Capitolo 2: Milano Parigi Madrid, solo andata
Filippo
La luce calda entra dalle finestre, che probabilmente ci siamo dimenticati aperte ieri sera, poco prima di addormentarci. Anche se, pensandoci bene, non ricordo neanche di essermi appisolato o di aver salutato Isabelle come avrei voluto. Uno di quei baci, dei suoi baci, labbra contro labbra, il suo sapore dentro la mia bocca, le nostre lingue che danzano l'unica musica di cui so seguire perfettamente il ritmo.
Ancora con gli occhi chiusi mi giro su un fianco, allungando il braccio sul materasso e cercando il suo corpo tra le lenzuola.
Ma lei non è qui.
Mi alzo di scatto, come se pensassi di aver appena assistito all'incubo più brutto della mia intera vita, anche se ho paura di ammettere che forse è semplicemente la cruda realtà. Mi guardo intorno spaurito, cercandola in ogni angolo di questa dannata stanza, che stamattina sembra essere molto più enorme di quanto la ricordassi. A passo veloce mi avvicino al bagno, cercando anche solo un briciolo della sua presenza anche lì dentro, ma non c'è. Mi poggio allo stipite della porta in legno, cercando di tirare un respiro profondo come quando ti manca l'aria dentro i polmoni e senti di aver finito ogni scorta. Mi sento vuoto, tutto attorno a me è vuoto, persino questa stanza così piena di mobili.
Ieri sera abbiamo parlato pochissimo anzi, per la maggior parte del tempo, abbiamo cercato di fare tutt'altro piuttosto che scambiarci anche solo uno sguardo. Ho passato la serata a guardarla di sottecchi, mentre tutta impegnata si concentrava a svolgere i suoi impegni e, cazzo, era così bella che avrei voluto avere la macchina del tempo per tornare indietro di almeno sei anni e qualche mese. Sentivo i suoi occhi addosso appena abbassavo i miei sullo schermo del telefono, intento a riprendere qualche conversazione con qualcuno del team. E nonostante tutti gli anni passati, tutte le cose condivise, il suo sguardo su di me, finirà sempre per farmi il solito, dannato effetto. Quella sensazione di brividi, quelle farfalle allo stomaco che non si fermano mai, quel sorriso spontaneo che ti si crea nel viso. Tutto tremendamente magnifico e non posso credere di averlo perso di nuovo.
I miei occhi finiscono su un pezzo di carta marroncina, poggiata sul comodino poco distante dal letto. Mi avvicino curioso e riconosco subito la sua calligrafia, in quello che sembra essere una specie di biglietto scritto molto di fretta. Come dopo una notte di passione, con un treno da prendere in stazione e le solite turbolenze nello stomaco. Che vorresti fuggire nel più breve tempo possibile, ma allo stesso tempo dentro di te già sai che quel letto, quella persona, ti mancheranno da morire.
Un'infinità di scuse, una successiva all'altra, come a far parte di un elenco telefonico. Scusa A, B, C, D. E cazzo, mi verrebbe voglia di farlo a pezzi questo pezzo di carta che tengo in mano, perchè quelle scuse non servono a niente. Serviva lei, qui, con me, in questo preciso istante. Risvegliarci insieme, ricostruire, parlare di tutte quelle ferite che ci portiamo addosso, di tutto questo dolore che ci tartassa da anni che sembrano essere diventati secoli. Non un elenco di scuse, non sottolineare quanto io sia giusto e lei così dannatamente sbagliata, perché non è così. Non lo è mai stato. Sono io l'unico colpevole, l'unico a dover chiedere realmente scusa, l'unico ad aver rovinato tutto.
Per sempre.
Sento il mio telefono vibrare sulla scrivania e mentre mi avvicino, spero di leggere il suo nome sul display.
Ma leggo Lori, solo Lori. Anche perché ho cambiato numero almeno tre volte negli ultimi due anni ed è impossibile che Isabelle ne sia al corrente.
"Dimmi" rispondo scocciatamente, che i pensieri che mi stanno frullando in testa sembrano avere un peso maggiore rispetto alle cose che dirà tra poco il mio migliore amico.
"Bro, ma dove cazzo sei finito ieri sera? Il negozio di Etrò ti ha risucchiato o ti sei rinchiuso in uno di quei sgabuzzini bui a scrivere qualche cazzata da infilare dentro a qualche canzone nuova? O peggio hai rimorchiato qualche commessa e hai fatto il porco come tuo solito?" scherza Lori, con una voce quasi marpiona, come se credesse che io abbia passato la notte a godermi la compagnia di qualche ragazza conosciuta per caso.
