi muovo. Sento nel petto un peso che mi impedisce di fare anche il minimo movimento. Perchè? Perchè hanno offerto a papà questo lavoro? Perchè proprio adesso? Perchè proprio a Milano? Mi prendo il viso tra le mani. Basta, Anna. Devi reagire.
Mi alzo, barcollando, e afferro l'iPhone. Venticinque messaggi. Venticinque, dei quali dodici di Melissa. Oh, la mia Mel.
Mi riprendo il viso tra le mani e mi ributto nel letto. Voglio addormentarmi di nuovo e non svegliarmi più.
Detesto gli addii. Fosse per me, li bandirei. Nei film mando avanti, grazie al tasto fast forward del telecomando, solitamente meno utilizzato del rewind, schiacciato a ripetizione per rivivere i momenti più salienti della pellicola – quelli romantici, ovviamente – che Vasco avrebbe utilizzato, sicuramente, per altri scopi, come canta nella sua peccaminosa canzone. Nei libri, invece, salto le pagine, più veloce di un canguro australiano in fuga, solo alla vista delle parole "addio, saluti, arrivederci, adios, bye bye".
Adesso, però, non posso trovare una scorciatoia: Melissa e Luca mi aspettano al varco. Li osservo, scostando la tenda del bagno al piano superiore. Stanno parlando animatamente, e poi Melissa si allontana, per prendere qualcosa dal garage: una graziosa scatola viola con un grande fiocco rosa al centro. Sorrido e li raggiungo.
Tre ore più tardi ho quella scatola in grembo e non sono ancora riuscita ad aprirla. Mi manca il coraggio. Il biglietto, contenuto nel fiocco rosa, intima di scoprirne il contenuto durante il viaggio. Distolgo lo sguardo dalla familiare calligrafia di Melissa e osservo lo sconosciuto paesaggio fuori dal finestrino.
Grigio, grigio, grigio: vado a vivere nel grigiore. Quel grigiore stona così tanto dall'arcobaleno disegnato e colorato con cura, applicato alla confezione del mio profumo preferito: ecco cosa racchiude la scatola, ma non solo. Dietro "Mademoiselle", fa capolino un biglietto del treno, andata e ritorno, per Gorizia, con data 14 febbraio. Questa è opera di Luca... vuole passare con me S.Valentino. Mi si accende in viso un sorriso ebete. Mio padre se ne accorge, spiandomi dallo specchietto retrovisore. <<Stai cominciando ad accettare l'idea, Anna?>>.
Lo guardo malissimo. <<No, non accetterò mai che mi abbiate obbligato a lasciare il mio ragazzo, la mia migliore amica, la mia squadra, la mia scuola, i miei amici, la mia casa... per... questo schifo>> piagnucolo, indicando con il braccio la desolazione attorno a noi.
<<Come sei melodrammatica. Mica ci stiamo trasferendo in Africa. Potrai tornare quando vorrai>>.
"E non sai quanto hai ragione..." penso, maliziosamente, tra me e me, trattenendo un altro ghigno: mi sento ancora osservata. Alla radio passano i Kings of Lion con "Waste a Moment" e provo ad assecondare lo spirito della canzone...
Devo essermi appisolata, perché, quando l'auto di papà – un'Alfa Romeo mezza sgangherata ma che, da buon membro appartenente alla categoria degli alfisti fissati, mio padre si rifiuta di abbandonare, come fosse un'altra figlia – si ferma, una mezz'ora più tardi, ho il collo bloccato e la mascella mi duole. Mi duole tutto, a dire il vero. Soprattutto il cuore.
Apro la portiera e, barcollando, scendo dall'auto. <<Buongiorno bella addormentata. Abbiamo già portato dentro metà della roba. Il camion dei traslochi arriverà a momenti. Che ne dici di portare qui le tue belle chiappette?>>.
Mia madre è simpatica come una zanzara. Al tramonto. In piena estate. Delle volte vorrei che lo fosse davvero, così potrei prendere l'acchiappamosche, che è molto efficace anche con le zanzare e...
