Alan 1 - Le ciabatte fluorescenti

Deve essere qui. Deve esserci per forza. Emma, dove sei finita?

Da quanti mesi mi ponevo questa domanda? Oggi forse, avrei smesso di farlo.

Mentre correvo verso l'ospedale di Rimini le parole di Luca mi rimbalzarono nella mente.

Le probabilità che si sia trasferita lì sono minime. Ho saputo da mio padre che cercavano un consistente team di chirurghi a Rimini e Cesena ma questo non significa niente. Perciò, se non la trovi, non rimanerci troppo male.

Eppure, sentivo che era già troppo tardi. Durante tutto il tragitto in treno le mie aspettative erano cresciute sempre più. Nella mia mente si era materializzata una perfetta scena da film. Mi sarei immerso nei suoi profondi occhi verdi, ipnotizzato dal suo sorriso, l'avrei presa tra le braccia per non lasciarla più. Stretta a me, fino a toglierle tutta l'aria dai polmoni, mi sarei scusato. Non una ma infinte volte.

Era solo un'illusione prodotta dalla mia fantasia ma se non vi avessi creduto, non mi sarei mai alzato alle cinque di mattina, buttandomi letteralmente giù dal letto. Non avrei percorso trecento chilometri in un afoso treno che odorava di sudore e piedi, solo per una mera ipotesi. Avevo bisogno di credere che Emma fosse lì.

Quando le porte automatiche dell'edificio si divisero vi entrai a passo di marcia. Mentre mi precipitavo verso il centro informazioni, immaginai che dovessi avere un'aria da pazzo.

Personalmente gli ospedali mi davano il prurito. Erano troppo bianchi, sterili e traboccanti di odori sconosciuti ma in quel momento, non avevo tempo di notare tutto questo.

Nonostante la mia apparizione alquanto rumorosa, l'impiegata dall'altra parte del bancone non alzò lo sguardo. Se ne stava lì a scaldare la poltrona e spostare fogli sulla scrivania. Sembrava che l'avessero messa dietro quel rettangolo di truciolato, laccato color vomito, solo per irritarmi. Mi schiarii la gola rumorosamente e con la voce tremante dissi:

-Salve, sto cercando una persona. La dottoressa Emma Bianchi.

La donna alzò la testa, il suo viso, che un attimo prima era arcigno e depresso, s'illuminò in un baleno. Le rughe del sorriso si espansero sulle guance fino a mostrare i premolari ingialliti e i piccoli segni di peluria sopra il labbro superiore. Prima di rispondere si sistemò gli occhiali che erano finiti sulla punta del naso e si ravvivò i capelli.

-Certo, ora controllo subito.

La voce era estremamente cordiale e sdolcinata. Allora mi appoggiai al bancone con il gomito e le offrii un sorriso d'incoraggiamento. Sicuramente, con le buone maniere, avrei ottenuto più risposte.

L'impiegata si mise subito all'opera e, con la lentezza che molte signore sulla cinquantina hanno, iniziò ad usare il computer che si trovava alla sua destra. Più picchiettava i grossi tasti bianchi, in modalità bradipo assonnato, e più la mia agitazione cresceva.

Devi esserci, devi essere su quella lista.

-Dal database questo nome non ci risulta, mi spiace.- Serrai gli occhi e inspirai piano. La mia speranza si era appena schiantata contro un grosso iceberg. Avevo una gran voglia di dare un calcio al bancone e sfogarmi, ma mi trattenni.

-Mi scusi potrebbe fare un altro controllo? Solo per sicurezza, è davvero molto importante.- La donna annuì e fece un altro tentativo... a vuoto.

Mi congedai con un secco, "grazie" e con in testa un tornado, mi buttai sulla prima sedia libera che trovai.

Questo maledetto viaggio non mi porterà a niente.

Sospirai, chiudendo gli occhi nel vano tentativo di estraniarmi. Mi sembrava di avere la testa ficcata in un alveare. Non c'era una sola anima in quel maledetto posto che tacesse. Cosa ci facevano tante persone in ospedale? Era forse tornata la malaria? Era colpa dei turisti che ospitava Rimini? Eppure eravamo a settembre, ormai doveva essere finita la stagione estiva.

