Chapter 17\"Qualche giorno lontani non ci farà male..."
Dopo quell'imbarazzante episodio, non ci preoccupavamo più di nascondere la nostra relazione e la nostra irrefrenabile passione: almeno a casa di Marco. A casa mia era tutta un'altra storia: se volevamo – e volevamo, volevamo eccome – dedicarci a fare pratica per arrivare alla perfezione, dovevamo stare molto attenti ad evitare le ronde dei miei, che si erano riuniti in un'associazione – a delinquere, se necessario, temo – come quelle tra cittadini altruisti per il controllo del vicinato.
<<E quando tra poco arriverà il freddo e non potremo più nasconderci qui all'aperto sul terrazzo?>> mi chiede, una sera di settembre, sistemandosi sulla parte posteriore della mia poltrona per accogliermi tra le sue gambe.
<<Bella domanda. Non ne ho idea. E' così perfetto, qui...>> rispondo, osservando il cielo sopra di noi.
<<Sì, beh... è perfetto perchè siamo noi a renderlo tale>> dice lui, pragmatico come sempre.
<<Allora potrebbe esserlo dovunque, se siamo insieme>> lo incalzo.
<<Dovunque io possa tenerti così e sentire il calore del mio corpo nudo contro il tuo, sì>>.
Ecco, le condizioni stanno già restringendo il campo, e non di poco. Gli bacio dolcemente il braccio con cui mi cinge la vita e mi appoggio al suo petto, respirando con intensità il profumo della sua pelle: incredibile l'effetto che mi fa ogni volta. <<Quanto vorrei che la scuola riprendesse più avanti. Lunedì è troppo vicino>> mi lamento contro la sua gola.
<<Già. L'ultimo anno... non vedevo l'ora quattro anni fa, e adesso sono entusiasta di diplomarmi, finalmente. Ma... poi? Tu... hai già pensato a cosa farai poi?>>.
Ci ho già pensato? Che ingenuo! Ho già visualizzato almeno i prossimi dieci anni a venire! E Marco è sempre con me, ovviamente. Me lo immagino proprio così come ora. Beh, magari con qualche vestito in più addosso, se non altro mentre andremo a fare la spesa o a prendere i nostri figli. Okay, forse devo dimezzare le prospettive future: mi concentrerò sul paio d'anni, così di sicuro non ci rientreranno bambini o matrimoni.
<<Dato che staremo insieme per sempre, so già cosa accadrà poi>> rispondo invece, restando sul vago.
<<Quindi... per te non ci lasceremo?>>.
<<No! Noi non ci lasceremo mai>> affermo con convinzione, stringendolo più forte.
Lui sospira. <<Sempre e mai non sono avverbi che non mi piace utilizzare>> commenta serio.
<<Almeno sai che sono avverbi>> scherzo io, per alleggerire il discorso.
<<Sai, anzi, che l'unione dei due, cioè la parola sempremai, è riconosciuta come parola persino dall'Accademia della Crusca?>> mi atteggio, con fare altezzoso.
In realtà, nemmeno io sapevo come facevo ad esserne al corrente. A volte capitava che qualche concetto o nozione apparisse dai segreti cassetti della mia mente mnemonica. Di solito mai nel momento giusto, anche se, stavolta, pare essere impressionato persino lui da cotanta cultura.
<<Ma non la crusca che si mangia, vero?>> ironizza, sapendo bene già da sè la risposta.
Cambio argomento: questa cosa degli avverbi di frequenza mi ha un po' turbata. Non è che Marco fa parte di quella – ahimè numerosa – categoria di uomini che hanno il terrore del "per sempre"?
<<Lunedì voglio anche tornare alla palestra, per prendere di nuovo accordi con l'allenatore... l'esercizio fisico che sto facendo ora non è male, non mi sto certo lamentando>> dico sorridendo maliziosamente.
<<Ma mi manca tanto giocare. Vorrei davvero riprendere. Stavolta sul serio, mi sento pronta. L'unica cosa è che gli allenamenti, le partite, le trasferte... mi porteranno via molto tempo... che vorrei trascorrere con te>>. Mimo un broncio e una lacrimuccia.
<<Lo so, ma è tempo che dedicherai a te stessa, a fare qualcosa che ti piace... E' tanto che non coltivi una passione, e ne hai molte. Peccato che le lasci tutte in sospeso...>> mi ammonisce, ma con un sorriso.
Poi aggiunge, addolcendosi <<ma sono molto felice di sentirtelo dire e di vederti determinata. Anzi, è curioso che ne parli proprio ora, perchè pensavo anch'io di parlarti di una cosa>>.
