Cora 20 - Sincere bugie (prima parte)
Non si poteva definire la giornata il altro modo se non grigia. In un'approssimazione elegante avrei potuto virare le mie parole in color fumo di Londra, ma perché privare Milano dei grigiori che solo a lei appartenevano? Mentre scendevamo la tromba delle scale appena illuminate, a ritmo dei gradini che suonavano sotto i miei tacchi bassi, mi impegnai a formulare un monologo più o meno sensato che puzzava di scuse.
-Se tuo padre scoprisse che siamo usciti dall'ufficio senza buon motivo -se non quello di vagabondare per Milano- con un tempo simile, penserà non solo che siamo pigri, ma anche stupidi. Inoltre il connubio pioggia e scarpe con il tacco metteranno in serio pericolo entrambi. Mi stai ascoltando, Sebastiano?-
-Non sta piovendo- rispose imperturbabile.
-Per ora...- dissi abbassando gli occhi sulle scarpe di vernice nera.
Se fossi stata completamente onesta con me stessa avrei riconosciuto a Sebastiano i suoi onori senza remore. La verità è che volevo disperatamente uscire dall'ufficio, andare alla stazione centrale e prendere un treno. Senza una vera destinazione, ma solo per viaggiare, nel senso più stretto del termine. Mi lamentai per il gusto di contrariare il mio stoico collega e perché, in vero, ero dell'umore di lamentarmi come mai in questi mesi. Nel frattempo Seb non solo era immune alle mie lagne ma persino alle mie richieste. Per quanto lo torturassi non mi diede le coordinate della nostra destinazione, semplicemente salì nella macchina del padre: una berlina dal taglio elegante ben lungi dall'essere vistosa, e con un gesto mi invitò a fare lo stesso.
Dopo venti minuti di mie discussioni ininterrotte –a onor del vero pensavo che a un certo punto si sarebbe arreso e mi avrebbe scaricato sul ciglio di un marciapiede qualunque- e strade trafficate, Seb si era finalmente fermato.
A motore spento, immobili nei sedili di morbida pelle, imbalsamati dal tepore dell'abitacolo, nel parcheggio più vuoto di Milano della periferia est, ceravamo noi.
Quello spettacolo così desolato aveva tolto le parole persino a me.
"Wow, non volevo esprimere una preferenza perché in fondo qualunque posto sarebbe stato meglio dei muri di pratiche gialle di Serena, ma temo di dovermi ricredere."
Seb si sporse verso il parabrezza e guardò in su. Le nuvole livide si arricciavano in una continua e minacciosa deformazione di se stesse, ma non davano segni di pioggia.
Attorno a noi non vi erano altro che palazzine più o meno recentemente pitturate e un vecchio campo da calcio dall'aria macilenta. Seb sembrava guardare proprio in quella direzione. Aguzzai meglio la vista e notai allora i piccoli spalti con sedie di plastica rosse sbiadite dal sole e annerite dall'inquinamento. Non vi erano porte per segnare punti ma solo una rete di sicurezza irragionevolmente alta che circondava tutto il campo.
Seb, sempre guardando dritto davanti a se, fece un piccolo sospiro che mi fu difficile interpretare. Delusione, forse?
-Benvenuta allo stadio J.F. Kennedy-, disse infine rompendo il silenzio.
Mi voltai verso di lui sinceramente confusa.
-Abbiamo campi da calcio con nomi di presidenti Americani?-
-No, ma campi da baseball sì.-
-Base...- mi voltai di nuovo verso il campo per guardarlo meglio ma mi ritrovai solo più confusa. -Abbiamo campi da baseball in Italia?-, sotto questa luce, il degrado in cui versava il piccolo stadio, appariva largamente giustificato. In Italia, quando parla di sport di squadra, ne esiste per tutti uno e uno soltanto.
Mentre fissavo imbambolata quello che pensavo fosse un puro miraggio, o più semplicemente, un barbatrucco, Seb scese dalla macchina e compiendo elegantemente il giro dell'auto e mi aprì la portiera. In altre circostanze lo avrei anticipato ma una parte di me era piuttosto confusa circa la nostra presenza qui.
-La prima cosa che devi sapere della tristezza è che è un fluido nero-, disse mentre uscivo a mia volta dalla berlina nera.
-Eh? Un fluido nero?-
-Esatto, e insieme agli altri tre fluidi, ovvero rosso, giallo e verde, va a comporre l'equilibrio tra mente e corpo del nostro stato di umore e salute.-
-Stai scherzando?-
Con un cenno di sorriso si diresse verso il bagagliaio della macchina e dopo averlo aperto, incominciò a rovistarvici dentro. Curiosa di capire dove volesse andare a parare mi appoggiai sul fianco della berlina, incrociai le braccia e lo guardai armeggiare.
