Capitolo 5: Accendiamo le stelle
Isabelle
"Mi spieghi dove devi andare anche questo fine settimana?" mi chiede Daniel, mentre il suo francese si fa più duro e lui sempre più scontroso nei miei confronti. "Etrò fa un evento importante in Italia prossima settimana ed io devo andare a fare un sopralluogo" cerco di tranquillizzarlo, mentre spalmo un po' di marmellata su una fetta di pane. "Io arrivo e tu parti. Non ci vediamo mai, Isabelle" mi sussurra avvicinandosi a me e sedendosi al tavolo, sorseggiando un goccio del suo caffè americano. "Lo so amour, mi dispiace. So che è difficile stare sempre lontani, ma quando torno abbiamo ancora qualche giorno prima che tu riparta." cerco di essere razionale e calmare la situazione il più possibile. "Lo so, ma starò via tre cazzo di mesi, speravo di poter passare un po' più tempo con te, non cinque fottuti giorni" mi dice demoralizzato, alzandosi e andando vicino al lavandino a sciacquare le stoviglie della colazione. "Posso venire con te?" mi chiede, voltandosi verso di me, con i suoi capelli lunghi e neri che gli ricadono sulle spalle nude. "No, purtroppo no. Non sai quanto vorrei portarti con me, ma non posso in queste occasioni, lo sai." mi avvicino a lui, stringendolo da dietro e posando le mie mani sui suoi addominali scolpiti.
Poche ore dopo sono finalmente in aeroporto, con un rimorso nel cuore che mi spacca il petto, ma una telefonata mi scuote dalla mia pausa sigaretta, mentre aspetto il mio volo per l'Italia. "Ehi" rispondo io, sorridendo quasi di riflesso. "Che bello sentirti" mi dice Filippo dall'altro capo del telefono e mi sembra di vederlo sorridere persino da qui. Dopo la discussione fuori da quella discoteca parigina, abbiamo pensato di chiudere. Ci siamo guardati la mattina dopo in aeroporto ed era come se ci stessimo dicendo addio. È stato difficile persino comporre quel pensiero in testa e renderlo reale. Lui ha preso quell'aereo per tornare a casa e non ci siamo sentiti per quasi due mesi. Lorenzo per tutti quei giorni mi è stato accanto, facendo avanti ed indietro tra Milano e Parigi. Un po' con me e un po' come Filippo, dividendosi in due e garantendo ad entrambi la parte migliore di se stesso. Tutte le notti parlavo al telefono con il mio migliore amico e non facevo altro che chiedermi come avrei fatto senza Filippo, proprio ora che ci eravamo ritrovati. Ci abbiamo provato, forse perché la consapevolezza di dovermi in qualche modo dividere con un altro, lo faceva arrabbiare nel profondo. Né un messaggio, né una chiamata, nemmeno un semplice come stai. Il nulla più assoluto, difficile e doloroso mai provato in vita mia. Lui con la sua vita a Milano, io qui a Parigi. Lui a fare le prove del tour estivo, io ad organizzare eventi di moda. Lui con i nostri amici di sempre a fare le prima grigliate di stagione, io con Nicole a prendere il sole sulla riva della Senna. Lui ed io, legati da un destino feroce, ma con un sentimento ancora così forte da non spezzarsi. Nonostante le vite differenti, i chilometri di distanza, le ferite evidenti, l'orgoglio maledetto. Io e lui, che impariamo a mettere da parte tutto per una volta, godendoci ciò che la vita saprà regalarci.
"Sto per partire" gli dico, posando le mani sul mio trolley. "È stato difficile?" mi chiede riferendosi a Daniel, rimasto a casa ad aspettarmi. "Si, se ne andrà per tre mesi Fil, mi sento una merda" sospiro, passando le dita sulla pelle della mia coscia nuda. "Resta lì se non te la senti" mi risponde lui, con una tranquillità disarmante e una voce decisamente seccata. "No, ho un folle bisogno di stare con te" e lo sento sorridere, mentre spegne una sigaretta e si infila la mano tra i capelli. Lo immagino come fosse qui davanti a me e potessi avere la fortuna di vederlo. "Ti vengo a prendere in aeroporto" chiude la telefonata, mandandomi un bacio di sfuggita e correndo probabilmente a prepararsi.
Lo vedo poggiato alla sua macchina nera sportiva, mentre si accende una sigaretta e la stringe alle labbra rosate. Indossa una t-shirt nera e un paio di jeans chiari, un cappellino in testa e un paio di anfibi anch'essi neri. È intento a messaggiare con qualcuno, mentre di tanto in tanto alza la testa guardandosi intorno, cercandomi. Decido di prendere il mio cellulare dalla borsa e comporre il suo numero, che so ancora a memoria nonostante siano passati anni. Mi risponde sorridendo e vorrei poter fermare il tempo appena lo fa, così da potermelo godere per sempre. "C'è stato un guasto, partiremo tra tre ore" gli dico con la voce distrutta, a cercando di far andare in porto lo scherzo. Lo vedo rabbuiarsi di colpo, mentre si leva la sigaretta dalla bocca e la getta a terra, a qualche metro di distanza. "Io devo partire per le prove" dice dopo qualche secondo, fissando il vuoto davanti a se, come a cercare una papabile soluzione nel più breve tempo possibile. Io non parlo, avvicinandomi piano piano a lui, cercando di fare meno rumore possibile, così che non se ne accorga. Arrivo dal lato passeggero della sua macchina, quando si volta di colpo e si accorge della mia presenza. Mi corre incontro, prendendomi in braccio e facendomi girare su noi stessi, almeno dieci volte. Poi mi posa a terra, tenendomi comunque stretta dai fianchi e mi lascia un tenero bacio all'angolo della bocca. "Cazzo, sei qui" mi sussurra, stringendomi ancora a se e facendomi sentire sul tetto del mondo. "Con te" gli rispondo io, lasciando che le mie labbra si posino sul suo collo profumato. "Dobbiamo correre" dice ridendo, sgranando gli occhi quando vede l'ora sullo schermo del suo cellulare. Mi da la mano e mi fa salire in macchina, mettendo poi nel bagagliaio la mia valigia e accendendo di corsa il motore, sfrecciando ad una velocità quasi spaventosa, che se non mi fidassi ciecamente di lui penserei seriamente di prendere un taxi.