Sono curiosa come una scimmia. Mi volto e lo guardo bene negli occhi, così da dedicargli tutta la mia attenzione.
<<Come sai, la musica è la mia grande passione. Prima era in cima alla lista, poi è arrivata una certa persona ad accaparrarsi il suo posto... Ora è la mia seconda grande passione, diciamo>> mi fa l'occhiolino, e io gli sorrido, lusingata.
<<Ci penso da tempo>> continua, eccitato. <<Avevo anche già iniziato ad informarmi cercando possibili artisti: voglio formare una band>>.
No, va bè, così è troppo facile. Ma allora ditelo che questo mio film che è – fino a prova contraria – la mia vita al momento è stato creato apposta per me. Il copione è esattamente come lo desideravo, se non di più. Il protagonista maschile – il mio fidanzato, per inciso – leader di un gruppo musicale...
Già m' immagino come scatenata groupie di un Adam Levine dagli occhi verdi, che mi dedica la sua "Sugar".
"Voglio quel velluto rosso, Voglio quello zucchero dolce, Non permettere che nessuno lo tocchi, A meno che quel qualcuno non sia io, Devo essere un uomo, Non c'è nessun altro modo, Perchè, ragazza, sei più calda del sud della California. Non voglio giocare, Io non devo aver paura, Nessuna timidezza, Nessun trucco, Questo sono io".
Come spesso accade, con il cambio di stagione, la ripresa delle rispettive vite, con i propri impegni e scadenze, si riesce a dedicare meno tempo al godimento... della reciproca compagnia.
Sono passata da settimane vissute in completa spensieratezza, dove l'unico mio problema era che non mancasse il gelato, ovviamente vegetale, in congelatore e sulle labbra di Marco – che, ho scoperto, lo rendono ancora più buono – a giornate interminabili dedicate a quei dannati test d'ingresso proposti per "rispolverare la memoria", mica che l'avessimo impolverata troppo con la sabbia del mare.
Evidentemente per gli esigenti professori era indispensabile, per poter avere una buona maturità classica, ricordare l'antologia di Catullo, gli interminabili Prolegomeni di Kant – e pensare che sono, dovrebbero, essere solamente un'introduzione alla sua opera sulla Metafisica – i Poliedri, in particolare prismi e piramidi, come ha sottolineato Becchi, il professore di geometria più noioso della storia, e le Equazioni esponenziali e logaritmi, riconosciuti universalmente come la base matematica su cui si fonderanno le illogicità della vita.
Non metto in dubbio che la cultura sia importante, e che una persona acculturata sia più interessante di una ignorante – nel senso che ignora questi grandi temi universali –, ma proprio non comprendo questo accanimento su dei poveri ragazzi che hanno appena terminato l'età della pubertà.
E mi riferisco a quelli più fortunati. I meno fortunati ci sono ancora dentro fino al collo, combattendo senza sosta contro l'irrefrenabile comparsa di peluria in parti non depilabili del corpo e acne fastidiosa indebellabile. Problemi indiscutibilmente maggiori di quattro formulette chimiche o della teoria metafisica della ragione – l'ennesimo dubbio amletico sul fatto di determinare se sia possibile davvero che la ragione pensi o no a priori, that's the question – sebbene possa essere l'unica cosa sensata di quelle proposte, da ricordare quando si vorrà discutere sulla fondamentale legge di causa ed effetto e fare i fighi portando avanti la teoria di Hume contro quella Kantiana. Mica per comprendere davvero l'opera Karmica del cosmo: non esageriamo.
A volte sarebbe bello se i professori pretendessero altro dalla parte del corpo che resta fuori – dalla sabbia, tanto per tornare all'efficace paragone marino – in un adolescente non ancora divenuto adulto che, invece, in alcune occasioni vorrebbe solamente infilare la testa sotto la superficie sabbiosa, per evitare il pericolo, come uno struzzo in difficoltà.
Per avere una maturità classica magari occorreva davvero riportare alla mente quelle nozioni, ma per una maturità umana? Forse, per quella, insabbiare alcuni ricordi è la giusta manovra di salvataggio per quelli più sgradevoli, se non altro, che ti portano solo ad arenare, o, ancor peggio, ad affondare prima ancora di aver preso davvero una qualsiasi decisione adulta. In balia delle onde, di un ipotetico foglio rosa, come quello che occorre per iniziare a provare a guidare. E che, a quanto pare, a Marco non interessa.
Me lo comunica un piovoso pomeriggio di metà ottobre, quando, finalmente, riusciamo a trascorrere più di un'ora insieme: da soli.