-No, mélas significa nero mentre cholé significa bile. Da qui la parola melancholia o melanconia.-
-Quindi la melanconia sarebbe un fluido nero dentro di noi? Sembra una teoria di centinaia di anni fa...-
-No, migliaia. Il termine fu coniato dagli antichi greci che, per tua fortuna, insieme ad esso proposero anche un numero discretamente alto di rimedi.- si fermò un momento dal suo rimestare e alzò la testa, -I salassi per dirne uno.-
Per la sorpresa e la serietà della sua affermazione feci un goffo passo indietro. Se Seb non fosse venuto verso di me per bloccarmi probabilmente avrei compiuto ben più di un passo.
-Sto scherzando, sto scherzando, non proposero nulla di simile- spiegò mentre ancora mi teneva salda. Aveva l'aria di divertirsi un mondo, il maledetto. Con aria serafica tornò a rovistare tra pacchi da imballo, vestiti imbustati e ombrelli più o meno grandi. -Scusami, temo che ci metterò un po'. Mio padre non si occupa mai delle faccende e dimentica sempre tutto quello che lascia nella macchina.-
Aveva un'aria spensierata, abbastanza da farmi presumere che quel posto significava qualcosa per lui. I capelli scarmigliati e naturalmente corvini accarezzati dal vento, le braccia lunghe e forti che trasmettevano solidità e resistenza. Quello sguardo liquido, puntato altrove, così etereo, sembrava poter vedere al di là di mille veli, muri, barriere e maschere di circostanza. Quel profilo sereno, mescolato alla sua familiare aria da lupo solitario, aveva qualcosa di terribilmente rassicurante. Come uno splendido paesaggio della nostra infanzia rimasto immutato anche dopo tanti anni. Persistenza, costanza, no, forse era solo ostinazione.
"Dove sarei ora se Seb non fosse con me?"
Forse, mi sarei semplicemente rintanata in qualche luogo privo di suoni. Avrei tenuto il broncio con me stessa per qualche ora e poi sarei tornata la solita Cora di sempre. Lo avrei fatto con naturalezza, con i miei tempi. Non c'era nulla di male nel mio metodo, eppure, era confortante sapere che per una volta avrei superato tutto con qualcuno, facendo qualcosa.
-Eccola!- lo sentii esclamare improvvisamente. Appena alzai lo sguardo lo vidi mentre brandiva in mano una grossa mazza di metallo argentato. Quell'oggetto, nella mia mente così legato ai film americani, dal vivo trasudava pericolo e sangue da ogni angolatura.
-Giusto cielo! Ma tu giri tutti i giorni con una mazza da baseball di metallo nella macchina?-
-No, non io, mio padre. È lui il giocatore in realtà. Lo stadio fu costruito nella prima metà degli sessanta e per un certo periodo, fino agli anni ottanta, molti giovani milanesi provarono a praticarlo come sport. Ma poi la stessa cosa non accadde con le nuove generazioni, e ora, beh... il risultato lo vedi da te.-
-Quindi... giochiamo a baseball?-
-Esattamente-, concluse porgendomi la mazza perché potessi impugnarla dal manico rivestito in cuoio. Era straordinariamente pesante, eppure quella stessa pesantezza era confortante. Come se il peso di quell'arma fosse anche il suo stesso scudo. Fu inevitabile sentirmi invincibile con quella tra le mani.
Seb raccolse un guantone di pelle e qualche palla dall'aria un po' vintage -ma ancora ben solida nelle cuciture- mise tutto in un sacco di tela scuro che si buttò sulla spalla e con un gesto secco richiuse il bagagliaio.
-Andiamo-, disse con uno strano fuoco negli occhi, prendendo la direzione delle stadio.
-Seb, non a volerti contraddire... ma dubito che nell'antica Grecia i filosofi giocassero a baseball per combattere la melanconia, o che cercassero di contrastarla in qualsiasi altro modo.-
Faticavo a star dietro al suo passo svelto, quasi trotterellante.
-Hai ragione- disse lui senza fermarsi. -I greci in effetti non hanno mai avuto l'obiettivo di far sparire la melanconia dai loro corpi. Loro stessi la consideravano uno dei fluidi fondamentali senza cui l'essere umano non può fare a meno di esistere. Utile all'ispirazione, per esempio. Dunque, il punto non era eliminarla, ma solo scaricarla, come quando si addensa una batteria ad alto voltaggio per farla esplodere e trasformarla in energia.-
Sebastiano si fermò davanti al piccolo cancelletto in ferro, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un corposo mazzo di chiavi e da quello ve ne pescò una oblunga che inserì nella toppa di metallo. Quando un clang sordo ci annunciò l'apertura, Seb si voltò verso di me e la mia faccia stralunata.
