Chapter thirty-three (part II): Coraggio


P.O.V. Finn

Mi veniva da vomitare.

Non adesso Finn, non è il momento per gli attacchi di panico.

Non adesso che lei... non c'è.

Sentivo l'ansia crescere, secondo dopo secondo.
Sentivo la fronte imperlarsi di sudore freddo, mentre in mezzo a quella confusione ogni senso era anestetizzato: ogni suono, ogni rumore mi giungeva come filtrato da una campana di vetro, e io mi ci trovavo dentro.

Io mi trovavo dentro la campana di vetro, così vicino, ma così lontano da tutti.

Se chiudevo gli occhi riuscivo ancora a vedere le sue labbra muoversi, modellarsi sulla dolcezza di quel suono, sulla delicatezza di quelle parole.

"L'ultima volta ho detto che ti amo."

Millie era stata indescrivibilmente coraggiosa. Così pronta a rischiare tutto, a gettarmi addosso veleno per rammentarmi il suo amore un attimo dopo.

Perché lei era questo: la quiete dopo la tempesta, ma lei era entrambe le cose.
Lei non era sono la quiete, no. Lei prima di tutto era tempesta.

Aveva la capacità di stravolgermi ogni volta, facendo sempre ciò che non... non mi aspettavo che facesse, ciò che non mi aspettavo avesse il coraggio di fare.

E quella sera capii, capii che io in realtà non l'avevo mai conosciuta davvero.
Millie era come una matrioska: dovevi scoprirla, aprirla pezzo dopo pezzo, per capire come fosse fatta nella sua intimità più vera, come fosse fino in fondo.

E solo quella sera io ero riuscito a sbloccare l'ultimo tassello, a vedere l'ultimo pezzo da collezione.

Lei era di più: più di una testa calda, più di una ragazzina impulsiva, più di una persona che parla prima di pensare, era più che 'imprevedibile', più di ciò che voleva mostrare, più di una persona orgogliosa...

Anzi no, Millie orgogliosa non lo era affatto.
E mi stupii di quella consapevolezza che mi travolse come un treno, facendomi dubitare persino di me stesso.

No, Millie non era orgogliosa, non quando teneva davvero a qualcuno, non quando voleva raggiungere a tutti i costi il suo obiettivo.

Quella maledetta, cocciuta, testarda ragazza, non sapeva neanche cosa fosse l'orgoglio, quello vero.
Non lo sapeva perché per me lo aveva già messo da parte un milione di volte in quell'ultimo mese, soltanto per paura... di perdermi.

La mia Mills, così coraggiosa...

Sentii la vista appannarsi e, soltanto quando mi portai istintivamente una mano al viso, accarezzando piano una guancia con un polpastrello, la raccolsi.

Raccolsi una lacrima che si appoggiò silenziosa sul mio dito.
Nel momento in cui la misi a fuoco, questa mi scivolò lentamente lungo il palmo per poi cadere lentamente a terra, sull'erba ai miei piedi.

Sì, perché non mi ero ancora mosso.
Ero rimasto lì, bloccato, inerme, dal momento in cui lei se n'era andata: l'avevo guardata allontanarsi piano, le avevo tenuto gli occhi puntanti addosso, sulle sue spalle nude, fino a che lei non aveva voltato l'angolo, sottraendosi alla mia vista.

Avrei voluto avere il coraggio di correrle dietro, ma lei aveva ragione: quella sera ero stato un vigliacco.

Un vigliacco ad allontanarla, un vigliacco a farle credere di non tollerare la sua presenza; ma lei lo aveva capito, oh se lo aveva capito. Aveva buttato giù i miei muri di finzione, di falsa arroganza e ci si era arrampicata sopra, senza paura.

Ero io, quella sera, quello ad aver avuto paura. Paura di rincorrerla, di fermarla, di bloccarla e dirle che no, la parte razionale di me non voleva andare via con lei, ma il mio cuore era l'unica cosa che desiderasse davvero.
Lei.

E allora le mie gambe si mossero automaticamente in avanti, dopo non so quanto tempo passato lì, immobile, bloccato dallo shock.

Non mi accorsi subito di star camminando: soltanto nel momento in cui vidi gli alberi davanti a me scorrere ai lati dei miei occhi, me ne resi conto.