<<In che parte del mondo hai detto che si trova tua madre, oggi?>> mi domanda, mentre ci sediamo sul letto nella mia stanza.
<<Shanghai, dietro l'angolo>> rispondo con una smorfia, portandomi le ginocchia al petto.
Nulla da fare: i viaggi di mia mamma, soprattutto se così lunghi e lontani, un po' mi mettevano in agitazione. Non averla intorno per settimane era bello, non fraintendiamoci: massima libertà di non dover ricorrere al mio continuo perfezionismo anti illusione materna. Ma saperla proprio dall'altra parte del mondo, con comunicazioni sul suo stato di salute a singhiozzo, mi rendeva inquieta, soprattutto dopo l'attacco di panico che aveva avuto poco prima di partire.
La mia difficile gestione dell'ansia, in alcuni momenti più che difficile, era un dono dei suoi fantastici geni, che avevano fatto un lungo percorso sulle radici dell'albero genealogico della mia strampalata famiglia d'origine materna, dove l'ereditarietà di alcune caratteristiche – prettamente negative – era palese. Fino a quel momento li avevo tenuti d'occhio, quei malandrini. Ma si sa, contro l'evidenza scientifica non c'è battaglia: la struttura a doppia elica del mio DNA era compromessa in partenza. Avrei potuto sperare nel crossing-over – il meccanismo che determina la ricombinazione genetica – se i segnali non fossero stati così compromettenti. Riporrò questa speranza quando – e se – deciderò di contribuire alla moltiplicazione della specie.
Se non prendessimo le dovute precauzioni io e Marco ne aumenteremmo sicuramente le possibilità, data l'applicazione costante del meccanismo di riproduzione che seguiamo alla lettera e con impegno, come un atleta farebbe in vista delle Olimpiadi. Cavolo, è proprio vero che una volta che inizi non riesci più a smettere... come per il cioccolato: stessa droga. Ah, le endorfine...
<<Com'è che siamo passati a parlare di mia madre a... questo?>> domando contro il petto di Marco, che ancora non ha ripreso fiato e giace sopra di me con gli occhi chiusi.
<<Mmh>> riesce a mugugnare, schioccandomi un bacio sulla spalla mentre mi plana accanto.
<<Perchè, stavamo parlando di Agata? Veramente io ricordo solo qualche allusione alla Cina e poi tu che ti toglievi questo>> dice sorridendo, recuperando il mio wonderbra nero infilato sotto il suo braccio e sollevandolo con un dito.
<<Veramente me lo hai tolto tu>> sorrido e mi accoccolo meglio su di lui, carezzando i suoi addominali perfetti.
<<L'importante è il risultato. E direi che su quello non abbiamo nulla da discutere, giusto?>>.
Mi bacia teneramente la punta del naso. Io annuisco, e catturo le sue labbra con un altro bacio prima che riporti la testa sul cuscino. Meglio del cioccolato. E mai avrei creduto di poter anche solo pensare una cosa simile: il mio fondoschiena ringrazia.
<<A proposito di risultati... come stanno andando le prove per il test?>>.
<<Test del quale tu te ne freghi per un qualche altro assurdo motivo dei tuoi?>> gli rispondo di rimando, con una punta di irritazione nella voce.
Lui s' irrigidisce.<<Anna...>> inizia, e quando comincia con il mio nome una frase non è mai un buon segno. <<Mi pare di averti spiegato perchè, per ora, non è così importante per me prendere la patente. Ho la moto, a che mi serve?>>.
<<Marco...>>. Dato che sta arrivando una litigata, me lo sento, tanto vale usare la stessa moneta. <<Tu mi hai detto il motivo, è vero, ma io non ti credo. C'è dell'altro. Non te la scamperai, stavolta>>.
La determinazione è una caratteristica che appartiene a molte persone, ma io non sono tra quelle, solitamente. E' pur vero che con lui scopro di possedere in realtà abilità che di solito non collego a me: tipo quella di insistere fino allo sfinimento – suo – per ottenere qualcosa. Abitualmente temo persino di chiedere che ore sono ad uno sconosciuto per strada o il permesso per passare avanti alla casa del supermercato quando acquisto solo il detersivo e la carta igienica. E i Tampax, che nascondo sotto il braccio per la vergogna. Dai, chi non lo fa?
Marco sbuffa, e tenta di riprendere i boxer neri e bianchi da terra, ma io glielo impedisco, bloccandolo sotto di me. <<Non mi comprerai così...>>.
Tenta di rimanere serio, e fermo, ma io oramai conosco ogni suo punto debole ed è talmente semplice inchiodarlo che quasi non mi diverto più. Quasi.
