|Chapter 3|
Jonathan fece il suo ritorno dopo non so quanto tempo, l'unica certezza che avevo era che ormai il sole era tramontato del tutto e l'isola era immersa nell'oscurità della notte. Entrò dentro con in braccio della legna che mollò quasi di peso sul pavimento di fronte a sé.
"Questi dovrebbero bastare per stanotte." Constatò, sistemando meglio il mucchio e tirando fuori dalla tasca posteriore dei jeans un accendino, probabilmente ritrovato tra i resti dell'aereo. "Ecco fatto." Disse, sedendosi contro la parete opposta alla mia dopo aver acceso il fuoco. "Ora dovrebbe diventare più caldo l'ambiente."
"Grazie." Dissi giocherellando con i bordi delle maniche troppo lunghe, che mi arrivavano poco dopo qualche centimetro dal dito medio. "Senti..." In quel momento mi venne in mente una domanda che aveva cominciato da poco a battere nella mia testa, chiedendo solo di essere posta e cercando disperatamente la sua risposta. "C'è qualcun altro che è sopravvissuto all'incidente, o ci siamo solo noi due?" Domandai guardandolo negli occhi con le lacrime che si stavano accumulando, pronte a uscire.
Jonathan mi rivolse uno sguardo triste prima di rispondermi, scuotendo la testa in segno negativo: "Ci siamo solo noi due." Il mio cuore smise di battere. "Ho guardato tra le macerie, ho fatto di tutto, ma nessuno mi ha risposto. Mi dispiace."
In quel momento non potei più resistere: scoppiai a piangere, abbassando lo sguardo verso il basso; i singhiozzi mi scuotevano tutto il corpo, procurandomi fitte acute alla ferita e facendomi solo ricordare la sua presenza. Dentro di me sapevo che la mia famiglia era morta, ma non avevo voluto accettarlo subito, stavo ancora sperando che tutto quanto non fosse mai accaduto. E invece, in quell'istante, mi trovavo su un'isola sconosciuta senza possibilità di scampo, con una persona appena conosciuta su cui dover contare per tutto quanto dato che io ero troppo debole al momento. Tutta la mia famiglia era morta nell'incidente in cui io ero stata ferita quasi mortalmente. Mi sentivo impotente e persa, il dolore mi stava distruggendo da dentro e mi avvolgeva con una morsa tale da togliermi il respiro. Arrivai addirittura a desiderare di essere pure io morta per non provare tutta quella sofferenza.
Jonathan si alzò dal suo posto con fare frettoloso, attraversò il piccolo rifugio e si sedette accanto a me, passandomi un braccio sulle spalle e attirandomi a sé. Poggiai il viso contro il suo petto, bagnandoli così la maglietta mentre lui mi stringeva e cercava di consolarmi.
"Sono sola, sono sola." Mormorai tra i singhiozzi, con un filo di voce.
"Ci sono io qui con te, non sei sola." Tentò di rassicurarmi Jonathan, attirando di conseguenza la mia attenzione, facendomi alzare il viso verso di lui. "Prometto che non ti lascerò mai sola, né ora né mai." Mi promise, lasciandomi un bacio sulla fronte.
Quei contatti sarebbero potuti sembrare eccessivi e affrettati, dato che non ci conoscevamo nemmeno da un giorno; tuttavia sentivo che erano ciò di cui avevo bisogno e di cui sicuramente ne percepiva pure lui la necessità, un aiuto per affrontare tutta quella situazione che ci aveva colpiti come una doccia fredda improvvisa. Infatti, in quel momento il pianto e i singhiozzi si erano un po' calmati, sentivo il corpo meno martoriato, anche se non potevo dire lo stesso del cuore, che sembrava immerso in un acido corrosivo; senza rendermene conto, mi ero aggrappata con una mano alla maglia di Jonathan, per questo la lasciai lentamente quando me ne resi conto, mormorando uno: "Scusa" a fior di labbra.