Finalmente i miei piedi avevano iniziato ad avanzare: lenti, ma decisi.
Non fecero comunque molta strada, perché d'improvviso sentii una voce chiamarmi.

<<Ehi, amico!>> mi chiamò Caleb da un punto impreciso alle mie spalle.
Quella voce mi costrinse ad arrestare le gambe con poca convinzione, mentre lentamente mi voltavo verso dove avevo sentito provenire il suono della sua voce.

E Caleb era lì, che mi studiava con occhi interrogativi.
<<Dove... dove vai?>> chiese con poca convinzione.

<<Vado via, Caleb. Mi sento terribilmente stanco.>> risposi cercando di mantenere un tono di voce neutro, mentre controvoglia facevo qualche passo indietro per avvicinarmi a lui.

<<Ma c'è già il tuo autista?>>

A quella domanda scrollai le spalle, pensando solo in quel momento a quel piccolo inconveniente.
<<No, prenderò un taxi.>>  decisi nell'istante in cui lo dissi.

Lui alzò un sopracciglio, adesso davvero sorpreso: <<Un taxi?>>

Stavo per aprir bocca e rispondere, ma una voce parlò prima di me.

<<Oh, sei ancora qui.>>
Non mi ero accorto di Sadie, arrivata in quel preciso istante con due bicchieri tra le mani.

<<Grazie.>> fu il sorriso dolce di Caleb mentre gliene sottraeva delicatamente uno dalle mani.

Ma il sorriso ricambiato della rossa fu debole, troppo debole, mentre i suoi occhi erano ancora fermi su di me.

E ci misi un secondo a realizzare perché, a collegare i puntini: Sadie sapeva.

Lei sapeva ogni cosa: lo intuivo dal modo in cui mi guardava, da quello sguardo deciso, intessuto di disappunto.

E per la prima volta mi sentii in soggezione, in difficoltà davanti a quella ragazza che sapeva essere terribilmente dolce, quanto caparbia, quando lo voleva.

<<Sì, ma... stavo andando via.>> le risposi in un fil di voce, abbassando gli occhi.

<<Oh, beh amico...>> ruppe il silenzio Caleb; probabilmente l'imbarazzo era talmente palpabile nell'aria che persino lui, estraneo alle vicende dell'ultima mezz'ora, aveva intuito comunque qualcosa.

<<... allora ci vediamo in questi giorni!>> concluse, dandomi una pacca sulla spalla e rivolgendomi un sorriso così caloroso che non potei non ricambiare.

Dopo averli salutati un'ultima volta mi allontanai svelto da loro, mi allontanai svelto da tutti con l'improvviso desiderio di andare via, prima che qualcun altro potesse fermarmi, prima che quel posto potesse imbrigliarmi nella consistenza faticosa dei ricordi di ciò che quella sera era successo.

E sentii il bisogno di accelerare il passo, quasi di correre– , probabilmente avrei anche corso se fossi stato da solo.

Accelerai ancora, mentre il mio respiro faceva lo stesso e la sua immagine si stagliava tra i miei pensieri.

Lei che si avvicinava piano, indecisa,  alle mie labbra.

Ed io che per quanto volessi ricambiare, per quanto il mio cuore mi gridasse di stringerla a me, non riuscivo a muovere un muscolo, bloccato dal mio risentimento, da quell'angoscia che mi tormentava il cuore.

Io, che quando alla fine ero riuscito ad attirarla a me, a ricambiare il bacio, era solo le sue labbra impresse sopra quelle di uno sconosciuto ciò che riuscivo a vedere.

E faceva male e bene insieme.
Faceva bene respirarla dopo settimane, faceva bene sentire il suo profumo inibirmi i sensi, faceva bene il suo corpo contro il mio, i suoi pugni stretti a tenermi per i lembi della giacca, le sue labbra umide e decise contro le mie.

E faceva male, faceva terribilmente male per motivi che non riuscivo neanche a evocare nella mia mente; era solo quella sensazione annidata al centro del mio petto che si irradiava piano in tutto il corpo come veleno.

Perché per quanto volessi io non riuscivo, non riuscivo a perdonare...
Era più forte di me.

Alzai lo sguardo dai miei piedi per accorgermi che ero appena arrivato all'uscita: un grande parcheggio si profilava davanti al mio sguardo attento.