Tenendogli fermi i polsi faccio scorrere il labbro inferiore sul suo fianco destro, fino all'incavo del collo. Poi inizio a risalire quello sinistro e, arrivata a metà, mi blocco e lo guardo. Sul suo viso un'espressione di puro godimento. <<Sei perfida. Lo sai?>> dice piano.
<<Sì. Adesso o parli o non continuo...>>.lo minaccio, seducente.
<<Facciamo che io ti prometto che parlerò, dopo, e tu continui, adesso. Mi sembra un buon compromesso, dato che abbiamo solo un'altra mezz'ora prima che arrivi tuo padre dal lavoro>> constata, spostando lo sguardo dietro di me per scorgere le lancette dell'orologio a muro appeso alla parete alle mie spalle.
<<Tra l'altro...>>.
Ma perchè parla ancora? Mezz'ora è pochissimo! <<Il colore delle pareti di questa stanza è orribile. Questo verde acido... diciamo che si abbina a chi appartiene, a volte, però...>>.
Ah, pure? <<Credi davvero sia una buona mossa darmi della acida quando stai contrattando un accordo così importante?>> lo avverto.
<<Buona, no. Ma adoro farti incazzare. E il sesso riparatore mi piace ancora di più, perchè quando ti arrabbi, Anna, diventi molto... più audace>>.
Questa confessione mi lascia a bocca aperta, di solito Marco non è così diretto.
Allento la presa, ancora sotto shock, quel tanto che basta per farmi sfuggire i suoi polsi e mi ritrovo sotto di lui in un secondo.
<<Allora, abbiamo un accordo?>>.
Ehm... di cosa stavamo discutendo, esattamente?
<<Così andrai in Croazia fino al quattro?>> mi chiede Marco quel sabato sera, l'ennesimo passato insieme nella sua stanza a mangiare schifezze tra un brano – e un bacio – e l'altro, al pianoforte, per provare le sue canzoni.
<<Mah, non so. L'allenatore pensa che potrei giocare nel secondo tempo>>.
Ancora non mi era chiaro se mi avessero convocato per questa trasferta solamente per fare numero o se le intenzioni di farmi entrare davvero in campo qualche minuto fossero reali. E, sinceramente, la cosa per me non avrebbe fatto chissà quale differenza. Perchè io non ci volevo andare: volevo passare la festa di Ognissanti a casa, godermi il ponte e il mio compleanno: con lui.
<<L'allenatore pensa... e tu cosa pensi?>>.
Sbuffa e io mi innervosisco. <<Anna, capisco che è la tua prima trasferta con la squadra nella quale ancora devi inserirti, che sono diversi giorni e che tornerai proprio il giorno del tuo compleanno, ma potrebbe comunque essere una buona occasione per farti vedere, per ricominciare... mi hai detto che volevi riprendere a giocare, ma la pallamano per ora mi sembra solo tu la viva come un peso...>>.
Come dargli torto?
<<Ma no, è che ho la scuola, i quiz per la patente...>> mi giustifico, cercando di tagliare il discorso, distraendomi con le e-mail che aspettavano circa da un mese di essere visualizzate.
<<Tutte palle>> mi rimprovera lui, strappandomi dalle mani il cellulare.
<<Vediamo a cosa stai riservando tutta questa attenzione...>>.
Il piano ha funzionato. Anche se non completamente: Marco comincia a ridere, ancora prima di aver scorso con il dito tutta la pagina.
<<Cara dottoressa...>> inizia, divertito, sdraiandosi accanto a me sul materasso, scostando la coperta dai colori sgargianti, sotto la quale mi ero rannicchiata <<ma si può fare sesso durante le mestruazioni avendo l'assorbente interno? E se no, perchè? Firmato: preoccupatissima '03>>.
<<No, dai, non c'è scritto così!>> esclamo, sorpresa, riappropriandomi del telefono per verificare di persona che... è vero!
<<Ma che roba è?!>>. Quasi non riesce a parlare dal ridere.
<<Ma è una newsletter alla quale mi ero iscritta secoli fa, di una rivista... mi pare si chiami GirlLife>> provo a spiegargli, senza riuscire a smettere di ridere a mia volta.
<<Solo tu puoi fare queste cose... ma ti rendi conto? Sei pazza>>.
<<Non sono io che sono pazza! E' quella là, che ha scritto quell'assurdità! E pazzi quelli che l'hanno letta e poi anche pubblicata!>>.
Non ho problemi ad affrontare il fatto di aver perso la ragione, quello è oramai noto ai più, ma almeno che la cosa sia giustificata correttamente!