"Sono stato con Isabelle" gli rispondo secco e dall'altra parte sento solo il silenzio più assoluto per almeno due minuti.
"Isabelle chi?" mi chiede vago, quasi quel nome pronunciato dalle mie labbra lo facesse spaventare.
"Lori..." lascio il suo nome sospeso nel vuoto, come uno che non sa proseguire perché in quel burrone ci sta per precipitare.
"Dove sei? Ti vengo a prendere" mi dice, chiedendomi di mandargli la posizione su whatsapp nel più breve tempo possibile.
Passa poco meno di mezz'ora, che alla porta della stanza dove ho dormito questa notte con lei, sento bussare. È sicuramente Lorenzo, lo percepisco ancora prima di aprire, indice che per venire fino a Milano ha corso come un matto in macchina.
"Lorenzo Galli sarà meglio che ti ritiri la patente io, prima che lo faccia qualche agente di polizia stradale" gli spalanco la porta parlando, mentre la figura di Lorenzo se ne sta in piedi mostrando due birre in mano con faccia sorridente. Mi scosto da un lato, così da permettergli di entrare e appoggiare sul tavolino ciò che tiene in mano.
"Due birre alle 10 di mattina? Portare caffè e cornetto ti costava troppo?" gli chiedo ironico, mentre scuoto la testa pensando al fatto che probabilmente al bar l'avranno scambiato per un alcolista di primo livello, quelli che avrebbero bisogno di incontri settimanali, tutti seduti in cerchio a raccontare le loro dipendenze.
"Vuoi dirmi qualcosa di più serio o preferisci continuare ad attaccarti a qualsiasi futile argomento pur di non affrontare quello più importante?" mi domanda lui di getto, quasi innervosito dal mio comportamento superficiale.
"E che cazzo dovrei dirti, eh? Che l'ho vista? Che ci ho dormito insieme? Che stamattina mi sono svegliato solo e con quel cazzo di bigliettino poggiato sul comodino?" sono già nervoso, gli sputo in faccia parola dopo parola, una domanda retorica dopo l'altra, prendendola con l'unica persona che è venuta a salvarmi.
Anche questa volta.
Per l'ennesima volta.
Lorenzo si siede sul bordo del letto ancora sfatto, leggendo attentamente parola per parola seguendole una dopo l'altra con quei suoi occhi azzurro cielo. Poi se ne sta lì, fermo immobile, intento a mordersi il labbro e rimirare il pavimento scuro della camera d'albergo.
"Non sai che cazzo dire? Non trovi nemmeno una cazzo di misera parola in grado di tirarmi su il morale? -" silenzio, il più assoluto che ci sia mai stato tra me e Lorenzo in tutti questi anni. -" Mi dici che cazzo sei venuto a fare Lorenzo?" gli urlo in preda al nervoso più estremo, tirando un pugno contro il muro così forte da mandarmi il dolore alle stelle e farmi bruciare la mano fumo a farla sanguinare leggermente. Che tanto tra noi due, la persona più stronza e stupida al mondo, sono sempre io. Io che me la prendo ed urlo contro di lui, che ne ha già viste troppe, già vissute troppe per stare dietro alla mia vita, alla mia inutile irruenza, al mio nevrotico modo di fare nelle situazioni più estreme. Lui che assorbe tutto, stando sempre zitto, come una spugna in grado di asciugare tutto il dolore, portandolo dentro di se. Lui che da anni si porta i miei pesi sulle spalle, come se io vivessi in lui, come se ciò che fa stare male me di riflesso lo facesse anche a lui. Io che alle dieci del mattino non so che fare, vorrei scomparire, vorrei dormire fino a dimenticare tutto ed invece me la prendo con Lorenzo.
Come sempre.
Per l'ennesima volta.
Lorenzo si alza dal letto, mi viene vicino a passo spedito, non staccando mai i suoi occhi chiari dai miei. Si avvicina così tanto che io indietreggio fino a toccare la parete, fino a sentire il freddo del muro entrarmi fin dentro le ossa.