Non ci misi molto a individuare dei taxi fermi, dall'altro lato della strada e prima che potessi decidermi davvero se prendere davvero una di quelle automobili gialle invece che aspettare il mio autista, i miei piedi si erano già mossi, svelti e non curanti di ciò che la mia mente stava controbattendo.

<<Buonasera.>> fu la voce noncurante dell'autista nel momento in cui mi fermai davanti a lui, abbassando il busto per arrivare all'altezza del finestrino e portando il mio viso all'altezza del suo.

<<È libero questo taxi?>> chiesi cercando di ostentate anch'io nonchalance, nonostante fosse la prima volta in vita mia che decidevo di prendere un taxi da solo.

<<Così sembra, ragazzino.>> mi rispose lui con un ghigno, evidentemente divertito dalla mia domanda.

Senza neanche degnarlo di una risposta raddrizzai il busto. Feci un passo indietro e aprii lo sportello posteriore, sedendomi con un movimento fluido sul sedile e sbattendo la portiera forse con un po' troppa foga.

<<Che via, ragazzino?>> mi chiese l'autista mettendo in moto la macchina.

E in quel momento un'idea mi saettò in mente.

<<Beh, non so la via...>> confessai in un secondo, dando voce alle mie intenzioni prima che la parte razionale di me potesse pentirsene.

L'uomo si voltò verso di me, le sopracciglia aggrottate e un'espressione confusa sul volto; la tipica occhiata che riservi a qualcuno che ritieni non abbia tutte le rotelle a posto.

<<...Ma so la strada.>> conclusi frettolosamente prima che decidesse di buttarmi fuori dall'auto a suon di insulti.

L'uomo sospirò, voltandosi nuovamente verso il volante e ingranando finalmente la marcia.

<<D'accordo, allora dimmi la strada.>>

Non facemmo che qualche metro, che i suoi occhi tornarono su di me dallo specchietto retrovisore, questa volta uno sguardo curioso dipinto sul viso.

<<Ehi, ma tu sei quel ragazzino di quella serie tv, per caso? Quello sulla... bambina rasata?>> chiese lui di punto in bianco, portandosi una mano sopra la testa e disegnando con un gesto veloce una sorta di aureola sul capo, evidentemente per indicare i capelli rasati a cui stava pensando.

Ricambiai lo sguardo, mentre scrollavo le spalle con aria disinteressata.
<<Non ne ho mai sentito parlare.>>

P.O.V. Millie

La doccia non era servita a niente.

Avevo sperato che potesse aiutarmi stare sotto il getto dell'acqua calda per un tempo che mi era parso interminabile, mentre le lacrime avevano continuato a mescolarsi silenziose con le gocce d'acqua che mi battevano sul viso.

Ma non era servito: sentivo ancora la sua presenza intorno a me, come uno spettro di cui non riuscivo a liberarmi. Lo sentivo, il suo odore che mi intaccava la pelle, il suo respiro caldo sul mio collo mentre grondavano parole d'odio dalla sua bocca.

La stessa bocca che mi aveva baciato, neanche due ore prima.

E allora mi sentivo fluttuare nella confusione a quei pensieri sconnessi dovuti a ricordi che erano sconnessi; perché se qualcuno avesse voluto chiedermi cosa quella sera era davvero successo, io non avrei saputo dare una risposta.

Aprii la porta del bagno, facendo scattare la serratura e lasciando che l'alone di vapore che si era accumulato nel piccolo bagno defluisse fuori, disperdendosi nella grande camera d'albergo.

L'aria fresca e pulita mi investì non appena feci il primo passo, ancora intorpidita dal calore dell'acqua che mi inumidiva la pelle.

Sospirai piano, avvicinandomi al bordo del letto e sedendomi cautamente, il corpo avvolto da un caldo e pesante accappatoio.
Mi alzai il cappuccio sulla testa per evitare di bagnare le lenzuola facendo gocciolare i miei capelli ancora bagnati.

E lì, nel silenzio e nella solitudine di quella stanza, per un secondo mi sentii vuota: sentii la testa leggera come un palloncino, un'inaspettata sensazione di fioco smarrimento.

Mi portai le mani all'attaccatura dei capelli, passando piano le dita tra le ciocche bagnate dei capelli e lasciando scivolare il cappuccio che avevo messo soltanto qualche secondo prima, sentendo prevaricare l'improvviso impulso di sentirmi, di toccarmi per accertarmi di essere ancora lì, nella realtà.