<<Ai matti non bisogna mai dare torto, perciò mi limiterò ad annuire>> scherza Marco, che però ha smesso di ridere e riprende l'iPhone.
<<E ora che fai?>>.
<<Leggo la risposta della dottoressa>>.
<<Ma dai!>>.
<<Per capire se è pazza pure lei. Come si può replicare ad una domanda simile? Giuro che non mi verrebbe in mente nient'altro che un insulto. Sono curioso di vedere se oltre le cazzate possono pubblicare anche quelli>>.
Non fa una piega.
<<E poi ti tolgo l'iscrizione. Ti fanno male tutte queste riflessioni profonde su temi così fondamentali della vita...>> aggiunge, ironico.
<<Guarda che c'è anche lo spazio per i consigli di make-up, di moda...>>.
<<Appunto. Ti faccio proprio un favore. Perché...>> aggiunge, notando la mia espressione accigliata <<non ti servono>>.
Si salva in corner, dandomi un bacio. Solo uno? Non scherziamo. Gli libero la mano lanciando il telefono ai piedi del letto. Lui capisce subito le mie – alquanto peccaminose – intenzioni e decide di sfruttare a suo vantaggio, stavolta, la situazione.
<<Ti sto preparando una sorpresa che ti lascerà a bocca aperta>> mormora, mentre mi porta una mano – che io avevo già catturato con le labbra – al viso.
<<Ma mi occorrerà un po' di tempo per realizzarla... oltre che probabilmente dovrò fare le prove per la maggior parte del tempo...>>.
Che novità. Da quando si erano presentati almeno dieci candidati per la band che voleva formare, era un continuo provare e provare, per poter fare la scelta giusta... Non voleva accontentarsi di un buon batterista, o di un buon bassista, voleva che le persone che avrebbero fatto parte del suo progetto fossero anche umanamente valide, oltre che musicisti dall'indubbio talento. Non lo biasimavo certo per questo, ma di sicuro non era una cosa semplice da realizzare. E gli portava via molto tempo: tempo che avrebbe invece potuto passare con me.
<<Perciò vai. Fa quest'esperienza. Qualche giorno lontani non ci farà male>> afferma, come nulla fosse.
Non posso dire di essere totalmente d'accordo con lui. Stare lontani anche solo qualche ora provocava in me sensazioni di turbamento che non riuscivo a spiegare nemmeno io: senza di lui le cose perdevano il loro senso, come una TV senza antenna. Si accende, puoi cambiare i canali ed alzarne il volume, ma senza il collegamento con un'antenna che ne cattura i segnali a radiofrequenza non riesci a vedere nessun programma. Per non parlare dell'introduzione del digitale terrestre a dispetto dell'analogico. D'accordo, l'avvento della televisione digitale non comporta grandi cambiamenti per l'antenna di ricezione. Ma vuoi mettere la differenza? Senza Marco ero una di quelle vecchie televisioni che occupavano metà della stanza, con l'ingombrante tubo catodico, senza antenna.
Non proprio utilissima, ecco. Se poi togliamo pure la corrente, che mi provocava lui solo con il suo tocco, il quadro era completo. Hai voglia ad allargare la banda per una maggiore ricezione dei segnali...
Al momento gli unici segnali che riuscivo a catturare erano quelli delle voci di Noemi e della sua amica Giada al di là della porta. <<D'accordo, ci andrò, ma adesso smettila...>> lo supplico, sentendo già la corrente a più di 230 V – potrei accendermi come un frigorifero, anzi, dal caldo che inizio a sentire, come un forno – diffondersi in tutto il corpo attraverso le sue mani, che dal viso sono scese decisamente più a sud.
<<Ripetilo>> mi ordina, mentre mi bacia l'ombelico e io sollevo il bacino per il solletico della sua barba sulla pancia.
<<Okay, okay, sì andrò via, in Croazia>> mi tocca dire di nuovo, con più convinzione.
<<Ma ora fermati. C'è tua sorella qui fuori, dai>> lo ammonisco, riportando il suo viso all'altezza del mio, per baciarlo.
<<Ancora ti vergogni per l'altra volta, eh?>>.
Arrossisco violentemente. Vergognarmi della volta in cui ho dato prova delle mie abilità canore nel non riuscire a trattenere un urlo durante il momento finale dell'amplesso, solo qualche giorno fa, intende? Assolutamente sì! Soprattutto perchè le dolci, ingenue orecchie di Noemi erano vicine, e lei non ha perso tempo nel bussare e chiedere <<tutto bene, là dentro? Marco se le stai dando noia, devi smetterla perchè altrimenti poi lei non verrà più!>>.