"Ma figurati è una reazione normale, non dovresti scusarti." Mi consolò, dandomi una leggera stretta di rassicurazione e sforzando un sorriso. "Piuttosto," cominciò facendosi di nuovo serio, con un pizzico di titubanza nella voce. "Posso chiederti chi era l'uomo che ti ha portata fuori dall'aereo?" Mi domandò, facendomi alzare il viso per guardarlo meglio negli occhi.
"Quale uomo?" Replicai, confusa dal fatto che non mi ricordavo niente di come fossi uscita dal veicolo caduto.
"Quello vestito tutto di nero; l'ho visto portarti fuori in braccio dall'aereo, per poi poggiarti sulla spiaggia dove ti sei svegliata." Mi spiegò, facendomi raggelare il sangue nelle vene, aumentando i brividi che mi percorrevano la schiena ormai non più causati dal freddo. Con l'occhio della mente rividi un paio d'iridi gialle sporche, ripensando a ciò che era successo prima che perdessi di nuovo conoscenza.
"Non so chi fosse, non l'avevo mai visto prima; anche se mi sembrava familiare." Prima di chiudere gli occhi e venire avvolta dall'oscurità ero riuscita a intravedere la forma della mascella e la curva delle labbra che avevano sollecitato un ricordo nella mia memoria, che però non ero riuscita ad afferrare.
"In che senso sembrava familiare?" Mi chiese Jonathan, aggrottando confuso le sopracciglia.
"Era come se lo avessi già visto prima, solo che non riesco a ricordarmi quando e dove." Spiegai, mordendomi il labbro inferiore.
"Non preoccuparti, non devi sforzarti per ricordarti chi era. L'importante è che siamo vivi, almeno per il momento." Tentò di farmi stare meglio lui, facendomi poggiare la testa di nuovo sul suo petto.
All'improvviso sentii una fitta al fianco destro, per questo alzai la maglia, notando che la garza che mi avvolgeva la ferita era diventata rossa, anche se era difficile vederlo attraverso la luce del fuoco.
"Devo cambiarti la bendatura." Disse lui seguendo il mio sguardo, alzandosi per prendere il medikit di pronto soccorso dall'altra parte della stanza, per poi inginocchiarsi vicino a me e cambiarmi tutte le garze e le bende. "L'emorragia si sta fermando, ma bisogna ricucire la ferita perché guarisca." Mi avvertì, spostando poi il suo sguardo dal taglio al mio viso, mentre il suo si deformava in una smorfia di preoccupazione. "Dio mio, sei pallida Crystal." Mi prese il volto tra le mani osservandomi; percepivo la stanchezza invadermi il corpo e le palpebre farsi sempre più pesanti, ma nonostante questo abbozzai un sorriso.
Jonathan si affrettò a bendarmi di nuovo il taglio, cercando di essere il più dolce e delicato possibile; ogni tanto mi lanciava uno sguardo, per controllare se avessi chiuso gli occhi. Quando ebbe finito mi scavalcò e si rimise ancora al mio fianco, circondandomi di nuovo le spalle con un braccio e facendomi poggiare la testa sul suo petto. Gli occhi mi si chiudevano quasi automaticamente, non sapevo per quanto sarei riuscita a tenerli ancora aperti. Jonathan mi afferrò la mano, stringendola appena in modo che io percepissi la presa, ma senza che mi facesse male.
"Ce la farai Crystal, te lo prometto. Non morirai qua tra le mie braccia o su quest'isola del cavolo, ti porterò sana e salva a casa." Mi promise in un sussurro, lasciandomi un bacio tra i capelli.
"Non sei obbligato a fare nulla Jonathan." Tentai di rassicurarlo, ma a quanto pare uno dei suoi talenti nascosti era proprio la determinazione; infatti scosse la testa in segno negativo, dicendo: "È una promessa." Dopodiché, solo il buio.
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