-Mio padre è uno dei pochissimi finanziatori che stanno cercando di mantenere vivo questo posto. Hanno un circolo privato ma come vedi, possono fare ben poco.-
Entrammo nello stadio, l'erba finta sotto le scarpe lisce era quanto di più scivoloso potessi aspettarmi, ma era solo l'inizio. Il campo vero era fatto di sabbia rossa e dura con linee di vernice bianche atte a formare un rombo. Le quattro pedane pentagonali chiudevano a ventaglio tutta l'area di gioco. Seb si fermò alla prima pedana.
-Eccoci qui. Il battitore si mette sempre oltre questa linea senza attraversala. Invece il lanciatore sta in quel piccolo cerchio là in mezzo al campo.- Spiegò indicando un punto al centro del campo. –In questo caso dimezzerò di qualche metro la distanza e lancerò da vicino, in questo modo potrò mandarti palle più leggere e precise.
-Quindi devo fare io il battitore?- Domandai come un'ebete rendendomi conto al tempo stesso che, essendo comunque neofita, il risultato non sarebbe stato migliore in ogni caso. Anzi, a ben vedere, lanciando io stessa le palle avrei rischiato di fare più danni.
-Non ho alcun dubbio che tu possa farcela-, disse abbassando la testa per guardarmi dritto negli occhi e al tempo stesso ricordarmi la mole della sua stazza.
Stranamente nemmeno io avevo più dubbi.
-Ora ascolta. Metti i piedi nella forma che è segnata lì a terra, la vedi? Bene, cerca di mantenere le punte ad una distanza parallela alle spalle, e a quel punto, mantenendo la questa posizione come base, ruota il busto accompagnando il movimento, creando un arco con la mazza. Prova- mi esortò facendo qualche passo indietro per osservarmi.
Mi concentrai, e con tutto l'impegno possibile feci esattamente come mi era stato detto, stando ben attenta a seguire tutte le direttive e le posture. Peccato che nel mentre compii il movimento mi sentii un piccolo robot. Un orecchio canino forse avrebbe persino udito un lieve cigolio provenire da quell'impresa. Seb inspirò aria dal naso e la trattenne un per un secondo. Certo che se avessi avuto uno specchio davanti forse avrei avuto anch'io quell'espressione dipinta sul volto.
-Vuoi rischiare di soffocare nel tentativo di non ridermi in faccia?-
-È un movimento che va ripetuto...- disse alla fine mordendo il labbro inferiore. Gli angoli della bocca che stava trattenendo si distesero e sbocciarono in un sorriso ampio che sbilanciò la mia posizione già precaria e con quella, i miei buoni intenti. Era talmente affascinante guardarlo sotto quel cielo plumbeo, con i capelli spettinati che si arricciavano appena insieme alle nuvole, che non potei fare a meno di trattenere il fiato io stessa e sentirmi in imbarazzo. Nervosa, per nessun motivo apparente, iniziai a ripetere il movimento che avevo appena appreso, probabilmente sbagliandolo, finché l'omino dei Lego che mi possedeva non si lasciò andare un pochino.
Senza dubbio c'erano molte cose che Seb avrebbe potuto correggermi, ma non lo fece, annuì piano con la testa e mostrandomi la palla che teneva in mano e il guantone sulla destra disse:
-Allora, cominciamo.-
Si posizionò più vicino del punto in cui il lanciatore sarebbe dovuto essere ma non tanto quanto speravo. La distanza mi sembrava comunque incolmabile per palle leggere con andature tanto fiacche da permettermi di localizzarle. Appoggiò il sacco di tela al suo fianco e, dopo aver compiuto quello che mi parve un cenno, si mosse. Alzando leggermente il ginocchio sinistro, Seb produsse un movimento circolare con il braccio, fluido e con una professionalità ben lungi da un'autodidatta.
La palla bianca mi passò accanto e io, in quell'attimo, dimenticai quale fosse il mio ruolo. Appena il secondo passò finii per imprecare.
-Ehi, Cora. Ci sei oppure no?-
-Ci sono,- risposi leggermente innervosita, aggrottando le sopracciglia nel tentativo di concentrarmi. Seb prese un'altra palla dalla sacca e dopo essersi concentrato per qualche secondo lanciò con la stessa dinamica. Questa volta mi mossi, ma con tanta foga che non capii nemmeno dove si trovasse la palla rispetto all'arco che avevo prodotto.
-Vuoi che te ne mandi una meno veloce?-, mi canzonò con il chiaro intento di provocarmi.
-Taci e lancia!- sbottai riprendendo sempre più il controllo di me. Puntellai i piedi nel ventaglio di sabbia rossa in cui vi erano i segni e facendo attenzione alle indicazioni che Seb mi aveva fornito mi riposizionai correttamente.