Siamo arrivati alle prove del concerto già stanchi morti, visto che Filippo ha dovuto premere il pedale dell'acceleratore per tutta l'autostrada. E una volta finito il sound check, abbiamo sentito l'esigenza di andare in albergo a riposare per un po', prima del concerto di questa sera. Lo guardo con gli occhi chiusi accanto a me, mentre gli accarezzo il braccio per farlo rilassare ancora di più. Dopo poco si sveglia, regalandomi un sorriso appena apre gli occhi ed io mi sento così dannatamente fortunata. "Voglio stare in mezzo al pubblico stasera" gli dico, avvicinandomi a lui e baciandogli la guancia. "Perché?" mi chiede incuriosito, infilandosi un dito tra le labbra. "Voglio sentire cosa si prova a vederti conquistare un sogno." gli sorrido, avvicinandomi a lui e lasciandogli un bacio nel collo. "Canterò per te, signorina" mi sorride anche lui di riflesso, per poi alzarsi e infilarsi una maglietta. Manda qualche messaggio al cellulare, per poi spiegarmi come muovermi all'arena e a chi chiedere il pass per accedere, così da poter guardare il concerto dalla prima fila. "Ci vediamo lì" lo saluto, uscendo dalla stanza d'albergo.
Lo spettacolo sta per iniziare ed io sto finendo una sigaretta, mentre scambio qualche messaggio con Filippo che si sta preparando dietro le quinte. I miei occhi si riempiono di queste persone attorno a me, chi con una fascia tra i capelli, chi con una maglietta con qualche frase di una canzone, chi canta ancora prima di iniziare e tutti, indistintamente, con un grosso sorriso spiaccicato sul volto. Li osservo uno per uno, persone di tutte le età, felici ed elettrizzate all'idea che stia per cominciare l'evento. Lo vedo nei loro occhi cosa significa aspettare e avere la consapevolezza che quel conto alla rovescia sta per terminare, che è tutto vero e quel sogno sta per diventare realtà. Chi ha comprato i biglietti mesi fa, chi ha macinato chilometri pur di esserci, chi ha accompagnato qualcuno, chi si è ritrovato sotto questo palco, chi ha stretto amicizie, chi sorride senza nemmeno conoscersi, chi non smette di farsi foto per immortalare questo momento, chi già piange, grida, è euforico alla sola idea di vedere Filippo salire su questo palco. Il concerto alla fine è proprio questo: la follia di ore di attesa, le gambe che tremano, la batteria del telefono scarica, gli abbracci e le canzoni che custodisci dentro gelosamente, urlate a squarciagola nel giro di una notte. È un viaggio indimenticabile nelle emozioni, un treno che vorresti non si fermasse mai, un susseguirsi di fotografie che la tua memoria proteggerà per sempre.
Ci sono due ragazze accanto a me, avranno più o meno la mia età e non fanno altro che urlare il nome di Filippo a tutta voce, parlando delle canzoni e di quello che sta per accadere. Ed io le ascolto, perdendomi nei loro discorsi, come se non lo conoscessi e imparassi a farlo solo tramite le loro parole. Parlano di quanto sono orgogliose di lui, di quanto stia crescendo, di quanto la sua musica sia ancora nei momenti più disperati. Poi passano a Lorenzo, alla loro amicizia così solida da poter superare qualsiasi difficoltà, del loro 'dal giorno zero', del sogno di poter avere al fianco un fratello come sono loro, l'uno per l'altro. Rimango stupita, in modo assolutamente positivo, dai loro discorsi così accurati e puri. Io lo conosco, so benissimo come è fatto Filippo e, anche se non lo vedo da sei anni, so che è una persona che parla poco di se, che non si apre facilmente. Ha sempre avuto solo la musica come valvola di sfogo e adesso, credo che la sia ancora di più. Ed è bellissimo che riesca a farsi conoscere attraverso le sue canzoni, i suoi sorrisi imbarazzati, gli abbracci caldi che riserva a qualche instore, la purezza che ha nell'animo. Ma quello che mi lascia ancor più felice è quanto le persone riescano a percepirlo, a capirlo, a lasciargli il proprio spazio e ad amarlo tra i versi delle sue canzoni, nelle parti più vere che Filippo riesce ad esprimere.
