|Chapter 6|
Non so per quanto rimasi là, inginocchiata per terra con le mani poggiate sulle ginocchia e le lacrime agli occhi, ma tornai alla realtà dopo quella che a me sembrò un'eternità. Avevo appena ucciso un essere vivente, il suo sangue rosso scarlatto imbrattava uno spiazzo di terra brulla, mentre il rosa-grigio delle sue cervella decorava il terreno come tanti piccoli fiorellini. Sentivo come una strana sensazione: mentre una mano oscura mi chiudeva lo stomaco, stringendone forte la bocca e causandomi un disagio enorme, l'adrenalina mi scorreva nelle vene, richiedendo altra battaglia, sangue e sudore. Avrei voluto urlare e scappare, correre via da quell'orrore a cui io stessa avevo contribuito; eppure il disgusto non si faceva sentire e le gambe le percepivo benissimo sotto di me. A riportarmi alla realtà dai miei pensieri fu la mano di Jonathan sulla mia spalla, che mi fece sussultare con quel tocco.
"Crystal, stai bene?" Mormorò, sistemandosi al mio fianco.
"Non lo so neanche io." Risposi con la gola strozzata, scuotendo la testa. "Ho appena ucciso degli esseri viventi e non mi sento né in colpa e né disgustata." Voltai lo sguardo verso di lui, cercando nel suo conforto e rassicurazione. "Che cosa vuol dire questo? Che sono... Un mostro?" Scoppiai a piangere di nuovo, rivolgendo il viso verso il terreno; mi ero sempre ritenuta una persona forte e spesso lo avevo anche dimostrato. Tuttavia quella situazione mi stava distruggendo: non solo avevo perso tutta la mia famiglia in uno stupido incidente aereo ed ero rimasta ferita quasi mortalmente, ma stavo anche riscoprendo lati della mia personalità che mai mi sarei aspettata. La mia salute psichica era messa a dura prova.
Lui mi prese il volto tra le mani, facendo in modo che i nostri sguardi si incontrassero di nuovo.
"Tu non sei un mostro, hai capito?" Tentò di rassicurarmi, sforzando un sorriso gentile. "Magari sei solo una persona forte che non si abbatte alle prime occasioni forti." Mi fece alzare e voltare con il corpo verso di lui, avvicinandosi e chiudendo il mio corpo tra le sue braccia, stringendomi forte. "Ti sei solo difesa, ti avrebbero ucciso altrimenti." Mi sussurrò di nuovo, mentre io affondavo il viso nell'incavo del suo collo e respiravo a fondo, tentando di tranquillizzarmi.
Mi confortava molto sapere che lui fosse al mio fianco in quel momento, soprattutto dopo quello che avevamo passato; nonostante ci conoscessimo da appena un giorno, mi aveva salvato la vita, creando così un rapporto che non avevo mai avuto con qualcuno. Non sapevo il perché, ma quando Jonathan era al mio fianco sentivo di poter fare tutto, mi dava quella autostima e fiducia di cui avevo bisogno e mi completava. Quei gesti d'affetto improvvisi non mi davanti fastidio, anzi erano un ulteriore ausilio nell'andare avanti.
"Dai, vediamo se riusciamo a trovare qualcos'altro." Mi incoraggiò staccandosi, facendomi segno di precederlo.
"Come va la ferita?" Mi chiese disinvolto, non appena avemmo fatto solo un passo.
Alzai la maglia e la felpa, notando che la benda era appena sporca di sangue; non provavo dolore, era come se fosse scomparsa. Jonathan si fermò di colpo, guardandola anche lui con le ciglia increspate.
"Lasciami vedere un attimo." Mi chiese, avvicinandosi ancora prima che io potessi annuire. Tolse la bendatura, rimanendo a bocca aperta e sussurrando un "Non è possibile" quando il taglio fu liberato. Guardai la ferita, chiedendomi come mai avesse avuto quella reazione e non potei dargli torto: essa si era completamente cicatrizzata, i punti sembravano inutili come se avessi avuto un semplice e superficiale taglietto. Egli mi sentì anche la fronte, ritirandola con fare stupito e facendomi capire che non ero più calda, quindi la febbre era già passata.