Per fortuna che non ha udito anche la risposta del fratello – qualcosa come "verrà, verrà" – oppure non avrei più potuto guardarla in faccia. Davvero.
Una settimana dopo eccomi, come promesso, sul pullman della squadra in direzione Rovigno. <<Perchè io, le promesse, le mantengo. Non come te. Non mi hai ancora spiegato il motivo per cui non vuoi prendere la patente>> incalzo Marco, mentre osservo il paesaggio che muta dal finestrino.
Il cellulare prende poco e la comunicazione si è già interrotta due volte. <<Ah, ecco che torna alla carica. Ne parliamo appena torni. Adesso quanto vi manca al confine?>> chiede, cercando di eludere la mia provocazione.
<<Un'ora circa>> gli do corda, rassegnata.
<< Ti tempesterò di messaggi prima di non poter più utilizzare la linea italiana>> lo minaccio.
<<Non stento a crederlo. Lo faresti comunque anche se non ti stessi dirigendo all'estero>>.
<<Ah ah>> dico, fingendomi offesa.
<<A proposito, il Wi-Fi però funziona. Spero che il villaggio in cui alloggeremo ne sia provvisto>>.
<<Così potrai continuare a tampinarmi?>>.
Adesso esagera.
<<No, così potrai avere almeno la conferma che io sia ancora viva! Pensavo ti interessasse...>> esclamo, stavolta un po' risentita davvero.
<<Ho molti interessi, sai...>>.
Che stronzo.
<<Ok, allora visto che la mia salute non è uno fra i tuoi milioni di interessi ti saluto>>.
Così dicendo, chiudo bruscamente la conversazione.
Francesca, una timida ed esile ragazza di origine turca, è seduta accanto a me e mi sorride comprensiva. Anche lei è entrata da poco in squadra ed è stata convocata per la preparazione al campionato per la prima volta, come me. Ho un'alleata, che però non è molto loquace. Senza la mia amata musica che mi fa compagnia – Vasco a ripetizione – il viaggio sarebbe mortalmente noioso. E alquanto deprimente: scorgo strade e cartelli stradali di città che conosco molto bene... Monfalcone, Trieste... Riportano alla mia mente ricordi che preferirei invece cancellare con una bella spugna dalla lavagna della mia mente. Peccato siano scritti con pennarelli invece che con gessetti colorati, e pure indelebili: maledetti.
Mi addormento per quello che sembra qualche minuto appena, e poco dopo vengo svegliata di soprassalto dalla voce scontrosa dell'allenatore, che ci invita, non molto educatamente, a consegnare i documenti di identità per poter passare il confine: fortunatamente li avevo recuperati all'ultimo prima di uscire di casa, quella mattina.
<<Dai, manca solo un'ora e mezza. Forza e coraggio>>.
Anche lui deve essersi accorto che le ragazze eccitate per il viaggio partite da Piazza Castello non sono più così entusiaste dell'avventura, dopo cinque ore di permanenza su sedili scomodi e stretti.
Un'ora e mezza più tardi, come previsto, arriviamo al Villaggio camping Amarin, situato proprio accanto a una spiaggia spettacolare e a quattro km dal centro della città. Anche i palazzetti dove giocheremo sono vicini e inizio a sentire di nuovo la voglia di mettere piede in campo.
Credevo di essermi fatta un buon quadro generale delle squadre avversarie che avremmo affrontato in quei giorni ma, evidentemente, non era così. Quel pomeriggio, infatti, ci aspettava la prima partita con... la mia squadra. Cioè, la mia ex squadra, la "squadra delle pupe" come ci eravamo soprannominate noi, di cui faceva ovviamente ancora parte Melissa. Quando scorgo, da lontano, la sua folta chioma color caramello mentre avanza verso gli spogliatoi quasi vorrei urlare. E scappare.
Invece resto immobile, a fissare quella che un tempo era la mia amica più cara venire verso di me, sorridente e maledettamente perfetta come suo solito. Quando termina la divertente conversazione con Bea, un'altra sua amica ed una mia ex amica, si volta e mi vede. Quasi inciampa sul gradino, sbalordita. "Sapevo che non dovevo venire, sapevo che non dovevo ricominciare a giocare, lo sapevo, lo sapevo" continuo a pensare nella mia testa, con le lacrime che piano piano minacciano di uscire dai miei occhi.
Quando arriva davanti a me, ci fissiamo, sconvolte.
<<Anna...>>.