Dopo poco arriva Lorenzo, che mi fa approdare di nuovo nel mondo reale, facendo spegnere i miei pensieri nella testa. "Buon concerto, Lilo" si avvicina e mi abbraccia, mentre la transenna che ci divide si infila nelle costole e ci fa male. "Buon lavoro a te, Stich" gli lascio un bacio nella guancia, mentre il pubblico dietro di noi urla il nome del mio amico, che in modo imbarazzato alza una mano per salutare. Le ragazze di fianco a me continuano a guardarmi, mentre timidamente fanno finta di niente, non sapendo come attaccare il discorso. "Ciao" le saluto, avvicinandomi un po' di più a loro. Ricambiano il saluto, intimidite come se avessero di fianco una specie di celebrità. "Tranquille, non sono un alieno" scherzo, mentre anche loro scoppiano a ridere insieme a me. "Piacere, io sono Isabelle" mi presento, mentre loro dicono di chiamarsi Chloe e Sophia, due nomi particolari e molto belli. Chiacchieriamo per un po', conoscendoci un po' meglio e cercando di far passare più velocemente i minuti che mancano all'inizio dello spettacolo. "Posso chiederti una cosa?" la ragazza con i capelli più chiari mi guarda, sorridendo in modo così discreto, da diventare minuscola. Io le accenno un si con la testa, aspettando di sapere la sua domanda. "Co - conosci Lori?" mi chiede, imbarazzandosi tremendamente dopo avermi fatto la domanda. "Si, abbastanza bene direi" le sorrido di risposta, che quasi non so cosa fare per quanto i suoi occhi brillano parlando di lui. "Conosco bene anche Filippo, vi ho sentite parlare prima e mi sono emozionata nel notare quanto gli volete bene" le due si illuminano e leggo un po' di orgoglio nei loro occhi, è sicuramente una cosa importante che una persona che conosce bene Fil, possa fare dei complimenti così sinceri. "Sta per iniziare!" urla Chloe, alzando le braccia al cielo, felice, tanto felice. "Se volete dopo ve li faccio conoscere" gli dico, mentre Filippo sale sul palco e Chloe e Sophia quasi non si mettono a piangere per quello che ho appena detto.
"Sono simpatiche quelle ragazze" mi dice mentre si asciuga il collo con un asciugamano e beve un sorso di birra. Sophia e Chloe stanno parlando con gli altri e sembrano essere parte di questo gruppo da sempre, quasi la loro sensibilità nell'aver percepito tutte le emozioni di questi ragazzi, le avesse automaticamente rese parte di tutto questo. "Sei stanco?" gli chiedo, avvicinandomi a lui e stropicciandogli i capelli. "Un po'" chiude gli occhi, abbandonandosi con la testa all'indietro, appoggiandosi al muro. "Vorrei portarti in un posto, ci vuole circa un'ora e mezzo da qui" gli dico, sfiorando con le mie dita la sua mano e intersecandola alla mia. "Ma possiamo dormire in questo posto?" ride, che gli occhi gli si illuminano così tanto che mi sembra di non vedere altro. Io annuisco, accarezzandogli una guancia delicatamente. "Va bene, però guidi tu" mi dice alzandosi e prendendo la sua roba velocemente. "Sicuro?" gli chiedo, facendo riferimento alla sua macchina super sportiva, che solitamente non fa guidare mai a nessuno. Lui di risposta inizia a salutare tutti, ringraziando per il fantastico concerto e mantenendo un occhio di riguardo per le ragazze appena conosciute, così dolci e premurose nei suoi confronti.
Dopo mezz'ora da quando siamo partiti da Genova, Filippo si è addormentato sul sedile del passeggero. La testa di lato, poggiata al finestrino, la bocca leggermente schiusa e le braccia incrociate attorno al corpo. La musica mi tiene compagnia, mentre qualche canzone della mia playlist preferita riempie l'abitacolo. Guido da sola, in piena notte, con l'autostrada vuota e mi sento libera. Dopo sei anni mi sento leggera, come dovrebbe giustamente sentirsi una ragazza della mia età. Canto forte, fumo qualche sigaretta e tengo le mani strette al volante, fissando la strada dritta davanti a me. L'asfalto liscio scorre sotto le ruote dell'auto di Filippo ed io non faccio altro che pensare al destino. A quel filo invisibile che lega due persone e, quasi per magia, le fa incontrare. Persino dall'altra parte del mondo, distrutte, arrabbiate, deluse da una vita che non gli ha regalato ciò che meritavano. Il destino scorre inesorabile, come il tempo, proprio come questo asfalto che corre insieme agli pneumatici. Non si ferma mai quel dannato destino, nemmeno quando ti fa uno sgambetto così meschino, da farti precipitare in un burrone. Lui va, segue la sua strada senza fare soste, senza avere pietà. Scorre come le lancette di un orologio, come i giorni in un calendario, che chiudi gli occhi e cresci, vivi, respiri, senza nemmeno rendertene conto. E i mesi passano, gli anni pure e in un istante il tempo ti passa davanti agli occhi, lasciandoti più vuoto, più triste, a volte persino più solo. E al destino non fai pena, lui prosegue inesorabile lo stesso, ti ferisce a volte, ti opprime, ti infastidisce persino. A volte ti sorprende però, come quando sei sulla riva del mare di sera e all'improvviso scoppiano i fuochi d'artificio. Sa essere dannato il destino e allo stesso tempo così incredibile da toglierti il fiato, per le risate o per il dolore, non fa differenza. Però al destino non si può cambiar rotta, è l'unica cosa che da quando apriamo gli occhi la prima volta, a quando li chiudiamo per l'ultima, è già decisa e non cambia. Prosegue la sua corsa, come una moto su una pista e corre, corre sempre più forte. Ti spinge a superare i tuoi limiti, ti fa accasciare quando ti accorgi che quei limiti li hai superati e ti hanno sopperito, ti fa brillare e toccare il cielo, ma anche cadere a terra e strusciare sullo sterrato. Lui va, sta a te se stargli dietro o provare a disertare la sua strada. Tanto a prescindere, qualsiasi cosa tu decida di fare, lui ti trova e ti mette a contatto con la parte più viscerale e nascosta di te stesso. Il destino incrocia occhi, labbra, corpi, fa scrivere canzoni, fa piangere lacrime, fa colorare cieli, fa innamorare giovani, fa perdere il senso della vita, ma fa anche ritrovare amori che nonostante i giri immensi, poi alla fine tornano sempre. Il destino è parte della vita di ognuno, anzi forse è la vita stessa, che continua implacabile, nonostante tutto.