"Ora mi devi dire che cazzo vuoi fare. Non voglio sapere ciò che è successo o meno tra di voi ieri, me lo racconterai quando sarai pronto; ma devi dirmi che strada vuoi prendere. Ne esistono due: dimenticare tutto e vivere come fai da sei anni a questa parte oppure cercarla come se fosse l'unica cosa che ti resta da fare nella tua vita. Scegli tu Fil, ma sappi che io sarò al tuo fianco" me lo dice diretto, senza incespicarsi neanche per un istante, concludendo con una pacca sulla spalla, una delle nostre.
Che significano tutto.
Che profumano di ciò che vorremmo dirci ma che preferiamo tenere dentro di noi.
Io lo guardo fisso e man mano mi accascio al suolo, fino a toccare il pavimento ed è qui che sento veramente il silenzio più assoluto mai sentito. Non quello di poco fa, non le urla di sei anni fa, ma quello di adesso. Così freddo, scostante, vuoto da fare quasi paura.
Non parlo per minuti, forse per quasi un'ora. Il mio cuore corre come se stesse scappando da qualcosa di così brutto da fare spavento, ma dalla mia bocca non riesce ad uscire neanche un piccolo frammento di parola. Lorenzo sta qui da quando mi ha fatto quella domanda, esattamente al mio fianco, come ha promesso. Mi sento protetto da un amore fraterno così grosso che sono sicuro non potrebbe accadermi niente di male, anche se io sono una persona orribile e lo tratto sempre nel peggiore dei modi.
"Voglio cercarla, ho bisogno di lei come dell'aria che respiro." le uniche cose in grado di uscirmi dalla bocca, più forte di un urlo dritto dai polmoni, ma flebile come se la paura fosse davvero troppa e mi stesse soffocando come al solito.
"Allora alzati, prendi le tue cose e andiamo." mi dice il mio amico mettendosi in piedi e porgendoli la sua mano così da permettermi di alzarmi.
"Dimmi che almeno hai il suo numero di telefono" mi dice Lorenzo, intento a guardare davanti a se la strada, non distrandosi mai dalla guida della sua auto sportiva bianca. Lo guardo semplicemente, facendogli capire che purtroppo non ce l'ho salvato nella mia rubrica. O perlomeno non quello nuovo, ma quello vecchio. Quello che ho continuato a chiamare per mesi interi, anni forse, iniziando da quella maledetta mattina in cui i genitori di Isabelle mi hanno avvisato che nella notte aveva preparato armi e bagagli decidendo di cambiare vita, città, persino cuore forse, pregando i genitori di non dire niente a me.
Per nessuna ragione al mondo.
"Sai almeno dove alloggia, dove abita, che cazzo ci fa a Milano?" mi domanda ancora Lori, leggermente più infastidito di prima. Ma come dargli torto.
Scuoto la testa, di nuovo.
"So solo che lavora per Etrò, forse all'estero" rispondo, abbassando il capo e fissando il tappetino della macchina.
"Ah beh, bel punto di partenza Fanti" Lorenzo è ironico come non mai, che se potesse mi darebbe una testata in fronte così forte da farmi vibrare persino il cervello.
Forse per rinsavirmi un po'.
"Allora, ci vuole mente fredda. Partiamo dal negozio di Etrò, magari riusciranno a darci qualche informazione in più." mi invita calmo Lorenzo, che se non ci fosse lui adesso avrei già rischiato di combinare qualche guaio.
Entro nel negozio con un cappello a visiera sulla testa ed il volto basso, piastrella dopo piastrella, le conto tutte, quasi a perdermi in quelle. Come se fossero la mia unica ancora di salvezza, come se ripercorrendole come il giorno precedente, potessero riportarmi da lei. Come per magia.
"Ciao Filippo!" mi saluta la store manager con aria affabile, perché infondo è come se fossi nato qui dentro. Come se la mia arte entrasse in questi vestiti appesi, come se i miei ricordi di infanzia, mano a mano con mio padre, rivivessero tra le pareti di questo negozio.
"Ho bisogno -" nemmeno riesco a ricambiare i saluti da quanto sono distratto, distrutto. "- Isabelle, sai per caso come posso rintracciarla?" le chiedo con una voce quasi disperata, come se un suo piccolo aiuto potesse salvarmi. Addirittura, forse, cambiare le sorti della mia intera esistenza.
"Avevi bisogno di qualcosa in particolare?" mi chiede lei stupita, non riuscendo a capire quanto sia importante sapere dove sia Isabelle. La mia Isy.
"Devo - devo parlarle di una cosa lavorativa molto urgente, solo che ho perso il suo biglietto da visita." mi invento, allappando la lingua e balbettando anche un po'. Effettivamente raccontare balle non è mai stato il mio forte.