Non aveva assolutamente senso rimanere lì e prendermela con qualunque cosa. Dovevo agire. In fondo avevo una seconda chance, l'ospedale di Cesena.

Ma quando riaprii gli occhi e alzai la testa, per poco non caddi dalla sedia.

Ad appena una decina di centimetri dal mio volto, era apparso il viso di una ragazza. Mi stava fissando così intensamente da trasmettermi un'ansia inesprimibile.

-Alan, sei Alan Ferrari vero?- domandò con tono squillante.

Mentre la osservavo rimasi interdetto per qualche istante.

Chi è questa ragazza?

La squadrai meglio, i neuroni impazziti nel mia cervello stavano cercando di collegarsi, di congiungersi e abbracciarsi disperati, ma non accadde. C'era in lei qualcosa di decisamente familiare, ma continuavo a non capire chi diamine fosse.

Aveva i capelli mossi, lunghi fino alle spalle. Gli occhi erano dello stesso colore, un castano vivace tendente al rosso. Il volto a cuore, una spruzzata di lentiggini appena accennate sulle guance, il naso minuto, il sorriso largo, ogni particolare del suo viso emanava dolcezza. Era splendida e eterea.

-Non ti ricordi di me? Sono Cora, Cora D'Alessandro. Abbiamo frequentato tre anni di medie insieme...

Sentire quel nome fu come accendere un interruttore nella notte.

Ma certo, Cora!

Nonostante il grossolano errore (tre anni non sono mica pochi) considerai la mia svista assolutamente giustificata. La Cora dei miei ricordi era completamente diversa da quella che mi stava di fronte. La ragazzina che ricordavo io era bassa, bruttina e anche parecchio strana.

Cora si spostò facendo un paio di passi indietro come per farsi guardare meglio, o forse, per guardare meglio me.

Era alta e slanciata, almeno, un metro e settanta a occhio e croce. Magra e con poco seno, come era sempre stata. La sua figura poteva ridursi in tre parole: palo della luce.

Forse però, pensai con tristezza, era cambiata solo d'aspetto fisico. Notai che indossava un vestito rosso, stropicciato in ogni dove, e ammantato di macchie scure decisamente poco rassicuranti. Le gambe scoperte dal ginocchio in giù, erano nere a causa della sporcizia e per concludere in bellezza era senza scarpe.

Al loro posto vi erano infatti due sacchetti blu elettrico che cincischiavano ad ogni passo.

"Forse è scappata dal reparto psichiatria" mi dissi con un malcelato sorriso. Mi tornarono alla mente vecchi ricordi legati alla bambina che conoscevo. Completamente sregolata, stramba, con pochi e singolari amici.

-Certo che mi ricordo. Accidenti, non ci vediamo da un sacco di tempo.

Mi sforzai di sorriderle mentre pensavo a un imminente piano di fuga. Non ero dell'umore per chiacchiere nostalgiche e risatine false, specialmente con una pazza.

-Già... ascolta, mi presteresti un secondo il cellulare? Vorrei fare una chiamata...-, disse lei prima ancora che potessi aprire bocca.

Non ho tempo.

Ingoiai quel pensiero, che rasentava i limiti di una scusa, all'istante e mentre frugavo nelle tasche dei jeans mi finsi preoccupato.

-Ok... ma, cos'è successo al tuo telefono?

-Me l'hanno rubato. Insieme alla borsa, le scarpe, il soprabito, la collana e... la macchina fotografica...- disse lei con il tono seccato di chi ha perso l'autobus e dovrà aspettare il successivo.

Ora ero seriamente preoccupato o meglio, incuriosito. In che guai si era andata a cacciare? Non era un po' troppo calma? Forse la derubavano un giorno si e l'altro pure...

-Com'è successo?