"Ehi" lo scuoto delicatamente, cercando di svegliarlo dal sonno profondo in cui è caduto da tutto il viaggio. Mugola per qualche secondo, prima di accorgersi che ho parcheggiato e la macchina è ferma. "Siamo arrivati" gli dico, accarezzandogli i capelli e sorridendo davanti al suo viso dolcemente assonnato. "Scusa, sono un pessimo passeggero" dice Filippo, dopo essersi slacciato la cintura e stiracchiato un po' i muscoli indolenziti. Io alzo le spalle, come a dirsi di non preoccuparsi troppo, che un viaggio con me stessa, forse, era quello che mi ci voleva. Scende dalla macchina e mi viene incontro, lasciandomi un tenero bacio tra i capelli tirati su in modo disordinato. "Vieni con me" gli dico, prendendogli la mano e iniziando una piccola salita da percorrere a piedi per qualche minuto. Dopo pochissimo uno scorcio di mare immenso e scurissimo si apre davanti ai nostri occhi, mentre sopra le nostre teste un cielo pieno di stelle ci accompagna davanti ad un portone di legno scuro. Cerco le chiavi in modo confuso nella borsa, che non riesco mai a trovarci nulla, che sembra quasi le cose qui dentro spariscano in un altro universo. "Benvenuto" gli sussurro, aprendo la porta e mettendomi da una parte, lasciando che lui possa entrare per primo. Accendo le luci e una sorta di aria di casa mi pervade le ossa, inebriandomi di un profumo così speciale, da essere per me unico. "È bellissima" mi dice abbracciandomi e sorridendo di cuore, vedendo probabilmente la mia faccia felice come poche volte. "È casa mia" gli dico, facendo una giravolta in mezzo al salone e buttando la borsa sul divano, poco distante. "Vieni" gli sussurro vicino all'orecchio, prendendolo per mano un'altra volta e portandolo al piano di sopra, nella camera da letto. Gli faccio cenno di appoggiare i bagagli per terra, mentre apro le finestre così da fare entrare un po' d'aria attraverso le persiane. Filippo si guarda intorno spaesato, come se quasi avesse imbarazzo nel muoversi in questa stanza. I suoi occhi girano e rigirano, osservando ogni singolo dettaglio della camera, quasi stesse facendo un viaggio all'interno della mia vita. Un frammento di storia che sembra non appartenergli più, come se fosse ormai estraneo a tutto, persino a trovarsi a suo agio in una stanza insieme a me. "Perché qui?" mi chiede curioso, mentre gli porgo una birra ghiacciata appena tolta dal frigo. Mi siedo a terra, posando la testa contro la parete e assaporando l'aria di questa casa, di questo posto per me magico. "Qui ho ritrovato me stessa" mi guarda stranito, come se la sua Isabelle fosse diversa dal ricordo nella testa, quasi mi dovesse scoprire di nuovo. "Quando ho perso nostro figlio e ho perso te, sono fuggita a migliaia di chilometri di distanza senza nemmeno voltarmi indietro. Come se avessi la presunzione di credere di potercela fare da sola, come se un fottutissimo volo in aereo potesse cancellare quel dolore e renderlo della stessa sostanza delle nuvole. Non sono tornata in Italia per un po' di tempo, cercando di ricostruire una vita distrutta, in una città che sembrava starmi stretta. Le passeggiate lungo la Senna sono meravigliose, ma il mio cuore aveva bisogno di mare." mi interrompo un istante per bere un sorso di birra, guardando Filippo spostarsi e sedersi di fronte a me. "Ho trovato questo posto per caso, durante un viaggio in treno per lavoro, dal finestrino ho visto scorrere decine di casette colorate e una costa verde bosco, così intensa da restarmi impressa. Appena ho potuto sono venuta qui, era Aprile, l'aria ancora fredda ma c'era quel sole tipicamente primaverile, quello che ti fa venire voglia di gonne corte e abiti leggeri, piedi scalzi e sapore di salsedine. Sono scesa da quel treno e ho camminato qualche minuto, finché non ho visto lo stesso scorcio di mare che si vede al di là della finestra di questa stanza. Ho preso la rincorsa e mi sono tuffata completamente vestita, quasi fossi folle. Da quel giorno in questo mare mi ci sono buttata così tante volte da sentirmi mancare il fiato, ho visto i suoi fondali, i suoi giorni di tempesta, il sole farlo diventare olio. Ho nuotato con il silenzio assoluto attorno, in momenti in cui le persone indossano ancora il piumino leggero e mi sono immersa con le grida dei bambini solleticati dalle onde, in una giornata afosa d'agosto. E qui, durante una passeggiata, esattamente di fronte a questa casa, l'anno scorso ho trovato un sasso." lo cerco alla rinfusa dentro alla borsa, porgendoglieli con delicatezza tra le mani. "Sembra un occhio, è incredibile" sussurra Filippo, rigirandoselo tra le dita di continuo. "Già, ho pensato ad un segno del destino, perché infondo sono sempre la solita stupida romantica. Ho creduto e credo ancora che quel piccolo sassolino azzurro abbia qualcosa di magico. Ho rivisto i tuoi occhi lì dentro e anche quelli che speravo fossero quelli del nostro bambino. E quando ho alzato la testa ho letto la scritta in vendita, appesa alla finestra di questa piccola casetta. Non avrei potuto voltarmi altrove, non di nuovo." finisco la mia birra, posandola