"Come hai fatto a guarire così in fretta da un'infezione?" Mi domandò lui, sfiorando con le dita i punti che aveva cucito solo poche ore prima. "Con il combattimento che c'è stato avevo paura che il taglio si fosse riaperto; inoltre, normalmente, una persona ci mette un po' a guarire da una possibile infezione prima che si cicatrizzi." Era sempre più incredulo mentre pronunciava ad alta voce quelle parole, come se non riuscisse a crederci, nonostante avesse la verità di fronte agli occhi.
"Io... Io non lo so." Risposi scuotendo la testa stupita.
Una volta mio fratello si era sbucciato un ginocchio cadendo a scuola ed era tornato a casa in lacrime; mia madre ci aveva lavorato per poco più di un mese su quella sbucciatura, perché sembrava non avere intenzioni di guarire, oltre che a un certo punto si era addirittura infettata.
"Durante la battaglia sembrava non farmi male, quindi non ci ho pensato." Aggiunsi dopo qualche secondo di silenzio, rendendomi conto da sola che quella situazione era assolutamente assurda.
"Era sul punto d'infettarsi, avrebbe potuto ucciderti quel taglio. È vero, stavi molto meglio prima di uscire dalla casupola, ma non così bene." Pensò ad alta voce Jonathan, risistemandomi la medicatura e accompagnando dolcemente la maglia lungo il mio corpo, tirandola finché non ci furono più pieghe.
Aveva un'espressione smarrita sul volto, sembrava che le sicurezze che aveva acquisito si stessero tramutando in dubbi. Riuscivo quasi a percepire le rotelle del suo cervello che giravano freneticamente, andando a tempo con la velocità dei suoi pensieri.
A un certo punto scosse la testa e liquidò tutta la faccenda con un gesto della mano, afferrandomi un braccio delicatamente e trascinandomi con sé, mollandolo solo dopo che fu sicuro che avevo effettivamente capito che era ora di andare avanti.
Probabilmente camminammo per tutta quanta la mattina e metà del pomeriggio, dato che quando ci eravamo fermati per mangiare e bere qualcosa il sole era poco dopo il centro del cielo. Nessuno osò parlare né durante la pausa - dove mangiammo alcune barrette che Jonathan aveva recuperato dal relitto dell'aereo la sera prima -, e né durante tutta la camminata. Nel tragitto tentai di spostare i miei pensieri su qualcos'altro, cercando di evitare di pensare alla ferita e all'incredulità che gli avevo letto negli occhi. Mi concentrai piuttosto su ciò che mi circondava: le piante, i rumori e i piccoli movimenti dell'erba. Credo di non aver mai visto delle piante come quelle che arricchivano la mia visuale quella mattina: erano di un verde intenso che quasi faceva male agli occhi e il tronco era talmente liscio che sembrava fatto di plastica anziché legno. Il bosco era formato da alberi tutti uguali, una strana composizione floristica che non riuscii minimamente a riconoscere con niente che avevo studiato a scuola. Piccoli animali sfrecciavano in mezzo all'erba alta, tra cui un paio di serpenti. I rumori erano quelli di cicale e uccellini che cantavano una strana melodia, la quale mi sembrava però familiare allo stesso tempo; assomigliava a una ninna nanna che mi cantava mia madre tutte le sere quando ero piccola.
Mamma.
Quel nome fu come una coltellata nel cervello, percepivo un dolore acuto che sapevo benissimo non essere fisico ma morale, psicologico, di quei mali che ci vogliono anche mesi e mesi di terapie, se non anni, per guarire.
Sentii la mano di Jonathan scivolare lentamente nella mia a un certo punto, per questo gli rivolsi un'occhiata un po' confusa; mi stava guardando sorridendo, muovendo le labbra senza dire niente ma mimando le parole: "Andrà tutto bene, non pensarci".
Avevo letto da qualche parte che due persone possono legare molto e in pochissimo tempo se si trovano in una situazione pericolosa, l'effetto è ancora più forte se in condizione di vita o di morte. Solo in quell'attimo riuscivo a capire come mai potesse accadere: sentivi che colui o colei che ti stava affianco fosse l'unica tua ancora di salvezza, il tuo solo rifugio in cui poterti riparare da tutto il resto, non avendo nessun altro tipo di riferimento a cui potersi aggrappare.
Fu in quel momento, nel frattempo che voltavo lo sguardo verso il viso di lui, che vidi la strana casupola poco distante da noi, proprio dietro le sue spalle.
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