Quantomeno ho esaurito le lacrime... pensai con una punta d'ironia, lasciando che il mio corpo scivolasse all'indietro sul morbido materasso.

I miei occhi silenziosi erano spalancati contro il soffitto, mentre ripercorrevano con immagini precise il taglio dei suoi occhi, la mascella perfettamente serrata in quella smorfia di disappunto, e poi la sua schiena asciutta che si voltava lentamente verso di me, e ancora, lui che mi sorrideva, porgendomi la mano sul red carpet e ancora le sue labbra sulle mie e ancora, ancora reclamavano i miei pensieri, ricordando il suo braccio serrarmi la vita e ricordando quando lui finalmente aveva ricambiato il bacio...

E ancora, ancora, la sua immagine impressa a fuoco nella mia mente, fino allo stremo.

<<Esci fuori dalla mia testa.>> sussurrai, portando la base dei palmi al viso, premendoli forte contro gli occhi.

Eppure, nonostante tutto, non riuscivo a provare rimorso, non riuscivo a... pentirmene.
Non riuscivo a pentirmi di essere stata sincera con lui, di essermi mostrata nella mia vulnerabilità, di avergli dimostrato che potevamo.

Io ero disposta, disposta a lasciare scoperto il mio cuore per lui, ero disposta a far conoscere ogni parte di me, anche quella più sincera, anche quella più debole.

Io avrei messo in gioco tutto per lui, calpestato l'orgoglio sotto i piedi, per lui.

Io volevo che lo comprendesse, che questa consapevolezza lo investisse in pieno, in tutta la sua purezza.

Io ero disposta ad essere coraggiosa, perché lo amavo, e questo fa l'amore, ti rende coraggioso.

Non sono vere tutte quelle idiozie che la gente decanta per acerbe e rigide verità, non lo sono mai state: l'amore non ti rende debole, l'amore ti plasma sotto il peso disarmante della sua dolcezza, ti protegge sotto la sua ala, facendoti sentire sicuro.
L'amore ti rende vivo, ti scalda il cuore, a volte , te lo scotta anche.
Ti pizzica le corde della sofferenza, anche questo fa l'amore.

Ma mai, mai ti rende debole. L'amore, quello vero, non sa cosa sia la debolezza.

Ed io quella sera lo avevo finalmente capito, avevo trovato la chiave alle mie risposte: l'orgoglio non serve, no.
Serve il coraggio, e io sarei stata coraggiosa, per lui, non mi sarei arresa.

Adesso lo sapevo, adesso lo capivo.

Nonostante il suo rifiuto quella sera mi avesse ferito il cuore, io sapevo cosa lui provava per me: lo sentivo come una certezza che mi avviluppava le viscere e non importava i mille modi che tentava per allontanarmi, perché era una consapevolezza ferrea, la mia, che andava ben oltre le parole.

Se era tempo quello di cui avrebbe avuto bisogno glielo avrei conces–

<<Cristo!>> imprecai in un sussurro smorzato, mentre istintivamente mi portavo una mano al petto e un sussulto mi faceva vibrare il corpo.

Un suono, come qualcosa che sbatte, era rimbombato nel silenzio innaturale della stanza, facendomi rizzare il pelo e sobbalzare dallo spavento.

Per qualche secondo me ne stesi così: immobile sul letto, la mano ancora sul petto e gli occhi spalancati contro il bianco del soffitto.

Iniziai a pensare che me lo fossi immaginata o che semplicemente a qualcuno fosse caduto qualcosa nel corridoio dell'albergo o in una stanza vicina.

Stavo per rilassare i muscoli del corpo, quando lo sentii di nuovo e finalmente capii cos'era.

Qualcuno stava bussando alla porta.

Ma cosa...

Non ho ordinato niente, fu il primo pensiero che mi attraversò la mente.

Mi alzai lentamente dal letto, con movimenti meccanici, ancora indecisa se aprire o meno la porta.
Mi avvicinai piano e con estrema lentezza poggiai la mano sull'ottone freddo della maniglia, stringendo intorno le dita.

Presi un sospiro e poi aprii la porta in un gesto flemmatico del braccio.