-Non devi chiudere gli occhi.-
-Cosa?-
-Quando la palla si avvicina non devi chiudere gli occhi!-
"Giusto!" L'avevo fatto entrambe le volte per puro istinto, dunque non ci avevo riflettuto. Inspirai l'aria umida nei polmoni, trattenendola appena qualche secondo prima di soffiarla via piano. "Non chiudere gli occhi, Cora. Non chiudere gli occhi. Non chiudere gli occhi."
Finalmente Seb sparò la terza palla. La sfera bianca partì veloce e quando mi raggiunse feci di tutto per non perderla di vista. A quel punto, aggiustare l'arco in base alla traiettoria divenne naturale, così come le tempistiche da rispettare. La mazza andrò a sfiorare la pallina ma essa finì comunque oltre la linea del battitore, contro la rete, insieme a tutte le altre.
Un uggioso mormorio mi uscì dalle labbra. Ero sempre più determinata nella mia impresa. Ogni secondo che passava, ogni palla scoccata, faceva sì che non desiderassi altro che colpirla. Questa volta Seb non disse niente, mi fece la stessa linguaccia che aveva esibito a lezione e tirando fuori una nuova pallina dalla sacca si apprestò a riposizionarsi. Io feci altrettanto, perfino prima di lui. Non mi importava più del tempo che scorreva, delle nuvole che minacciavano pioggia sopra le nostre teste o di qualunque cosa esistesse al di fuori di quel rombo bianco di vernice. Volevo solo, a tutti i costi, colpire quella stramaledetta palla.
Seb tirò di nuovo con precisione e io, paziente, aspettai che la palla si avvicinasse. Combattei forte contro l'istinto primordiale che mi urlava di arretrare e in quel frangente piegai le ginocchia e aggrottai ancor più la fronte in un'esplosione di determinazione. Non chiusi gli occhi, e l'attimo in cui la mazza si schiantò contro la palla altro non potrei definire che liberatorio.
Fu come riprendere il respiro dopo aver lesinato ossigeno sotto litri di me. Colpendo palle da football, provando qualcosa di completamente nuovo, stavo facendo l'unica cosa di cui necessitavo in quel momento. Prendere una breve vacanza da me stessa.
Non feci in tempo ad esultare del mio lancio discretamente lungo che Seb urlò:
-Corri!-
-Cosa?-, domandai confusa con ancora in mano la mazza argentata, mentre lui inseguiva la direzione della palla come un cane da riporto.
-Devi raggiungere la prima base prima che lo faccia io con la palla in mano!- spiegò senza arrestare la sua corsa.
-Ma che...- buttai la mazza a terra e con la consapevolezza delle scarpe improprie che portavo, mi lanciai in una corsa sfrenata e demenziale.
Demenziale. Sembrava essere la parola chiave della giornata.
-Non vale, dovevi dirmelo! Sei partito prima!-
Ero ancora a metà del mio percorso quando Seb riuscì a recuperare la palla, e con un'espressione vittoriosa, tornare verso di me. A quel punto, in un misto di fuoco interiore e pura infantilità, scalciai le scarpe che mi costringevano ad un'andatura goffa e con i piedi nudi affondai i passi sulla sabbia dura.
Forzai le gambe fino a perderne quasi il controllo, lasciando che prendessero una vita propria e mangiassero metri di terra rossa in un battito d'ali.
Attraversai la base un secondo prima di Seb e mi sentii un'eroina. "Attraversai" in effetti era il termine più corretto. Dopotutto, chi mai aveva preso in considerazione l'idea di fermarsi? Io no di sicuro.
La pedana lisca che permise ai miei piedi di slittare in avanti e di piombare come un razzo verso la figura del mio avversario. Con un flash mi ricordai dello slittino che provai da bambina con la prima neve dell'anno. Per fortuna questa volta avevo davanti Seb a farmi da scudo e non la siepe spelacchiata che recintava il cortile della nonna. Mi afferrò con entrambe le mani e in una presa di fortuna mi permise di rotolare sul terreno in una maniera meno sgraziata di quanto avrei fatto da sola. Lui invece finì quasi faccia a terra a un metro da me.
-Out-, borbottò ancora disteso con una voce chiaramente risentita.
-Cosa?- chiesi tanto affannata da non riuscire a riconoscere la mia voce.
-Punto per me- tradusse indicando se stesso. -Sei fuori dalla base-
-Ma è sleale!-
-No. Solo fare l'ariete umano contro gli avversari è sleale.-
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Sono morta? No.
Mi hanno rapito? No.
Sono inqualificabile? Sì.
Spero che il capitolo vi diverta ^^
Baci.Sarangheo.Swag.
Sofia
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