a terra accanto a me e fissando Filippo, che distrattamente osserva il pavimento, quasi fosse rimasto senza parole. Si accende una sigaretta, porgendo il pacchetto anche a me, invitandomi a prenderne una nel silenzio più religioso. Fumiamo uno di fronte all'altra, senza dire una singola parola, con la sua mano che di tanto in tanto cerca la mia gamba, quasi i suoi gesti parlassero al suo posto. Non ci guardiamo nemmeno, se non di sfuggita per qualche millesimo di secondo, quasi la paura di essere qualcosa si potesse tagliare con il coltello. Il mio fumo che si confonde alla sua pelle, il suo che si incastra tra i miei capelli, ci fumiamo addosso la vita ma non sappiamo dircelo. Poi si alza, cammina verso la finestra e la spalanca, appoggiandosi al davanzale con i jeans sbottonati e la schiena nuda, quella pelle bianca e i muscoli delle braccia tesi a sorreggersi. Respira a pieni polmoni per parecchie volte, fissando il mare nero di fronte a lui e cercando risposte, forse addirittura domande a cui non sa trovare un senso. "Vieni" lo invito vicino a me, sdraiata a letto a pancia in su, intenta a guardare una piccola finestra posta sul soffitto. Filippo si avvicina piano, quasi volesse che la sua presenza non facesse rumore. Si adagia accanto a me, lasciando che il suo braccio si posi sotto la mia testa e che la sua spalla mi faccia da cuscino. Di nuovo il silenzio la fa da padrone, lasciando che sia il rumore delle cicale a fare da sottofondo. "Spegni la luce che voglio le stelle" mi chiede, voltandosi verso di me e facendo quasi sfiorare i nostri nasi, che i visi sono così vicini da far battere un po' il cuore. Stiamo zitti, senza lasciarci fuggire neanche un respiro più forte dell'altro, come se in questi istanti avessimo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Come se le parole fossero solo un mezzo per riempire uno spazio già di per se, completo. Filippo si volta verso di me, girandosi su un fianco e lasciando che la sua gamba si posi sopra la mia, in un intreccio che mi fa sentire un piacere strano. "Qual è il tuo colore preferito?" mi chiede con due occhi così brillanti che sembra gli siano entrate le stelle dentro. "Boh, credo arancione" rispondo ridendo, come se quella domanda così semplice mi sembrasse strana. "E il tuo animale preferito?" gli chiedo io questa volta, voltandomi verso di lui e perdendo i ad osservare i dettagli del suo volto. "Cane, senza ombra di dubbio" risponde lui categorico, facendo delle smorfie buffe con le labbra. "Canzone preferita?" mi domanda di nuovo ed io scoppio a ridere sonoramente, dicendogli che sembra quel gioco delle cento domande che fanno i ragazzini di dodici anni. "Another love" dico, socchiudendo gli occhi e godendomi il suono che il mio cervello mi fa vivere. "Fiore preferito?" gli chiedo io, mentre lui in modo molto scontato risponde la rosa, marcando ancora una volta il discorso legato al significato delle spine e della delicatezza. Continuiamo così per minuti infiniti, come dei bambini che scoppiano a ridere per ogni piccolezza. Stiamo scoprendoci di nuovo, come se prima d'ora non ci fossimo mai conosciuti, come se forse non fossimo semplicemente più quelli di prima. Man mano le domande si fanno sempre più impegnative, alcune dolorose persino, alcune persino con una punta di crudeltà. "Qual è il posto che ti manca di più in assoluto?" gli chiedo io, accarezzandogli il braccio nudo. "La cucina di mia nonna" si morde il labbro mentre lo dice, alzando gli occhi al cielo e cercando quello sguardo amorevole nel cielo stellato. "Il momento che rivivresti all'infinito?" mi chiede lui sorridendo, come se quella domanda l'avesse fatta anche a se stesso e un ricordo gli stesse riaffiorando in testa. "Quella sera di luglio in cui, ubriachi fradici, abbiamo fatto l'amore in barca"
"Non ho mai vissuto un'emozione così" mi risponde subito lui, fumando un tiro dalla sua sigaretta accesa tra le dita. "Il momento peggiore?" mi chiede ancora, facendomi saltare il turno. "Cazzo, quella notte" lo dico con una consapevolezza disarmante, tanto che ogni singola volta è come se mi entrasse un pugnale nel petto. "Il tuo rimorso più grande?" gli chiedo io dura, come se la sua domanda mi avesse fatto male. "Averti abbandonata quella notte, nel nostro momento peggiore" mi risponde con gli occhi lucidi, voltandosi subito dall'altro lato per non farmi notare la sua debolezza. E quel nostro mi uccide, come se stessimo davvero condividendo un dolore assurdo per due ragazzi giovani come lo siamo noi. Come se quella notte avessimo perso un figlio visto solo nelle ecografie, ma in realtà sognato ogni istante nelle nostre notti in bianco. Come se il suo momento peggiore fosse anche il mio e viceversa, così che il dolore non fosse più singolo ma condiviso. Come se il peso portato su due spalle potesse risultarci più leggero e quasi riuscissimo a conviverci con la consapevolezza di aver perso tutto, di colpo, nel tempo di qualche misero minuto. Un amore immenso, un piccolo esserino nostro, un pezzo di noi stessi, un abbraccio, un bacio, un futuro.
