Cora 14 - L'invisibile alla fragola

Sommersa dai miei stessi abiti folgorata da una scintilla di puro panico mi bloccai. Quando la mia mano si alzò per afferrare il nulla una terribile verità si impadronì della mia mente, colpendomi a tradimento come un bastone infilato tra i raggi della bici, finii per inciampare su me stessa.

Mio Dio, erano finiti per davvero.

Non avevo più vestiti!

Guardai il vuoto siderale che dominava l'armadio di legno con gli attaccapanni neri svuotati dei loro custodi. Era come mettere la testa dentro una caverna disabitata. Le grucce penzolavano scomposte, quasi depresse, sull'asta di metallo. Impiccate su quella barra grigia, mi stavano mandando un segnale, mi stavano facendo cenno di "no" con la testa. Ne ero certa.

Fu in quel momento così drammatico -in quella scena madre post apocalittica- che mi piegai come carta velina sul pavimento, inginocchiata, schiacciata dalla mia disperazione, tesi le braccia al cielo con i palmi rivolti verso l'alto e in quello, lanciai una richiesta d'aiuto all'universo.

-Che diavolo posso fare!?-

-Ehm... Cora? Stai girando il trailer di un film di serie B?-, mi interruppe Lea con la sua voce leggermente nasale.

Era distesa sul mio letto come Paolina Borghese nella rappresentazione di Canova. Aveva la sua solita aria da gatta pigra, con mezza bocca piegata all'insù, che le conferiva un'espressione più sorniona che benevola. Non so come facesse, ma anche con indosso abiti sciatti e capelli scompigliati, sembrava sempre una Dea dell'Olimpo. E in quel momento, era il ritratto dell'indolenza.

Mi rialzai da terra con l'intento di ricompormi e di riacquisire un po' di buon senso (quel poco con cui avevo sempre tirato avanti nella vita).

"Non disperare Cora. Respira e concentrati. Sii sicura di te. Determinata, forte, bellissima e... si spera vestita entro la fine dell'anno."

-Metti quello blu-, disse Lea soffiando su una piuma che aveva stretto tra il pollice e l'indice. Doveva essere sfuggita a una delle mie giacche invernali.

-Troppo elegante-, e poi non riuscivo nemmeno a ricordare dove diamine fosse sepolto il vestito blu. Tentare di recuperarlo sarebbe stato un suicidio.

-Quello nero?-

-Troppo corto per un...-

Giusto cielo... stavo per dire primo appuntamento. Com'era possibile che in due giorni non vi avessi mai riflettuto? Era un primo appuntamento? Lo si poteva considerare tale se era stato proposto attraverso un messaggio minatorio e una mancata risposta? Se venerdì sera fossi stata un minimo sana di mente avrei potuto estendere un invito più normale.

"Ehi, ti piacciono gli Strobes? Se ti va sabato sera..."

"Sei libero domani sera? Al magazzino parallelo..."

Vi erano infinite varianti con cui avrei potuto formulare quella frase ma io avevo scelto l'opzione più assurda.

Attorniata da un uragano di proporzioni bibliche, con addosso la sola biancheria intima e una vecchia canottiera di lino, feci una piroetta sul posto, come una ballerina ubriaca. Nella stanza sembrava avesse brillato una bomba. Abiti e accessori, come soldati caduti in battaglia, erano accasciati al suolo. Stropicciati e scomposti, ricoprivano i mobili, il pavimento e il letto su cui era distesa Lea.

Vestiti. Ne avevo troppi. Ne avevo pochi. Non lo sapevo più nemmeno io. Alla fine dei conti, ero nei guai.

Tic tac Cora, il tempo scorre.

Nella realtà dei fatti non erano gli abiti o gli accessori il vero problema, ma la mia ormai conclamata codardia. Non volevo scoprire il verdetto finale. Il solo pensiero di arrivare lì e aspettare Alan inutilmente mi faceva uscire di testa. Per tutto il giorno avevo lottato contro me stessa. Il cellulare era diventato il mio mulino a vento. Venerdì avevo impegnato tutte le mie forze per inviare quel messaggio assurdo, e secondariamente, ci era voluto tutto il mio coraggio per non annullarlo. Ancora adesso, a così poco dall'incontro, mi domandavo se non fosse il caso di rettificare e starmene a casa arrabbiata con me stessa. Era peggio essere arrabbiata con me stessa o delusa da Alan? Guardai l'orologio appeso alla parete con fare accusatorio. La lancetta dei secondi correva indisturbata mentre la mia decisione aleggiava nella stanza senza prendere una destinazione precisa.