<<Anna, pronto?>>. Agata mi si avvicina e fa toc toc con le nocche della mano sulla mia piccola dolente testolina.
Una zanzara. Un bel colpo secco. Oh si... Aspetta... ci sono pensieri molto più importanti. Dove cavolo ci troviamo? Attorno a noi il nulla. Non riesco a muovere un muscolo dallo shock. <<Scusa, papàààà?>> chiamo mio padre, con voce tremante.
Lui compare dietro la portiera del conducente, allarmato dal mio tono preoccupato. <<Che succede, bambina mia?>> domanda subito, mentre si avvicina.
<<Papà>> inizio seria, senza riuscire però a guardarlo. <<Ma dove diavolo siamo?!>>.
Agata non si fa certo scappare l'occasione per rimproverarmi. <<Signorina, non permetterti di parlare a tuo padre con quel tono!>>. Zzz... zzz... zanzara malefica...
Armando, papà per me, capisce al volo, almeno lui, e afferra il mio viso, portandoselo al petto. <<Anna, tesoro... so che ti avevo detto che ci saremmo trasferiti a Milano... beh, diciamo che tecnicamente siamo a Milano... cioè... nella provincia...>>. Non sa più che pesci pigliare. Faccio leva sul senso di colpa che sento crescere in lui.
<<Ma papà, che provincia e provincia... qui siamo nella più estrema periferia di Milano!>>. Mi scosto da lui e mi appoggio alla macchina, nera. Lo odio. Odio tutto!
<<Anna, non fare così... sono sicuro che quando poi ti abituerai...>> dice lui, col solito tono condiscendente e pateticamente paternalistico, più falso del mondo. Io abituarmi? A questa landa desolata? MAI.
Non avendo nessuna intenzione di farla passare liscia ai miei, metto il broncio e mi incammino per la via. Non voglio nemmeno vedere la casa. Voglio solo cercare di non pensare di essere qui, bloccata... non so nemmeno dove! Dov'è la città? Dov'è Milano? Vorrei trovare anche solo un altro essere umano. Mi andrebbe bene lo stesso, a questo punto.
Cammino per un quarto d'ora verso sud, mi si stanno congelando le dita dei piedi e non sento più le mani. <<Bene, le estremità ce le siamo già giocate. Basta aspettare un altro po' e mi ritroveranno domattina congelata sul ciglio di questa stramaledettissima strada>> esclamo al vento, affranta.
A questo lugubre pensiero decido di tornare indietro, fino a che non scorgo da lontano un cartello stradale, oltre la ferrovia. La curiosità prevale sulla sopravvivenza: devo assolutamente sapere dove diavolo sono. Raggiungo il cartello, dopo aver finalmente incontrato un'auto, che viaggia a massimo trenta all'ora, senza luci, e mi trovo a leggere <<Benvenuti a Cascina Olmo>>.
Eh? Ma cos'è, uno scherzo? Dalla tensione scoppio in una fragorosa risata, che presto si tramuta in un pianto disperato. Mi accovaccio a terra e i singhiozzi diventano sempre più forti. Non ce la faccio... ditemi che non è vero. Mi rendo anche conto di aver lasciato il cellulare in macchina, e questo non fa che aumentare, considerevolmente, la mia disperazione.
Essendo inverno, il buio cala velocemente. Ho tutti i jeans sporchi di fango, sono infreddolita e affamata e non ho la più pallida idea di dove mi trovo. Non c'è nessuno attorno a me e, quando sto per urlare dalla frustrazione, due fari mi illuminano i piedi. <<Anna! Oh, grazie a Dio>> urla una voce conosciuta, da lontano. Per tirare in mezzo Dio, mia madre deve essere davvero sul disperato andante.
Si catapulta, infatti, fuori dalla macchina, praticamente ancora in corsa, e mi stringe a sè. <<Sono furiosa, ma ti va bene che al momento io sia più preoccupata che arrabbiata, perciò non voglio parlarne adesso. Fila in macchina, rimandiamo il discorso dopo una doccia, okay?>>.