<<Non dire niente. Ora facciamo parte di due squadre opposte. Giocheremo una contro l'altra... e, sinceramente, non vedo l'ora di farti il culo>>.
Quelle parole così cariche di risentimento sorprendono anche me. Lei sgrana gli occhi, stupìta di tanta rabbia. Dopo tutto questo tempo riaffiora il dolore e io non posso fare altro che difendermi con l'attacco. La lascio lì a guardarmi confusa, mentre vado verso gli spogliatoi, con i pugni ancora chiusi e la mascella serrata: adesso vedremo chi avrà la meglio.
<<Voglio giocare. Subito>>. Affronto l'allenatore che sta dando gli ultimi consigli alle giocatrici già pronte per l'ingresso.
Lui alza un sopracciglio, sorpreso dalla mia richiesta, e decide di premiare la mia determinazione. <<D'accordo Anna... se sei così sicura ti faccio provare>>.
<<Grazie Carlo. Non ti deluderò>> affermo decisa, ripassando mentalmente gli schemi di attacco e quelli di difesa, della mia attuale squadra, ma anche della mia vecchia squadra, che ancora ricordo perfettamente. Sapevo benissimo quali erano i loro punti deboli, in particolare quelli di Mel, e li avrei sfruttati a mio vantaggio.
Pur non essendo una partita di campionato, abbiamo molti spettatori che incitano e battono le mani a ritmo di cori da stadio. Vedere schierate dall'altra parte dello spazio di gioco quelle che un tempo erano le mie compagne mi rende inquieta, ma anche determinata alla vittoria. Il numero 50, che da sempre porta Melissa, è proprio di fronte a me quando ci sistemiamo per il campo, appropriandoci delle rispettive posizioni. La partita inizia e io resto in disparte per cogliere il momento giusto per indirizzare la palla, bloccare la difesa – Alice e Bea peccano come ala destra – e fare subito goal.
Un boato si alza dagli spalti, assieme al mio allenatore, che lancia un pungo al cielo. <<Vai, vai così!>> urla eccitato.
Uno tsunami di adrenalina m' invade le vene, mentre riprendo fiato e mi identifico nel mio ruolo: Angela dovrà passarmi il testimone. Sono di nuovo un pivot, adesso. Il più forte.
Al venticinquesimo del primo tempo siamo 10 a 6 per noi. Corro da una parte del campo all'altra senza fatica, tanta è la motivazione che ho dentro, incurante degli spintoni che ricevo. Finisce il primo tempo e visto l'andamento favorevole della partita l'allenatore decide di non variare le giocatrici. Così resto in campo anche tutto il secondo tempo, che finisce a 25 a 22 per noi. Sono così soddisfatta che non riesco a smettere di sorridere, nonostante sia cosciente della difficoltà di restare concentrata e mantenere il mio sangue freddo anche ora che siamo tutte in fila per i saluti ed i ringraziamenti. Fisso il volto amareggiato per la sconfitta delle mie ex compagne, uno per uno, e penso che, in realtà, non le conosco. Non le conosco più, e loro non conoscono più me. Mi dipingo sul viso un sorriso di circostanza, mentre mi asciugo il sudore sulla maglia numero 58 color menta della mia attuale squadra e continuo con i convenevoli. Porto avanti la parte con estrema fatica. Non vedo l'ora di tornare al villaggio e buttarmi sul letto.
<<Ragazze, restiamo anche per la Under 18 maschile? Voglio vedere giocare il Cassano, sono dei fighi paura!>> ci invita Roberta, la veterana della squadra, ancora euforica per la vittoria, entrando in spogliatoio mentre finiamo le docce.
<<Io sono sfinita>> ammetto, infilandomi la maglietta pulita e sdraiandomi sulla panca, con il borsone dietro la testa. <<Preferirei rientrare>>.
Dalle occhiatacce che mi rivolgono le mie compagne capisco di essere l'unica a pensarla così, quindi, riluttante, accetto di restare.
<<Anna, tu sei Anna, giusto?>> mi domanda Roberta, sedendosi vicino a me.
<<Sì, numero 58, da adesso>> le rispondo, facendole l'occhiolino.
<<Una di noi, da adesso>> ammicca lei di rimando.
<<Ci credo che sei stanca, hai dato tutto, oggi. Non avevi mai giocato così>> si complimenta Francesca.
Le sorrido, grata. <<Ero... ispirata>> esclamo, alzandomi.
Avrei voluto mantenere l'ispirazione – ed il coraggio – anche per affrontare l'ennesimo ostacolo che il destino mi proponeva quello stesso giorno: la squadra avversaria al Cassano era quella di Luca. A quante sue partite avevo assistito?