Appoggiai la mano sulla scrivania in cui Alan mi aveva circondato lunedì. Mi bastò chiudere gli occhi per rivedere quelli di lui, caldi e dolci come la sabbia dorata sulle spiagge deserte di giugno. Mi aveva guardato con lo stesso desiderio che mi aveva pervaso l'anima e spaventato a morte. Lo avevo anelato così tanto da averlo respinto. Erano affiorati ricordi legati alla nostra infanzia, al mio desiderio infantile di piacergli, a quella cotta ingenua che qualcuno chiama "primo amore".

Ora lo avevo capito, non volevo una scintilla nella notte. Una stella cadente che affascina e sparisce. Volevo piacergli davvero. Se Alan mi avesse accettato, anzi se avesse accettato anche solo una piccola parte del il mio essere stramba, allora anch'io avrei provato a lasciarmi andare. Potevo ancora tirarmi indietro ma in verità ero troppo curiosa per fermarmi.

Se mi chiedessero di dividere gli esseri umani in banali categorie, ne enumererei quattro.

Ci sono quelli che salgono sempre sull'autobus giusto e i loro diretti opposti. Quelli che appena si accorgono di essere saliti sull'autobus sbagliato scendono immediatamente, tornando repentinamente indietro.

E poi c'è la mia specie. Io pur trovandomi sull'autobus sbagliato preferivo rimanerci sopra. Con lo spirito infantile delle nuove avventure, mi guardavo attorno e attendevo, volevo vedere fino in fondo dove mi avrebbe portato.

Con un battito di ciglia tornai al campo di battaglia che io stessa avevo messo in piedi e in ristrettezza di tempo, adottai la tattica giornaliera del: va bene qualunque vestito purché sia pulito!

I ripensamenti, a questo punto del percorso, non erano più graditi.

Quando uscii di casa, con il passo marziale degli sceriffi texani, indossavo un vestito color canarino che adoravo. Somigliava moltissimo a quello di Emma Stone in La La Land. La sua unica pecca era il tessuto molto estivo. Come soprabito compensavo con il mio fidato trench rosso fuoco da cui non mi separavo mai nella mezza stagione e un paio di stivaletti neri che, straordinariamente, più si consumavano e più apparivano belli.

Il trucco invece lo avevo lasciato nelle mani di Lea. Era stata abbastanza perentoria a riguardo. A suo dire, le mie capacità di truccarmi erano le stesse di sostenere una conversazione seria.

Mi aveva steso un trucco naturale spiegandomi, mentre lo faceva, che con le mie sopracciglia definite e con le labbra grandi un make-up pesante sarebbe risultato eccessivo.

Io avevo annuito e sorriso con la stessa meccanicità con cui mi rivolgevo al mio insegnante di pianoforte delle elementari. Il maestro Bastioni cercava inutilmente di farmi adottare l'ordine corretto delle dita nella scala in Do minore. Inutile specificare che con me come allieva aveva quasi pensato di darsi all'ippica.

Poi Lea mi aveva applicato un eyeliner color nocciola terminando gli angoli esterni degli occhi in punte direzionate verso l'alto che mi davano uno sguardo da gatta. Certo, dovevo assumere una posa serissima perché altrimenti sembravo uscita da un cartone animato giapponese, ma quando ci riuscivo, il risultato era sorprendente.

Mi diede il suo rossetto nude, -mi piaceva come lo pronunciava compita- illustrandomi come ripassarlo con annesse tutte le tecniche da adottare per far sì che non mi finisse sui denti. I segreti di Fatima a confronto sembravano meno ermetici.

Mentre prendevo la porta, le avevo fatto presente che indossare un rossetto dello stesso colore delle labbra era una pratica abbastanza inutile ma a quanto pare, esprimendo la mia opinione ero risultata essere ignorante, sciocca e balorda. Il mio capo si era nuovamente scusato al posto mio.