Faccio un piccolo cenno di assenso, con il movimento del capo, grata per il salvataggio, ma ancora sconvolta per... tutto il resto.
Una doccia calda fa sempre miracoli, solitamente, ma questa è tremenda. Ogni tre secondi cala la pressione, poi arriva ad intermittenza acqua ustionante e acqua gelata: la peggior doccia della mia vita.
<<Faremo riparare subito la caldaia>> si affretta a promettere mio padre, dopo che mi lamento con lui di quella tortura. E' troppo premuroso... che mi nasconda ancora qualcosa?
Perchè giuro, se ci fosse dell'altro non lo sopporterei.
La mia camera, in fondo, non è cosi male. E' molto spaziosa e dà sul grande giardino sul retro. Ma le pareti sono di un verde acido orrendo che deve essere cambiato al più presto. Il resto della casa è... accettabile. E' composta da tre piani, con un grande camino posto nell'angolo destro della sala, al primo piano. All'ultimo piano si trova una grande terrazza, sulla quale non sono ancora andata perchè papà vuole prima fare un sopralluogo di persona... spero non la ritenga pericolante.
Sospiro e mi guardo attorno: scatole e scatoloni di cose che ritenevo inutili e superflue, ma che componevano la mia realtà, la mia vita, che è stata inscatolata insieme a loro e portata nel "Wyoming lombardo".
Scrivo un SMS a Mel, raccontandole dello stato di sconforto in cui mi trovo, poi chiamo Luca, mostrandomi però più entusiasta di quanto non sia in realtà: si angoscerebbe e mi riempirebbe di messaggi con le faccine dispiaciute che mi irriterebbero e basta. Provo sentimenti ambivalenti verso di loro: mi mancano, ma non vorrei averli qui. Vorrei essere io con loro, a casa mia.
Nella più totale autocommiserazione, e interpretando ancora – a meraviglia – la parte di figlia capricciosa, salto la cena, e mi rifugio nel letto che mamma mi ha amorevolmente preparato, probabilmente per evitare di sentire altre mie lagne. Le lenzuola profumano di casa, e solo questo mi basta per cadere in un sonno profondo.
Mattina seguente, quella della vigilia di Natale.
La consapevolezza di non essere stata rapita dagli alieni durante la notte, e che il mio trasferimento non fosse in realtà un brutto sogno, mi fa venir voglia di urlare. Mi ritorna in mente la frase pronunciata solo qualche settimana fa dai miei: approfittiamo delle vacanze di Natale per partire, così non perderai neanche un giorno di scuola... Mi sembra si siano fatti beffa della mia magnanimità. Lo sanno, lo sanno di sicuro, che per me il Natale è sacro: è magico. Con questo bello scherzo mi hanno tolto anche quello.
Fortunatamente, tra sistemare le cose in casa e comprarne altre, che non ci eravamo portati dietro, i giorni passano e quest'anno Babbo Natale è stato anche più generoso del solito. E chissà come mai...
Tra i regali super costosi di Babbo c'è anche uno scooter. Non so in quante lingue ho pregato i miei per poterne avere uno, negli ultimi anni. Avevo fatto anche il patentino <<sai, nell'eventualità>>, mi ero giustificata sorniona a mia madre, quando ne aveva domandato il motivo.
Appena realizzo il reale scopo di quel regalo, non ho più tanto da rallegrarmene: la scuola che avrei dovuto frequentare dista quasi dieci km ed è mio dovere percorrerli autonomamente con il mezzo sopra citato. Altro che generosità... Almeno il paese dove si trova, Cernusco, non è così demograficamente limitato come quello in cui vivo, e l'edificio scolastico è stato ristrutturato l'anno scorso. Capirai...
Non sono una valida seguace della filosofia positivista, dove è meglio evitare di pensare al lato negativo delle cose per poterle accettare, ma tant'è. Come si dice... di necessità, virtù.
Oppure, in alternativa, mi butto nei Navigli.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top