"Scusami, devo stare un attimo da solo. Scusami" mi sussurra, accarezzandomi il viso e alzandosi dal letto, dirigendosi al piano inferiore e subito dopo fuori dalla porta. Lo lascio andare senza dire nulla, come se la condivisione di quel dolore non alleggerisse proprio niente. Continuo a fissare il soffitto e tra quelle stelle penso che ci sia anche la nostra, quella più piccola ma anche più luminosa di tutte le altre. Poco dopo mi affaccio alla finestra della camera e lo vedo seduto nella spiaggia di fronte a casa, intento a fissare un punto all'orizzonte. Sta lì per un po', immagino stia respirando profondamente perché il suo dolore fa male quanto il mio e quando si sveglia sembra non farti prendere aria, come se dentro ai polmoni ci fosse solo sofferenza. Si alza, prende la ricorsa e si butta in mare e comincia a nuotare, nuotare, lo fa forte e senza fermarsi. E così, in mezzo al mare scuro della notte, si abbandona con la pancia rivolta verso il cielo, facendosi trasportare dalla corrente man mano fino a riva.
Filippo
Il vociare delle persone sotto la finestra mi sveglia, sembra di aver dormito un'eternità invece sono solo poche ore. Mi tiro su sulle braccia, mentre osservo Isabelle fare colazione poco distante da me, intenta a bere un cappuccino e leggere qualche notizia sul telefono. Ha i capelli spettinati, la pelle di un colore dorato e la spallina della sottoveste scesa. Si volta di me, salutandomi e augurandomi un buon giorno, mentre con un cenno degli occhi mi indica una tazza di caffè. Non sbiascico nemmeno una parola, ma lei sembra capirmi lo stesso. Si avvicina a me, sedendosi sul piumone leggero bianco e porgendomi il caffè bollente, appena fatto, proprio come piace a me. I nostri occhi si incrociano ed ogni volta che lo fanno è come se fosse la prima e cosi, come per istinto, le lascio un bacio a fior di labbra. Come due che si sono svegliati insieme, si amano e fanno colazione in una meravigliosa casa al mare, mentre progettano le prossime vacanze, cosa cucinare per pranzo e ogni quanto fare l'amore. Così, come se lei fosse la mia metà e l'attrazione tra di noi fosse come una calamita. Poco dopo si alza, mi accarezza il viso e si dirige verso la porta del bagno, togliendosi maliziosamente la sottoveste che indossa davanti ai miei occhi e facendo un pezzo del tragitto completamente nuda, con la curva della schiena tatuata e quel sedere tondo che ancheggia da una parte all'altra. Rispondo distrattamente a qualche messaggio sul cellulare, mentre sgranocchio un biscotto al cioccolato e finisco il mio caffè. Quando ad un certo punto la sento cantare da lontano, mentre l'acqua della doccia scorre e lei fa il suo concerto personale. Mi diverto da morire mentre intona qualche canzone tra le sue preferite o ancora alcune con quel suo francese perfetto che la rende dannatamente sexy. Chiude l'acqua ed esce dalla doccia, avvolgendosi nel suo accappatoio bianco e sistemandosi un altro asciugamano sui capelli. Mi incanto ad osservare ogni suo movimento, come se quelle mani fossero musica per me, come se tra i suoi gesti si nascondesse la perfetta melodia in grado di farmi innamorare. Si spalma la crema sulla pelle, che sono sicuro di sentire il profumo di cocco fin qui, con i polpastrelli fa avanti e indietro sulla carne ed io comincio a pensare che se continuo ad osservarla così rischio davvero tanto. Mi accendo una sigaretta per distrarmi, quando sento la sua voce intonare una canzone a dir poco famigliare ed il mio respiro si blocca per un istante. Isabelle continua, con una voce così candida da sembrare una bambina indifesa, mentre io inizio a sentire il cuore battere talmente veloce da piegarmi il respiro. È Icaro e lei mentre la canta è davvero bella da confondere, esattamente come la immaginavo quando l'ho descritta questa canzone. Man mano si avvicina a me, che fisso un punto nel muro bianco davanti ai miei occhi, non essendo in grado di fare nient'altro. Mi guarda fissa nelle pupille, che mi sembra di aver intuito dentro il petto un'esplosione così forte da farmi scuotere, poi mi prende la mano, accarezzandola per qualche secondo. "Che non ho più scuse per dirti rimani, che ho solo paura di alzarmi domani ma senza di te, senza di te" mi sussurra, mentre una lacrima mi sfugge cadendo sulla pelle bianca del mio petto e lei prontamente me la asciuga, baciandosi il pollice con cui l'ha appena fatto. Lascio che vada a vestirsi senza dire nulla, cercando di far tornare il mio battito cardiaco alla normalità, anche se sembra la cosa più difficile del mondo. Sentirla cantare una delle mie canzoni mi ha spezzato in due, completamente. Mi ha lasciato nudo, io che fragile e senza difese proprio non riesco a farmi vedere. Mi ha fatto emozionare, senza nemmeno chiedermi il permesso, come se lei potesse persino permettersi di togliermi di dosso i mostri e rinchiuderli in un baule, di cui solo lei conosce la combinazione.
