• 𝒞𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 8 ~ 𝒮𝑜𝓅𝒽𝒾𝑒

Per la cena con gli ospiti della zia, Sarah mi aiuta a indossare un abito rosa pastello, con maniche a palloncino, che proseguono poi fin sotto i gomiti con un leggero tessuto semitrasparente. In vita il vestito è impreziosito da piccole perle ricamate seguendo un disegno a onda e i gioielli riprendono le medesime perle, senza essere troppo eccessivi. Mi sistema anche i capelli castani dietro la nuca e poi la ringrazio, guardandola dallo specchio. È rimasta silenziosa per tutto il pomeriggio, il che è abbastanza strano.

«Ti senti bene, Sarah?»

Come se si ridestasse in questo momento da un sogno a occhi aperti, solleva lo sguardo sul mio riflesso allo specchio e posso notare quanto stia arrossendo all'improvviso. «S-sì, sì, certamente. Tutto bene, milady. Perdonate la mia disattenzione.»

«Ma figurati, non sei per nulla disattenta, solo che...» Faccio una breve pausa per cercare di trovare le parole giuste. «Sei malata?»

«N-no, non credo, non mi sembra.» Distrattamente si sfiora la fronte con la mano mentre scuote la testa più volte. «Ora perdonatemi, se non vi occorre altro andrei di sotto a dare una mano in cucina.»

Le faccio un breve cenno del capo, poi mi dirigo alla finestra mentre lei esce silenziosamente dalla stanza. L'atteggiamento di Sarah non è mai stato così strano come in questi giorni, devo dirlo, non so cosa pensare. Spero non stia male, mi sembra sovrappensiero e molto più colorita del solito in viso. Spero che non abbia l'influenza e che non me lo stia nascondendo per dovere di lavoro, sa bene che per me lei è un'amica, prima di una cameriera, e non vorrei mai che le succedesse qualcosa.

Sfioro la finestra con la punta del naso, prendendo fiato ed espirando, mentre il mio respiro crea del vapore, opacizzando temporaneamente il vetro. Fuori la città si sta tingendo dei colori del tramonto ed è bellissimo. Oltre gli edifici posso scorgere i raggi del sole morente che creano un'atmosfera magica e calda. Oggi è stata una dura giornata e il pensiero, inevitabilmente, va al Duca. Socchiudo gli occhi per ripercorrere nella mente il pomeriggio trascorso e quando li riapro il mio sguardo va alla finestra della biblioteca da cui intravedo proprio la figura dell'uomo. Inaspettati, i contorni oscuri della sua sagoma mi donano una visuale a senso unico di un individuo carico del peso di una vita, di una guerra, di un dolore difficile da colmare. Ancora non riesco a capacitarmi di non essermi resa conto per tempo della sua cecità, probabilmente è abituato a cavarsela da solo da diverso tempo. So che gli altri sensi si sviluppano di più, quando uno di essi viene a mancare, è uno dei pochi ricordi che ho di mio nonno paterno: morì quando avevo dieci anni, ma anche prima non lo vedevo molto spesso, poiché lui e mio padre non avevano un buon rapporto.

Mi viene giusto in mente l'immagine di lui e mia nonna, a un ballo che si tenne nella nostra dimora, mentre danzavano come due veri ballerini. Sapevo che lui non poteva vedere, ma si muoveva sulla pista come se sapesse cosa c'era intorno a lui. Alla fine del ballo chiesi a mia nonna spiegazioni, in modo innocente, e lei mi disse che l'udito e gli altri sensi fornivano a mio nonno una vista addirittura maggiore rispetto a quella degli occhi, di cui era privo. Non ci avevo pensato prima, ma adesso capisco cosa significa: il Duca si muove nel suo mondo come se vedesse, conosce perfettamente la sua casa e gli ostacoli che ha lungo il cammino. Suppongo non voglia uscire proprio per questo motivo, perché non sa che cosa lo aspetta.

Provo una stretta al cuore pensando a questa consapevolezza, e non posso fare altro che fissarlo dall'altra parte della strada. Ha lo sguardo basso e non sa che io lo sto guardando, in qualche modo mi sembra perfino di invadere la sua sfera personale, eppure non riesco a fare a meno di questo contatto. Ricordo ancora la notte in cui lo vidi piangere... a questo punto sono certa fosse proprio lui.

Mentre lo osservo il Duca solleva gli occhi al cielo, posso vederli brillare anche da qui, sotto la luce del giorno che sta scomparendo, e una nuova fitta mi colpisce lo stomaco. Bussano all'improvviso nella mia stanza, poi, così mi scosto dalla finestra e indietreggio neanche fossi stata scoperta a rubare. La zia Bridget alza la voce senza aprire la porta: «Sei pronta, Sophie? Stanno per arrivare i nostri ospiti, non vorremo farli attendere, giusto?»

«No, zia, sto arrivando.»