"Posso darti il suo numero di telefono, so che ha un aereo per Parigi in giornata, deve tornare a casa, magari riesci a contattarla prima che parta" mi dice sorridente, porgendomi un bigliettino con le cifre del suo numero scritte a penna blu.
La ringrazio di sfuggita, correndo fuori dal negozio come un ladro ed infilandomi nella macchina bianca di Lorenzo con la velocità di un fulmine. Ho ancora il fiatone quando il mio amico mi chiede come è andata ed io di risposta gli mostro il numero appena conquistato. Sblocco il telefono sempre con quel maledetto codice e le invio un messaggio.
"Sono Fil, ti prego dimmi dove sei. Ho bisogno di vederti ancora, ho corso per tutta Milano per rintracciarti. Non andartene così di nuovo, sai quanto fa male. Ti vengo a prendere a Parigi, giuro."
Faccio forse più di cinquanta chiamate a quel numero, ma non ottengo risposta, solo quelle maledette spunte blu di whatsapp. Così silenziose ed irriverenti, come un coltello che ti entra dentro e riesce a rigirarti la carne. Ferendoti con la sua lama sempre più a fondo.
Chiamo gli aeroporti di Milano senza avere risposte, mentre Lorenzo gira in lungo ed in largo Milano, percorrendo via dopo via. Come se fosse solo una piccola cittadina qualsiasi e bastasse un dettaglio per trovarla. Alterno le chiamate al numero di Isabelle a quelle di tutti gli hotel, bed and breakfast, appartamenti che trovo su google situati a Milano e sembra tutto un maledetto gioco a nascondino. Non la troverò mai, penso tra me e me, quasi sconsolato, disperato, annientato per averla persa di nuovo.
Il mio cellulare squilla e Lorenzo alza la testa dalla strada, i miei occhi si illuminano, ma poco ci vuole a farli spegnere perché quello che leggo sul display non è il suo nome.
"Pronto?" rispondo al telefono, con la voce di uno che sembra non dorma da giorni interi.
"Filippo, mi ha chiamato Isabelle, ha detto che alloggia al The Square e che nel pomeriggio ha il volo di rientro. Ho pensato di chiamarti perché ho capito che avessi l'urgente bisogno di incontrar -" non la faccio nemmeno finire di parlare, che la ringrazio quasi con le lacrime agli occhi per poi chiudere la telefonata e precipitarmi a quel dannato hotel in centro Milano.
Entro di corsa, che Lori non ha nemmeno ancora frenato e fermato la macchina. La hall è immensa, piena di gente che va da una parte all'altra, tutti vestiti bene, persone importanti provenienti da tutto il mondo ed io mi sento l'unico dannatamente fuori posto. Anche se forse, per la prima volta, sono proprio dove dovrei essere a tentare di fare l'unica cosa che dovrei fare in questo momento. Mi dirigo confuso al bancone della hall, per chiedere se qualcuno conosce il numero della sua camera, se possono darmi anche solo una dannata informazione riguardo a lei.
"Buongiorno, desidera qualcosa?" mi chiede gentilmente la signorina dietro al bancone, guardandomi attraverso le lenti dei suoi occhiali neri. E a me manca persino la voce per rispondere, cerco la saliva all'interno della mia gola, ma è tutto allappato, non ce la faccio nemmeno a parlare. "Si. Si...-" cerco di dire, con la poca voce che mi esce dai polmoni, cercando di mettere ordine nella confusione che ho dentro, intorno, ovunque. "- Cerco la signorina Isabelle. Isabelle Marangoni? So che alloggia qui e dovrei vederla per parlarle di alcune cose lavorative molto importanti. Potrebbe -" devo tirare un respiro perché l'aria che c'è in questa enorme stanza, non riesce ad essere abbastanza. "Provo a chiamarla in stanza, lei è?" mi domanda la ragazza, con un'aria incuriosita, quasi mi avesse riconosciuto ma non volesse permettersi di essere invadente. "Filippo Fanti. Le dica solo Filippo, lei sa" le rispondo, come se quei pochi minuti fossero valsi ore, come se mi aggrappassi ad un minuscolo ramo, prima di crollare giù da un burrone senza fine.