Mentre camminavo verso la fermata della metro, tentando di deglutire senza sembrare uno struzzo, c'era un solo pensiero in tutto questo guazzabuglio che mi dava conforto. Comunque fosse andata la serata avrei rivisto gli Strobes dal vivo. Era ormai oltre un anno, che per un motivo o per un altro, non partecipavo ad un loro concerto. Quella data appena prima dell'inizio delle lezioni sembrava una manna dal cielo. Aprii il volantino che tenevo sempre con me ormai da una settimana e spontaneamente sorrisi.

***

Arrivai al Magazzino Parallelo imbastita di emozioni contrastanti che mi rendevano allo stesso tempo euforica e nauseata. La porta a due mandate di legno massiccio con la facciata in stile neoclassico erano, per l'appunto, solo una facciata. Il locale, stinto come i miei stivaletti, era un ex teatro passato agli albori già dagli anni sessanta. Si era visto trascinarsi tra innumerevoli proprietari -tutti particolarmente incapaci- che lo avevano fatto ripetutamente fallire. Quel piccolo e sfortunato teatro di nicchia era divenuto ora nient'altro che un pub adibito a concerti per musicisti locali e spettacoli di second'ordine.

Era divenuto un teatro dell'orrore ma era impossibile non rimanerne folgorati.

L'interno era ancora rivestito della sua tappezzeria originale marchiata con motivi floreali, enfatizzata dal soffitto troppo vertiginoso e dai lampadari roboanti che, perennemente polverosi, emanavano una luce lattiginosa. L'intero edificio non era altro che un tripudio di contraddizioni.

Attraversai la stanza pregna di tabacco e sudore, calpestando la pavimentazione il cui strato di appiccicume sembrava ormai un tutt'uno con il parquet liso.

Il gruppo spalla che al momento dominava il palco era composto da quattro ragazzi che stavano letteralmente demolendo gli strumenti con le loro note sconquassate. Una piccola parte di pubblico pareva esserne estasiato, mentre tutti gli altri, posati come statue greche alle pareti o ai tavolini di ferro battuto, non aspettavano altro che finissero e lasciassero il posto ai veri protagonisti della serata.

Accostandomi ai lati, rivolsi anch'io le spalle al muro con il chiaro intento di poter adocchiare tutti i partecipanti della serata. Forse una ragazza magrolina e di bassa statura sarebbe stata difficile da individuare ma escludevo questa possibilità per Alan. Era abbastanza alto e con la chioma abbastanza chiara da lasciarsi notare anche ad una discreta distanza.

Guardai l'ora sul cellulare, poi di nuovo la sala ormai gremita di gente.

"Alan non c'è."

"Non ancora", mi corressi tentando di infondermi coraggio.

I membri del gruppo spalla conclusero il concerto con una famosa cover dei Sex Pistols e dopo aver raccolto quanti più applausi possibili, scesero dal palco tronfi e grondanti di sudore.

Quando dopo pochi minuti gli Strobes salirono sul palco il morale, che lentamente era scivolato verso il pavimento, salì un poco. Lì guardai aprire il concerto con una delle mie canzoni preferite e mi lasciai trasportare dalla musica. Fasciati nelle loro vesti volutamente stracciate e le movenze arroganti, erano più affascinanti che mai.

Presi un grosso respiro per scacciare la pesantezza che si era accumulata nel petto e sorrisi, la serata sarebbe stata comunque divertente. Non c'era alcun motivo di abbattersi. Dopotutto non è che mi aspettassi chissà cosa...

Scesi dalla sedia per avvicinarmi al palco, ma nel momento stesso in cui misi i piedi a terra, un ragazzo nerboruto mi passò accanto mancandomi per un pelo. A giudicare i suoi movimenti terribilmente scoordinati, doveva essere piuttosto ubriaco. Si spostò ancora sgraziatamente, incespicando sui propri piedi come un grosso birillo traballante, questa volta sembrava intenzionato a centrarmi.

Riuscii a schivarlo nuovamente ma invece di colpire me, diede una spinta a una ragazza poco distante. A causa di quell'urto la ragazza dai capelli rossi, che era in equilibrio precario sui tacchi a spillo, si versò addosso metà del cocktail che teneva in mano.

Si girò verso di noi con uno scatto fulmineo, nera di rabbia.

-Ehi tu-u!-, urlò al tipo ubriaco, -che diaaavolo combini?-, i sui tartagliamenti mi fecero intuire che anche lei non era lucidissima.