"Posso portarti in un posto, ti va?" le chiedo, mentre mi infilo gli occhiali da sole e la scruto sistemarsi il rossetto sulle labbra. Lei alza e abbassa la testa, accennando un flebile si e nient'altro, come se quasi avesse paura di domandare.
Questa casa non ha più quell'odore di buono che aveva prima, sa solo di aria chiusa mischiata a polvere. Nessuno ha più aperto queste finestre, spolverato i soprammobili o cucinato qualche buon piatto sui fornelli. Sembra che sia la scena di un film, di quelle stanze i cui mobili sono coperti da teli di plastica e nell'aria si liberano le particelle di polvere, visibili contro la luce del sole. Mi sembra di tornare indietro nel tempo e farmi sempre più basso e più biondo, come quando ero un bambino e questa era la mia casa. Ora è silenzio, assoluto e fastidioso, di una perdita incolmabile che non passa con il tempo. Dicono che il passare degli anni dovrebbe curare le ferite, fino a renderle quasi cicatrici dello stesso colore della pelle, ma io non ci ho mai creduto. Quel tempo non passa, non migliora, né tantomeno riesce a colmare un cuore ormai frantumato. Non può essere così forte da spezzare un legame, trasformato in morte, in dolore e dopo ancora in ricordo. Il tempo i ricordi non li sa annientare e allora lascia che sia il silenzio a provarci, lo stesso che arieggia in questa stanza. Non ci sono più le voci, il rumore del sugo che ribolle, la penna che scorre sulle parole crociate, le ciabatte che sbattono sul pavimento, le sue mani che toccano i miei capelli. E forse il silenzio è peggio del tempo, perché ti lascia un vuoto dentro, ti fa sentire triste e solo. Il silenzio fa persino vacillare i ricordi ed è una cosa di cui ho sempre avuto terrore: rischiare di dimenticare il suono di una voce che ho amato. Mi ha sempre terrorizzato anche solo pensarlo, ma tra queste pareti la sua voce squilla sempre forte, come se non fosse passato un giorno.
Mi sposto verso la sala da pranzo e la trovo accucciata a terra, che fissa con le lacrime agli occhi una fotografia, conservata sopra un piccolo mobiletto. Vado verso di lei e non posso fare a meno di sedermi dietro di lei per poterla abbracciare, appena vedo cosa ritrae quella foto. Lasciamo che per un po' il silenzio di questa casa invada anche i nostri corpi, tentando con alcuni singhiozzi di riempire un po' l'aria. La stringo forte a me, mentre la sua schiena sbatte contro al mio petto, quasi fosse arrabbiata di questo contatto, ma allo stesso tempo, non potesse farne a meno. "L'ha conservata, nonostante tutto" sussurra Isabelle, in preda ad una crisi di pianto davvero dolorosa. "Era così felice quando glielo abbiamo detto" la mia voce quasi si spezza, anche se cerco di non farlo percepire a lei, che ora come non mai ha bisogno della mia forza. La accolgo nel mio abbraccio, cercando di essere il porto sicuro delle sue fragilità, che lei cerca di nascondere costantemente.
Proprio come faccio io.