Eccolo entrare in campo con la maglia numero 8 bianca e blu, e la fascia grigia, mio regalo per il suo sedicesimo compleanno per tenere a bada il ciuffo biondo ribelle, che gli ricadeva sui particolari occhi azzurro cielo.
<<Allora, che vi dicevo, ragazze? Sono davvero dei gran bei bocconcini!>> esclama maliziosamente Angela, che pare aver passato sopra al cambio inaspettato di ruolo durante la partita.
<<A me piace il numero 86... che muscoli!>> dice piano Francesca, di modo che possa sentirla soltanto io, che le sorrido e mi compiaccio della sua audacia.
Lei arrossisce, ma continua a fissare il numero 86 del Cassano.
<<Ho trovato l'uomo della mia vita>> annuncia d'un tratto Roberta, senza staccare gli occhi dal campo.
<<Guardate>> indica, tutta eccitata, il centro del campo. <<il numero 8, ma dell'altra squadra>>.
<<E' già occupato>> dico senza pensare.
Tutte si voltano, con in viso la stessa domanda: tanto vale spiegare. <<Si chiama Luca ed è stato il mio ragazzo per diversi... anni>> affermo, con una tranquillità che mi sorprende.
<<Capito, la cara Anna... >> mi colpisce la spalla con un pugno affettuoso Francesca.
<<Già. Poi si è fatto la mia migliore amica. E non ci siamo più parlati. Fine>>.
Se la mia vita fosse un film drammatico, in questo momento una musica triste riempirebbe il silenzio, sovrastando le urla dei giocatori e i battiti del mio cuore. Se la mia vita fosse invece un film comico si sentirebbero risate in sottofondo come ci fosse una platea di persone sotto effetto di gas esilaranti, impossibilitate a smettere di ridere a crepapelle. Scelgo, se possibile, la seconda versione, stile "La vita secondo Jim" – la fortunata sitcom statunitense con Belushi – che fa sbellicare dalle risate un minuto sì e quello dopo ancora, più per le voci e le risa di contorno che le battute dei protagonisti.
Scoppio, infatti, in una forte risata e loro mi seguono a ruota, non capendo bene quale ruolo interpretare. Ma la tensione svanisce, fino a quando, attirati dai nostri schiamazzi, i ragazzi in campo alzano lo sguardo proprio mentre termina il primo tempo, e Luca mi vede. Deduco, dalla sua espressione sbalordita, che non avesse ancora avuto l'occasione di parlare con Mel prima di allora. Qualcuno dovrebbe provvedere a ricollocargli la mascella al suo posto d'origine, altrimenti una mosca potrebbe entrargli in bocca: è talmente sconcertato che non muove un muscolo, e resta impalato in mezzo al campo mentre gli altri sono già sulle panchine. Si distrae, quando sente il suo nome provenire dal lato opposto del campo: è Melissa, che vuole avvisarlo del pericolo imminente.
Peccato sia troppo tardi.
Si guardano, poi lei alza lo sguardo nella mia direzione, imitando lui. Io osservo la scena dagli spalti. Quando entrambi si voltano verso di me, avanzo di qualche passo e alzo fiera il dito medio, poi prendo il borsone ed esco veloce dalla palestra. Anche Jim era sempre molto diretto, e alla fine se la cavava egregiamente in ogni situazione assurda nella quale si cacciava ogni volta. Perchè io non avrei potuto fare altrettanto?
Fortunatamente il campeggio che ci ospita è grande – impossibile rincontrarci ancora – e dà la possibilità di utilizzare la linea wireless gratuitamente. Avvio WhatsApp e vi trovo quarantadue notifiche. Nessuna di Marco, ovviamente, poichè nella sua odiosa, in questo caso, coerenza non ha mai voluto installarlo. Non ci sono messaggi, nè chiamate. Aggiorno il mio stato Facebook e carico qualche foto su Instagram. Poi gli scrivo una mail – quelle almeno non si rifiuta di leggerle – in cui, molto formalmente, gli descrivo il mio stato di salute e le caratteristiche del posto, come farei ad un parente lontano. Deve smetterla di ritenere per scontata la mia adorazione. Anche se, in fondo, lo è. Scrivo ai miei e a Milena, poi spengo il cellulare e sprofondo nel letto.
Nota Autrice: Anna è capitata proprio in un bel guaio! Già il suo stato emotivo non era dei migliori, visto il comportamento di Marco... E far riaffiorare certi ricordi può essere assai pericoloso... chissà cosa accadrà...
Inserite la storia in biblioteca ;-)
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