Afferro i guanti e li infilo delicatamente fino al gomito, poi mi liscio la gonna e getto un'occhiata fugace alla finestra, prima d'imboccare la porta della stanza. Con un velo di tristezza noto che il Duca si è ritirato, così prendo un profondo respiro e mi accingo a scendere di sotto, per la famosa cena organizzata dalla zia.

Il Marchese di Mallen e la sua consorte fanno il loro ingresso nel salottino insieme alla loro figlia, Harriet. La zia Bridget si alza dal divanetto per prima, la seguo subito dopo per salutare i nostri ospiti con gentilezza e cordialità, come mi ha insegnato, elargendo sorrisi e convenevoli quasi al pari della padrona di casa. Ogni tanto la vedo osservarmi compiaciuta e questo mi provoca un moto d'orgoglio, non posso negarlo. Quando ci mettiamo seduti a tavola impiego un po' di tempo per osservare meglio i coniugi: il Marchese, David Bolt, è un uomo sui quarantacinque anni, con i capelli scuri e qualche ciuffo ingrigito, grandi occhi neri e una corta barba a incorniciarne il viso. Dei baffi lo rendono piuttosto buffo, devo dirlo. Sua moglie, Melanie Arbuthnott, è una signora abbastanza in carne e dall'aspetto elegante e sicuro di sé, con i capelli ramati tirati su in un'acconciatura elaborata e impreziosita da gemme di vari colori. La sua pelle diafana è punteggiata da lentiggini che somigliano sorprendentemente a quelle della figlia.

«Allora, anche voi debutterete in questa Stagione.» Proprio la voce di Harriet interrompe le mie osservazioni. Le rivolgo uno sguardo interrogativo per un attimo. «Me lo stava dicendo mia madre oggi.»

Le sorrido e annuisco. «Sì, anche voi, giusto?»

«Mi preparo a questo momento praticamente da tutta la vita...»

«Potrei dire la stessa cosa, ma credo di avere dato una bella spinta al mio percorso da quando sono arrivata a casa della zia.»

«Di dove siete?»

«Sono scozzese.»

«Non ci credo! Anche noi siamo scozzesi. Almeno dal lato di mia madre.» Harriet sorride e non posso fare altro che ricambiare il suo entusiasmo. È bello trovare una compatriota e condividere con lei lo stesso percorso. Tra l'altro siamo quasi coetanee, anche se lei ha un anno in meno di me.

«Sono davvero felice di sapere che abbiamo le medesime origini. Mio padre era il Barone di Rosslyn, magari ne avrete sentito parlare.» Congiungo le mani all'altezza del ventre e tralascio la cena, ormai presa dalle chiacchiere con la mia nuova amica, seduta al mio fianco.

«Mia madre è figlia del Visconte di Arbuthnott, ma noi abbiamo sempre vissuto a Londra e io sono stata ben poche volte in Scozia, durante la mia vita. Eppure mi piacerebbe tantissimo visitarla. Chissà, magari un giorno potremo andarci insieme.»

«Ne sarei felice, perché no?»

Scherziamo e ridiamo insieme per tutta la sera, lasciando gli "adulti" a parlare tra di loro. Ammetto di non aver mai avuto un'amica, a parte Sarah, naturalmente. E dopo questa sera penso proprio di poter dire che sento un'affinità con Harriet. Condividiamo le stesse origini, la medesima sorte, abbiamo le stesse paure e non posso credere di aver trovato qualcuno con cui potermi confrontare sinceramente. Questa ragazza esprime i suoi pensieri in modo genuino e ottimista, sorride spesso e non si lascia abbattere dalle avversità. Mi sembra una persona con un carattere forte e altruista. Mi piace. E per la prima volta sono contenta di intraprendere il percorso che mi aspetta, conscia del fatto che lei sarà al mio fianco.

Quando siamo al momento dei saluti ci promettiamo di vederci l'indomani, durante la mattinata, dalla modista. Prima di ritirarmi nella mia camera, la zia Bridget posa la mano sul mio braccio, proprio nel momento in cui sto per salire le scale.

«Sono contenta che tu abbia fatto amicizia con Harriet, mi sembra una ragazza gentile e a modo.»

Annuisco, sorridendole. «Lo credo anch'io. Non sapevo cosa aspettarmi, zia, ma sono felice anch'io di averla conosciuta. Il percorso che ho davanti mi sembrerà meno solitario ora.»

«Ne sono lieta. Voglio che tu sappia che tutto ciò che faccio è mosso dall'affetto che provo per te, come se fossi la mia stessa figlia. Mi dispiace se a volte ti sembro dura e severa, ma ogni cosa che faccio è nell'unica strada verso il tuo bene, non dimenticarlo mai.»

«Non lo metto in dubbio, zia. Perdonami se non ti sono apparsa riconoscente a sufficienza, talvolta. Cercherò di essere maggiormente collaborativa in futuro.»

Ci salutiamo con un cenno del capo e poi torno nella mia stanza con un nuovo calore nel cuore. Non siamo mai state così sincere come questa sera, e le parole che ci siamo dette mi scaldano l'anima per tutta la notte. È stata una bella serata e mi addormento felice per questo.

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