La ragazza al telefono sussurra, quasi in questo posto patinato e surreale, la privacy fosse l'unica cosa che conta. Mi mordo le pellicine delle mani, in un modo così nervoso che sento il cervello esplodere e quelli che dovrebbero essere istanti, assomigliano più a qualcosa di infinito. Penso che sarebbe meglio non essere mai entrato in questo lussuoso albergo, mi sento così a disagio, ma l'avrei persa per sempre se non avessi almeno provato a riprenderla. Penso che ieri non sarei dovuto entrare da Etrò a provare quei fottuti abiti, ma non avrei più avuto modo di incrociare quei suoi occhi tremendamente meravigliosi. Penso che stanotte avrei dovuto baciarla, tenerla addosso a me, come se la nostra pelle bruciasse solo al contatto. Penso che avrei dovuto fare e dire un milione di cose diverse, tutte sconclusionate, tutte senza un senso logico ma che forse l'avrebbero tenuta accanto a me.
Come avrei sempre voluto.
"Purtroppo la signorina Marangoni ha lasciato il nostro hotel e desidera non essere disturbata." la voce seria della ragazza mi smuove dai miei pensieri, come una secchiata di acqua gelida. "Forse non ha capito la situazione, ho bisogno di vederla. Adesso." aggiungo deciso, battendo un pugno sul bancone che fa voltare gli altri addetti all'accoglienza clienti nella hall. "Si calmi, perfavore." insiste lei, accennando un flebile sorriso. "Calmo un cazzo, scusi il francesismo. Mi può immediatamente dire dove trovare la persona che sto cercando?" continuo imperterrito, come se stessi giocando tutte le mie carte nella partita più difficile della mia vita. Come se non avessi nulla da perdere, perché in effetti ho già perso tutto. Sei anni fa. "Sa benissimo che non posso darle nessun tipo di informazione personale, ora la prego si avvicini all'uscita o mi troverò costretta a chiamare la sicurezza. Buona giornata." mi dice, questa volta decisamente più seria e ferma. "La prego. La prego, mi aiuti. Sto perdendo la persona più importante della mia vita, ne ho già perse altre due. Non mi faccia questo. Mi creda, non me lo perdonerei questa volta." la imploro, sento gli occhi gonfiarsi di lacrime e la voce rompersi parola dopo parola. "Se la può aiutare mi ha detto di riferirle una sola cosa, mi ha detto di aver nascosto qualcosa in un posto che solo lei potrebbe scoprire. Non so dirle altro, mi dispiace, se non di prendere un aereo e andare a Parigi. Ora la prego, si avvii verso l'uscita. Arrivederci." mi saluta con un timido sorriso di circostanza, come se dentro di se mi stesse fulminando, ma la sua posizione lavorativa non le permettesse altro.
Esco dall'hotel e ogni passo che faccio mi sembra di sollevare un macigno al posto dei piedi, come se il mio cuore si fosse ancorato in quell'aria che aveva un po' il suo profumo. Lorenzo mi aspetta in macchina e come sempre trovo solo lui, fermo con un braccio appoggiato al finestrino e una sigaretta a metà tra le dita. Lui, solo lui. Lì, fermo ad aspettarmi da sempre, come se fossi il suo debito più grande, come se il suo cuore fosse talmente grande, da farsi piccolo per me, da nascondersi in un angolo per potermi amare come un fratello. Così terribilmente complicato, stronzo, anaffettivo, freddo e irrisolto. Così tremendamente Filippo, che nemmeno io riuscirei ad avere il sangue freddo per sopportarmi.
"Filo..." riesce solo a dire questo, come se ci fosse davvero qualcosa da dire, qualcosa in grado di colmare questo vuoto spaventoso.
"Andiamo via. Portami via Lori, voglio scomparire." gli dico, tenendomi la testa tra le mani, quasi a strapparmi i pensieri.
"Ci penso io" mi tranquillizza lui, come se sapesse sempre cosa fare. E lo fa davvero, ci pensa lui. Ci pensa sempre lui a me, da sempre. Pensa a farmi ragionare, ad essere il mio punto di sfogo, la mia luce in fondo al tunnel, la soluzione ai miei problemi, lo specchio che non riesco a guardare quando mi faccio schifo. Si, pensa a tutto. A farmi urlare, piangere, sputare odio. A farmi ridere, divertire, sbellicare fino alle lacrime. Lui, da sempre e per sempre. Il migliore amico che potessi desiderare, ma che penserò sempre di non meritare.
Mai.