-Ieri sera ero sugli scogli. Volevo semplicemente vedere il mare di notte, invece sono scivolata, la mia caviglia ha subito una piccola distorsione e ho perso i sensi per qualche minuto. Un passante ha visto un uomo che correva via con le mie cose e ha chiamato la polizia e l'ambulanza. Però, ovviamente, il ladro non è stato catturato. Così ora sono senza un soldo, senza telefono e senza biglietti per tornare a casa. Ah, però ora sto bene, la distorsione è una cosa da niente.

La mia bocca spalancata non riuscì a produrre nemmeno un suono. Aveva un tono quasi meccanico e annoiato mentre mi raccontava quella che per alcuni, potrebbe definirsi un'esperienza traumatica.

-Quindi, come avrai ben capito, mi servirebbe davvero il tuo telefono ma ti prometto che sarà una telefonata breve. Te lo restituirò subito-, concluse lei battendo le mani e sistemandole in posa da preghiera.

-Perdonami se te lo domando, ma, sei qui da sola? Non sei con qualcuno?

-No. Volevo girare un po' per conto mio. Sai, prima di iniziare l'università... Adoro viaggiare da sola.

Sospirai piano, nel tentativo di non darlo a vedere. In silenzio, allungai la mano e le porsi il telefono.

Per evitare il chiacchiericcio della gente uscimmo dall'ospedale. La sua andatura era zoppicante ma piuttosto spedita, e difatti, solo ora notavo la fasciatura bianca che fuoriusciva da sotto il sacchetto blu del piede destro. Mentre Cora si sedeva su una delle panchine esterne, provai ad allontanarmi per lasciarle un po' di privacy ma lei mi fermò.

-Non andartene-, disse preoccupata.

Dopotutto, mi dissi, doveva essere davvero spaventata.

Mi sedetti. Cercai di mantenere una certa distanza dalla sua figura senza sembrare troppo ovvio. Da fuori, avevo certamente l'aria di un bambino in castigo. Non volevo mostrarmi apprensivo ma non volevo fare troppo lo stronzo. Una cosa sola era certa: stavo diventando paranoico. Perché mai era così difficile interagire con lei?

Devo sbarazzarmi di Cora il prima possibile. In ogni caso, appena i suoi genitori sapranno cosa le è accaduto verranno a prenderla. Se non trovano traffico, in tre ore e mezzo, saranno già qui. Abiteranno ancora a Milano?

Cora compose un numero sul display e dovette attendere come minimo cinque squilli prima di ottenere una risposta.

-Lea, sono Cora. Dove sei?

Lea? E chi diamine sarebbe? Non sta chiamando i suoi genitori?

-All'aeroporto? Era oggi la partenza? Accidenti Lea, sono nei guai. Mi hanno derubato... sì mi hanno preso tutto, non ho più un soldo... Esatto! No Lea no, non chiamerò mio fratello! Mi ucciderebbe se lo scoprisse... Va bene, ora troverò un modo... sì, sto benissimo mi hanno solo derubato, sì, ti richiamo io.

"Mi hanno solo derubato?!", su quale pianeta era ammissibile un'affermazione simile? Non sapevo se ridere o piangere. Riappese il telefono e lentamente si girò verso di me con un'espressione imbarazzata.

-Perché non hai chiamato i tuoi?-, domandai con un tono più irritato di quanto non volessi dare a vedere.

-Perché non sanno che sono qui da sola... se lo venissero a sapere, non mi lascerebbero più uscire da casa. Dopotutto, temo di essere ancora nei guai...

-Chiama i tuoi genitori e fatti venire a prendere, non puoi mica tornare a casa a piedi, no?

Mi alzai dalla panchina ma lei afferrò il mio braccio.

-Ti prego, prestami dei soldi. Appena tornerò a Milano ti renderò il doppio... no, il triplo! ti prego...

-Non se ne parla, chiama i tuoi e permetti loro di rinchiuderti in casa-, sbottai strattonando via il braccio.

-Cosa...-, evidentemente non si aspettava questo tipo di reazione.