Il birillo umano però, con tutta la nonchalance genuina di questo mondo rispose: -È stata lei...-

Così dicendo, alzò il pollice nella mia direzione e sogghignò leggermente. Incredula di quella situazione grottesca, esitai nel mio silenzio attonito per appena un secondo. Un secondo di troppo.

-Non è ver...- non feci in tempo a riprendermi e ribattere che la ragazza dalle labbra scarlatte mi buttò in faccia il mezzo drink rosa che le era rimasto nel bicchiere. Il sapore di invisibile alla fragola mi riempì bocca e narici. Era un intruglio disgustoso e letale che avevo avuto la sfortuna di conoscere. Inspirai a pieni polmoni mentre le gocce rosee scivolavano leggere dal mio viso.

"Merda."

-Ben ti sta. Ora siamo pari-, scandì la rossa, soddisfatta di aver compiuto il suo dovere. Se avesse riportato la pace nel mondo sarebbe parsa meno tronfia.

Intanto, la folla attorno a noi fece appena un passo indietro, giusto quanto bastava per non rimanere invischiato e continuare la visione del concerto. Lo fecero tutti, tranne il ragazzo che stava accanto a lei.

-Ehi, non sono stata io a colpirti!-

-Invece di mentire perché non chiedi scusa alla mia ragazza?-

Il tizio in questione era uno spilungone magro come una sogliola e con il naso appuntito, appena un poco ricurvo. Con la sua protuberanza acuminata sembrava pronto a beccarmi come un uccellaccio maledetto.

Intanto la rossa con la maglietta fradicia incrociò le braccia con aria di sfida. Sicura del suo supporto spesso come la carta velina -ma comunque più forte di me- sfoderò un sorriso arcigno.

Il mio cervello si spense e con esso anche la pazienza non proprio stoica. Il blackout improvviso voleva dire una sola cosa per la mia testa. Guai in vista.

Appena prima che potessi combinare qualche pasticcio una sagoma scura si interpose tra di noi.

Come uno spettro sbucato dal nulla, una figura familiare mi si parò davanti nella sua interezza. Mi diede le spalle e fronteggiando apertamente i miei avversari, allungò la gamba di scatto calciando con la suola degli stivali il tavolino di metallo alla nostra destra. Una lunga gamba fasciata in jeans neri a sigaretta separava come una barriera umana me e i miei avversari.

-C'è forse qualche problema?- tuonò Sebastiano rivolgendosi ai due fidanzati.

Quell'improbabile scudo umano raggelò tutti i presenti.

Nonostante la disinvoltura che aveva dimostrato nell'apparire e nonostante stesse tenendo le mani in tasca, Sebastiano faceva comunque una paura fottuta.

Era forse colpa del suo cappotto di panno nero lungo e minaccioso? Dei suoi capelli volutamente spettinati leggermente tirati indietro che lo facevano sembrare di marmo? Qualunque cosa fosse, sembrava uscito dai peggiori incubi umani. La ragazza e il suo galoppino sembravano troppo ubriachi per accorgersene ma non la folla attorno a noi. Con il suo arrivo fecero tutti un passo indietro mettendosi in modalità allarme.

Ora nessuno rideva più.

"Cosa diavolo ci fa qui Sebastiano?"



SPAZIO AUTRICE

Che cazz.. ci fa qui Sebastiano? Un errore? Una coincidenza? Nope! Nessuna delle due. Il resto lo scoprirete nel prossimo fantaboloso episodio!

Per questo capitolo vorrei ringraziare gli esami e la tesi che hanno gentilmente ritardato la sua stesura... no davvero, avevo proprio bisogno di riempire le mie giornate estive con corse in macchina infinite. Grazie Unibo per le belle tempistiche.

Ho deciso che dopo la laurea mi dedicherò a un progetto più serio sul genere drammatico/psicologico (trama già scritta eheheh). Purtroppo, conoscendo le mie mezze misure, il testo che metterò in piedi sarà tanto straziante quanto "Facciamo finta di niente" è demenziale.

Insomma, si salvi chi può.

Ok, sto già sconsigliando a tutti la lettura del mio futuro romanzo e non l'ho ancora scritto! Ah... le meraviglie dell'autostima.

Colgo anche l'occasione per ringraziarvi tutti delle 2000 visual! Grazieeeeeeee!!! ç.ç sono commossa davvero! (qui sotto una piccola danza per voi)*

Baci.Sarangheo.Swag. <3

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