Isabelle
Parigi è fredda, gelida, sembra di essere a dicembre. Io continuo la mia vita come se nulla fosse, come se quella parentesi milanese di qualche giorno fa non fosse mai esistita. Fosse solo un ricordo di ciò che poteva essere, ma non sarà mai più.
Lavoro, sbrigo faccende, continuo a vedere vestiti, tessuti, persone. Faccio call, parlo, a volte rido, ma mi sento morire dentro. Nelle orecchie solo una voce, una soltanto, a ripetizione come un disco rotto. E me lo chiedo, me lo chiedo spesso nelle notti buie, quando in camera c'è solo la luce della televisione ad illuminare la stanza. Sono lì, sola, avvolta nelle coperte e me lo chiedo. Può una voce essere così inconfondibile ed indimenticabile? Può risuonare nelle orecchie per così tanti giorni, ore, secondi? Può essere in grado di far smettere di battere il cuore, così all'istante, quasi da creare uno scompenso?
Si, può.
Purtroppo può.
E fa male, un dannato male al cuore, allo stomaco, alle ossa. Un male che non passa mai, da sei lunghi anni. Mai un attimo per tirare fiato, uno per pensare, per non avere davanti quella scena, quel volto, per non sentire nell'aria solo quel profumo. Ma invece quell'attimo non arriva mai, rimane solo il dolore, persistente come una cicatrice che rimarrà sempre fissa nella pelle.
È buio, tardi ed io fisso fuori dalla finestra, si vedono le luci, si sente la musica di qualche artista di strada che riempie la sera qua sotto casa. Mi piace sentire la vita, ascoltare la sua melodia, il vociare delle persone, le risate di qualche bambino. Coperta dal mio piumone mi rilassa sentire gli altri vivere, ricordando e assaporando con loro un ricordo di vita ormai lontano, anche per i miei appena ventidue anni. Mi giro e rigiro nelle coperte, cercando qualche pensiero diverso dai soliti, cercando un profumo differente, un appiglio per non pensare. Con la testa sotto le coperte, come se i mostri non potessero vedermi e venirmi a prendere, perché se non li vedo io, neanche loro possono farlo. Prendo il mio telefono, metto il codice di sblocco, sempre quello, uguale da una vita e apro Spotify. Scorro tra le novità del mese, tra gli internazionali, tra i miei preferiti, ma nessuno mi smuove qualcosa.
Digito cinque lettere, poche, ma che mi aprono un mondo intero.
Irama.
Scorro la sua storia, leggo i titoli delle sue canzoni, scruto le copertine, leggo la discografia e metto play, quasi fosse più forte di me. Quasi quel dolore dovesse assalirmi di nuovo, fino a farmi smettere di respirare. Ne sento una dopo l'altra, mi entrano dentro, fino a scavarmi l'anima. Riconosco il Filippo, quello che una volta era mio. La sua penna, il suo dolore, i suoi drammi, i sogni più grandi e i pensieri più intimi.
C'è tutto di lui.
Scopro del suo percorso ad Amici, di quella casa discografica che lo tratta come merce di scambio, ma poi gli propone di nuovo una collaborazione, rendendosi conto dell'immenso potenziale che ha. Le sue piume, i tatuaggi nuovi, e quelli che scorrevano sotto le mie dita, i problemi con suo padre, sempre quelli maledetti. E nelle parole delle sue canzoni sento Lori, Ale, Marco, Monza, Milano, me, noi, il sapore di una vita vissuta. Millimetro dopo millimetro. Scopro di sua nonna Adri, della sua perdita e dell'ennesima ferita inflitta e il cuore sembra frantumarsi in mille pezzi. Non ho avuto la possibilità di salutarla, di abbracciarla, nemmeno l'ultima volta. Chiudo gli occhi e mi sembra di vederlo cantare, con quelle pupille così chiare da mettere a disagio e quella profondità, mista a maturità, così difficile da trovare in un ragazzo della sua età. Sento il suo dolore nelle vene, misto al mio sangue, al mio stesso male di vita. Sento le sue dita scorrermi addosso mentre canta, come se lo stesse facendo proprio accanto a me. Sento i suoi respiri, mischiarsi ai miei sospiri. Le lacrime che mi bruciano sulle guance al suo timbro nel sussurrare le frasi. La sua vita che riempie la mia e, senza neanche rendermi conto, durante quei due dischi ritorno a respirare, come non accadeva da troppo tempo. Arriva il terzo disco, ancora più difficile dei due precedenti e una canzone in particolare, mi sembra chiamarsi Non mollo mai. Ecco, quella mi distrugge, mi spacca in due completamente, come se non esistessi più e di me rimanessero solo piccoli pezzetti scomposti, impossibili da rimettere in piedi. Quelle barre parlano di noi, lo accennano appena, ma a me bastano per essere catapultata indietro di sei anni. Quell'incidente, quella notte buia, quel dolore, quel vuoto incolmabile. Si ripresentano tutti insieme, non chiedendo permesso, ma come uno tsunami che colpisce e dietro di se lascia solo la devastazione.