-È giusto così, te lo meriti. Hai diciannove anni e sei una ragazza, ti sembra furbo andare in giro da sola, così lontana da casa? Lo sai che ieri sera poteva andarti molto peggio? Maledizione mi sembra di parlare con una bambina.-

Nemmeno io capivo il mio atteggiamento paternalistico. In genere non mi sarei mai permesso di fare commenti simili, ma rivedere Cora dopo tanto tempo, ancora così sconsiderata come lo era stata durante il periodo delle scuole medie, mi fece ribollire il sangue nelle vene.

-Se mi presterai i soldi ti aiuterò a cercare la dottoressa-, affermò alzandosi dalla panchina per guardarmi dritto negli occhi. Per un attimo mi lasciò senza parole.

-Come?-

-Prima ti ho sentito parlare al bancone. Non so chi sia la persona che cerchi ma ti aiuterò.-

-Non mi puoi aiutare... non mi sei utile in nessun modo. Chiama a casa, poi restituiscimi il telefono.-

Lei però non chiamò. Mi guardò serrando la mascella con l'espressione leggermente accigliata. Il vento le scompigliò i capelli, fino a coprirle gli occhi. Per qualche secondo lasciò che quella brezza la attraversasse con la fermezza di una statua di sale. Quando se li scostò, liberandosi delle ciocche, sul suo volto vi era un'espressione serena.

-Grazie per la telefonata di prima, ci vediamo-, mi sorrise debolmente e alzandosi, mi restituì il cellulare. Mentre la sua gamba ferita strisciava sull'asfalto, senza una parola mi superò, e raggiunse l'entrata dell'ospedale.

Bene, mi dissi, ora non mi riguarda più. Cosa potevo aspettarmi da Cora? Non era cambiata affatto quella ragazza. Ma io non avevo un motivo al mondo per preoccuparmene. Ero certo che alla fine un modo per tornare a casa alla fine lo avrebbe trovato. Inforcai il telefono nella tasca dei jeans e voltandomi m'incamminai verso l'isola pedonale per prendere un taxi. Tramite internet guardai gli orari dei treni per arrivare alla stazione di Cesena. Se tutto fosse andato per il verso giusto in poco più di un'ora sarei arrivato all'ospedale centrale Bufalini.

La giornata può ancora migliorare.

Arrivato alla stazione mi diressi verso la biglietteria e lì, sibilai un "porca vacca" tra i denti.

La coda di attesa per fare il biglietto del treno era lunghissima. Con poca scelta andai a chiudere la fila dello sportello, annoiato, incrociai le braccia e mi guardai attorno. Era facilissimo distinguere i turisti dai veri residenti. Famiglie intere con le facce bruciate dal sole e bambini dai nasi umidi, si aggiravano per la stazione creando, per qualunque cosa, una confusione inutile.

Il mio sguardo si posò su un'edicola, che oltre ai giornali, vendeva articoli da spiaggia. Potrei comprare una rivista da leggere durante il viaggio...

Mentre controllavo, da lontano, notai che in un angolo erano esposte delle infradito colorate. Bianche, fucsia, gialle, arancioni, verdi... erano tutte di un colore acceso, quasi incandescente. Mi girai dall'altra parte.

Non ci pensare... sicuramente chiamerà i suoi genitori, bisbigliai a me stesso con tono perentorio. Non sono affari tuoi... non sono affari tuoi!

La mia inquietudine però non ne voleva sapere di tacere. Per di più, mi sentivo osservato da quelle impertinenti ciabattine colorate. Era come se decine di paia di occhi mi fissassero con sfacciata insistenza.

Comprami

Sembrava volessero dirmi questo. Feci un grosso sospiro, scossi la testa e mi scompigliai i capelli. Quando finalmente arrivò il mio turno, la mia mente era su un'altra galassia.

-Ehi? Ragazzo, mi senti? Devi comprare un biglietto?-, abbaiò l'uomo scorbutico che si trovava dall'altra parte del vetro. Rimasi sospeso qualche secondo, in una bolla di ovatta bianca, prima di ridestarmi e aprir bocca.

-Si, un biglietto per Cesena, per favore.

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