"Filippo, perché mi hai portata qui?" mi chiede, voltandosi verso di me e asciugandosi in modo rabbioso qualche lacrima. "Non lo so" rispondo socchiudendo gli occhi e buttando fuori tutto il fiato dentro ai miei polmoni. "Perché in questa cazzo di casa? Perché oggi? Perché mettermi davanti a questa cazzo di fotografia? Mi fa male, lo capisci o no?" mi chiede in un modo così duro da farmi stringere la mandibola talmente tanto, che penso di rompermi tutti i denti. "Pensi che a me non faccia male, eh?" gli chiedo io, guardandola dritta negli occhi e spaccandole le pupille con il mio ghiaccio. "Filippo, qui dentro abbiamo passato insieme i momenti più belli delle nostre vite ed io non riesco a far parlare i ricordi, mi fa ancora troppo male" abbassa la voce, sedendosi accanto a me e stringendo sempre tra le mani quella tenera foto. "I miei hanno provato a metterla in vendita qualche anno fa ed io sono completamente impazzito. Ti rendi conto? Mi avrebbero tolto tutto, o meglio, quel poco che mi restava della persona più importante della mia vita" mi poggia una mano sulla spalla, accarezzandola delicatamente. "Quando me l'hanno detto ho spaccato i vetri di quella piccola finestra, urlando come non avevo mai fatto in vita mia e forse, buttando fuori tutto il dolore che non ero riuscito a esprimere prima." deglutisco piano, come se mi venisse difficile parlarne persino con lei di una cosa così intima, come se spogliarmi mi mettesse sempre troppo in difficoltà. "Come avrei potuto dimenticare la sua voce dentro queste pareti? Buttare via i suoi vestiti e perdere per sempre il suo profumo? Gettare i mobili, le posate, i fiori finti? Come dimenticare le padelle a scaldare sul fuoco? Buttar via aghi e filo da cucire, grembiuli e gomitoli di lana? Isabelle, come avrei potuto pensare che bastasse ridipingere quattro pareti per dimenticare una persona o per lasciare che il dolore si potesse riporre in un cassetto come un vecchio maglione?" le lacrime mi scendono copiosamente dalle guance e piango come non facevo da secoli interi, come se questa casa sapesse proteggermi da me stesso e dalle mie paranoie. Lei non fa altro che guardarmi teneramente, passando le sue dita tra i miei capelli e arricciandoli. "Dopo quella mia scenata non ci siamo parlati per mesi, finché mia sorella è venuta a cercarmi dicendomi che lei sapeva tutto e che questa casa doveva restare a me. Ma sai che c'è? Questa casa è l'unica cosa che mi è rimasta, dopo che la vita mi ha strappato dalle mani la persona che mi ha amato più di chiunque altro. Praticamente, mi sono ridotto a fare una scenata ridicola solamente per avere un palliativo. Mi sono illuso che questo pavimento, questi divani, quei quadri, persino quei piatti potessero rivivere di lei, ma lei non c'è e non ci sarà più. Mai più, Isy." ogni volta che lo penso mi sembra di soffrire di più, come se il dolore non passasse mai, ma solo si amplificasse. "Ehi, adesso guardami" mi sussurra lei, prendendomi tra le mani il viso e voltandolo verso di lei. "Fil, ho riguardato tutto il tuo percorso ad Amici una notte dopo averti incontrato a Milano. E fa male a me, tanto, quindi posso solo immaginare quanto stia soffrendo tu. Ma Adri c'è, lo sai. È in questa casa, nelle sue cose ancora disposte in bagno in modo maniacale, nelle tue fotografie sparse ovunque, ma soprattutto è dentro il tuo cuore e in qualcosa che sai creare solo tu e sai cos'è? È il suono delle voci che si mischiano e diventano una sola quando, ad un tuo concerto, si crea la magia. Lei è li, tra quelle luci che brillano e ti guarda orgogliosa e fiera della persona che sei. Ne sono sicura" me lo dice con le lacrime che le scorrono sul viso e la voce che, nonostante tutto, rimane decisa. Mi fiondo tra le sue braccia, stringendola a me come non mai, quasi avessi bisogno di farmi scudo per far smettere al mio dolore di urlare.
"Quella foto? Non la molli più" le sorrido teneramente, accarezzando la fotografia con i polpastrelli e mordendomi il labbro così forte da farmi male. "Perché sto ancora così, Filippo?" mi chiede Isabelle in modo struggente, quasi il suo dolore si percepisse dalla frase. "È colpa mia, non meritavi tutto questo. Perdonami, ti prego" mi accuccio davanti a lei, infilando la testa sulla sua pancia. Lei mi accarezza i capelli, abbassandosi su di me e posando le sue labbra sulla mia testa, lasciando che le lacrime scorrano libere. "Eravamo belli" sussurra d'un tratto, accarezzando di nuovo la foto che ritrae le nostre mani unite a forma di cuore, sulla sua pancia tonda. Ed è vero eravamo belli, talmente belli che la vita ci ha tolto tutto e ci ha fatto così male da farci persino cambiare strada, perdendoci per anni interi. L'emozione di quella foto la ricordo ancora come fosse oggi, quando l'abbiamo detto a mia nonna, quando Lorenzo ci ha riempiti di fotografie, quando le mie mani non facevano altro che accarezzarle la pancia, quasi fosse la cosa più bella che avessi mai visto. "Possiamo esserlo ancora, fidati di me" le sussurro, baciandole l'orecchio. Lei continua a scuotere la testa, quasi le venisse difficile persino fidarsi di me in questo momento. "Dimmi solo che vuoi provarci, fammi un misero cenno e ti prometto che io resto, non vado da nessuna parte senza di te" ma Isabelle non pronuncia neanche una misera parola, mi guarda con uno sguardo così triste da spezzarmi dentro e farmi sentire una nullità. Come se il nostro nuovo inizio, avesse già il sapore di una fine imminente.
Angolo autrice
Buonasera a tutti,
vi lascio un bel capitolo per immergervi ancora di più nella storia di Isabelle e Filippo, sperando che vi piaccia.
Scusate il ritardo ma tra il lavoro, l'estate e qualche malanno non è facile trovare la concentrazione per un perfezionista come me.
Fatemi sapere cosa ne pensate qui sotto!
R. 🤍
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