Non mi rendo neanche conto del rumore della porta, o che in cucina si sono accese le luci, è come se fossi in un altro mondo.
"Ehi, va tutto bene? Hai gli occhi lucidi" mi fa notare lui, con la sua voce profonda, quasi stanca. Appoggio la mia schiena alla testiera del letto, mentre con la mano sistemo le coperte e accenno un si con la testa, poco convinto.
"Cosa ascoltavi?" mi chiede curioso, allungando il collo verso lo schermo del telefono.
"Un nuovo artista italiano, giovane, bravo" rispondo con la voce bassa, ancora traumatizzata da quelle canzoni.
Lui non risponde nemmeno, mi guarda, mi fissa con uno sguardo strano, come se percepisse che infondo qualcosa non va. Ma fosse così cieco da non vedere che il mondo mi è appena crollato addosso, di nuovo.
Si avvicina e mi bacia sulla bocca, delicatamente come se stesse sfiorando un fiore primaverile. Sfiora il suo naso con il mio e sorride, scende con le labbra sul mio collo mentre con la mano fa cadere una spallina della mia sottoveste. Mi sfiora il braccio, fino ad arrivare al fianco, all'orlo della mia camicetta da notte. La tira su, mi sfila delicatamente le mutandine che indosso e mi fa sdraiare. Si poggia su di me, mentre mi bacia, con quella delicatezza che fa quasi tenerezza, che fa sorridere perché sembra un ragazzino alle prime armi. Anche se quella sera non facciamo nulla di romantico, nulla di paragonabile al sentimento. O almeno, perlomeno io. Io sono in un altro luogo, ben distante da questo letto. Ci faccio quella che volgarmente viene chiamata scopata, perché l'amore è ben altro.
Almeno in questo momento.
Irama
"Voglio che le arrivi il mio biglietto" dico a Lorenzo, con la voce sbiascicante di uno che ha bevuto tutta la notte e si ritrova nella penombra delle sei del mattino, con la voglia di parlare e con dei pensieri in parte ancora sani.
"Filippo, dovresti smetterla di delirare" mi rimprovera Lorenzo, facendomi notare con un cenno della testa tutte le bottiglie consumate in una notte sola.
"No, un cazzo. Non sto delirando. Voglio che un pass per il forum le venga recapitato." dico alzando la voce, dandomi una spinta con il braccio per mettermi seduto nel letto. "Manca già una persona importante, lo sai. Non può mancarmi anche lei" continuo, fissando i capelli di Lorenzo che mi rivolge la schiena.
"Non sappiamo neanche dove abita a Parigi, non è un paesino di campagna è una cazzo di enorme città e non so come trovarla. Te ne rendi conto o no?" questa volta il suo tono è più arrabbiato, mentre accende la luce nella stanza e si dirige ad aprire le tende.
Lorenzo quella mattina è passato da casa mia, mettendo in una valigia qualche vestito per entrambi, mentre io lo aspettavo in macchina, con la testa appoggiata al finestrino. Poi si è diretto all'aeroporto di Malpensa e ha chiesto quale fosse il primo volo disponibile. Mi ha fatto salire su un aereo, senza che me ne rendessi neanche conto e mi ha portato fino a Madrid. Abbiamo passato tre giorni in una stanza di albergo, con le persiane chiuse e la luce spenta. Con le mie urla e i miei pianti, con la mia distruzione e quel cascare sempre nell'alcol.
Come se servisse a qualcosa.
Non ho fatto altro che bere, dormire e piangere. Mi ricordavo di mangiare solo quando Lorenzo ordinava qualcosa e mi sforzava a mettermelo in bocca. Mi sono scolato l'inverosimile, fino a sentirmi la gola grattare dal bruciore. Ho sempre avuto il difetto di affogare i miei problemi in una bottiglia, come se quel mal di testa, quel mal di stomaco, quel sentir girare la stanza, potesse silenziare tutto il resto. E Lorenzo è sempre stato lì, accanto a me, a vedere il suo amico distruggersi senza poter far nulla. Ad assorbire il mio dolore come una spugna, come se io fossi la cosa più importante del mondo.
"Da Etrô, lo facciamo recapitare lì, conosco qualcuno. Glielo faranno arrivare e lei verrà, ne sono sicuro" dico sorridendo come un ebete, in uno sprazzo di lucidità dopo litri di alcol.
"E se non verrà? Eh? Dimmi coglione, se non verrà che cazzo pensi di fare? Di bruciarti un'altra volta con queste cazzo di birre? Oppure di perdere un'occasione lavorativa importante? Di prendertela con il primo che passa, che tanto sono sempre io? Oppure cazzo ne so, ti butti dal balcone di qualche hotel?" mi dice rabbioso, venendomi sotto la faccia e strattonandomi la canottiera sporca e puzzolente.
Ed io non lo so che farei se non venisse, anzi non so rendermi conto di cosa sarei in grado di fare. Ho quasi paura anche solo a partorirlo un pensiero così doloroso.
"Il forum è tra tre giorni Filippo, penso sia il caso che ti alzi da questo letto sgualcito, ti lavi la faccia, ti infili dei vestiti puliti e torni a Milano a fare le prove. Giulio ti cerca da ore, senza ricevere neanche una riposta e non se lo merita. Lo sai" mi fa ragionare, scoprendomi dalle coperte e indicandomi il bagno con un cenno della testa e un sorriso. Se non ci fosse lui, non so che farei.
L'acqua della doccia mi scorre sulla pelle, lavando via quell'odore di birra che avevo addosso da decisamente troppi giorni. Appoggio la testa alla parete di piastrelle e chiudo gli occhi, c'è lei. Il suo viso, i suoi occhi, le sue labbra che mi sembra quasi di sfiorarle con le dita. Mi vengono in mente dei versi, esco dalla doccia e me li segno nelle note del telefono.
'Chi l'ha detto, "Non si può stare male e amare, amare veramente"?
Mentre ti guardo non è semplice
Dire cosa sei per me
E non ci riesco
E se ti piace, non respirare, moriamo ancora un po''
E uscendo da quell'albergo capisco che è finita un'era, che quel Filippo che si rifugia nell'alcol e che se la prende con il suo migliore amico, perché non ha il coraggio di guardarsi allo specchio, non deve esistere più. Lo lascio qui all'aeroporto di Madrid, incastrato nel nastro delle valigie, tra le storie di tanti altri sfortunati come me, quelli con i pensieri veloci come un criceto sulla sua ruota, quelli che non si arrendono al dolore, ma allo stesso tempo si fanno uccidere dentro. Questo concerto sarà il mio nuovo inizio, quelle frasi scritte nelle note di un telefono in una mattina difficile, un punto di partenza, quelle labbra che mi è sembrato di sentire sotto i polpastrelli, il mio rifugio, quella che è sempre stata un po' casa mia. Voglio ricominciare e lo faccio a Milano, anzi ancor prima di decollare da Madrid, con un messaggio ad una persona del mio team, con un biglietto da recapitare pieno di speranza. Dritto a Parigi, da lei. Perché i suoi saranno gli unici occhi che cercherò il prossimo 5 aprile, perché la mia rinascita appartiene a lei. Perché quel biglietto avrei voluto darlo anche ad un'altra persona, ma la vita me l'ha portata via ed io non posso rinunciare anche ad Isabelle. Perché solo lei è la mia casa, il senso della musica che scrivo e canto, la terra che mi è sempre mancata sotto i piedi. Il respiro che riempie i miei polmoni. Lei, la mia piccola Isabelle. Perché non è un addio, ma un arrivederci, a presto. Aspetto i tuoi occhi, ho bisogno di incrociarli per tornare a vivere.
Spazio scrittore
Buonasera, o forse buonanotte?
Sono tornata dopo un blocco importante, dove i pensieri e le parole non coincidevano e la mia concentrazione sembrava essere altrove. Sono felice perché scrivere è quello spazio solo mio, quel respiro che mi fa estraniare dal resto, perché questa storia me la immagino da troppo per ridurla solo a qualche nota sconclusionata scritta nel telefono. Sono tornata signori e signore e spero apprezzerete, questo capitolo è vostro.
Immergetevi, sarà un bel viaggio, promesso!
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