Furono due grandi occhi neri, quelli che mi accolsero, spalancati sul mio viso. Una bocca semi dischiusa, il petto che si alzava ed abbassava ritmicamente come a voler riprendere fiato.
Un'espressione di perplessità gli attraversò il viso nel momento in cui posò il suo sguardo su di me; la mano ancora alzata a mezz'aria, pronta a battere un altro colpo sulla porta.

Scesi gli occhi su quella figura slanciata per assicurarmi che non stessi sognando, che fosse davvero lui.
Li feci vagare sulle sue spalle, tra le sue scapole, alla base del collo, dove con lieve stupore mi accorsi dei due bottoncini sbottonati all'altezza del colletto.

E allora lo studiai meglio in volto: i capelli neri più spettinati del solito, leggeri e quasi invisibili rivoli di sudore gli carezzavano la fronte, le guance rosse come due ciliegie.

<<Ma cosa...>>

Cosa ti è successo? Stavo per chiedere, ma mi fermai.
No, non era quella la domanda giusta.

<<Ma cosa ci fai qui?!>> esclamai in un gridolino soffocato, cercando di rimpiattare la mia sorpresa senza successo.

Lui per un primo momento interminabile si limitò a guardarmi– no, a ispezionarmi sotto il peso del suo sguardo.

Mi osservava, come a chiedersi se fossi davvero reali, lì di fronte a lui e allora per poco non mi misi a ridere, perché se c'era qualcuno che dovesse porsi questo dubbio tra i due, beh, quello di sicuro non era lui.

<<Posso entrare?>> fu la domanda affannosa che mi porse quando i suoi occhi puntarono i miei, incastrandoli, non facendo minimamente caso alla domanda che per prima io gli avevo posto.

Puoi entrare?

Ma non demorsi, non potevo e lui me lo doveva.

<<No, se prima non mi dici che diamine ci fai qui e perché sei così...>>
Non riuscii a trovare la parola giusta.

<<Hai corso, per caso?>> chiesi con espressione indecisa sul volto, passando per una seconda volta lo sguardo lungo tutta la sua figura.

Questa volta fu il suo turno di guardarmi confuso.
<<C-cosa? No, io... senti, mi fai entrare così ti spiego tutto... per favore?>>

<<Credo che tu sia stato molto chiaro...>> risposi in un sussurro, abbassando piano gli occhi e non riuscendo a celare quella sfumatura di amarezza che mi accarezzò la voce, indebolendomela.

E sperai che lui non se ne accorgesse, che non ci facesse caso, ma non fu così, perché lo sentii muoversi in quell'immobilità scomoda che fino a quel momento aveva mantenuto; lo sentii muoversi, alzando piano una mano e, con lentezza disarmante, lo sentii poggiare i polpastrelli sulla mia guancia.

A quel contatto sussultai e alzai gli occhi smarriti e confusi su di lui ed eccola, quell'espressione di afflizione traboccare da quel viso contrito.

<<Ti prego, fammi entrare un secondo...>> mi sussurrò piano con voce tremante.

E fu quell'intonazione, quella sfumatura che suonava come una preghiera in quelle parole così angosciate, fu quella frase che mi spinse indietro, facendomi indietreggiare e lasciare lo spazio... per entrare.

<<G-grazie.>>balbettò lui entrando velocemente e chiudendosi la porta alle spalle.

Feci istintivamente qualche passo indietro, portandomi al centro della stanza, l'accappatoio ben stretto sul corpo: tenevo i lembi con le mani, le braccia ben serrate contro il petto.
Il cappuccio sulle mie spalle, mentre minuscole gocce cadevano dalle punte dei miei capelli, disegnando piccole macchioline sul pavimento intorno a me.

Lui alzò lo sguardo su di me e soltanto in quel momento sembrò accorgersi che indosso avevo solamente un accappatoio ed ero completamente bagnata.
<<Oh.>> esclamò, nel momento in cui questa consapevolezza lo pervase e non poté fare a meno di sgranare un po' gli occhi, sorpreso.

<<Scusami, io non mi ero accorto che fossi... che tu fossi–>>

<<Non preoccuparti.>> lo interruppi subito, puntando i miei occhi contro i suoi.

<<Perché sei qui, Finn?>> chiesi di nuovo col tono più deciso che riuscii a simulare, mentre il cuore mi galoppava nel petto.

<<Io...>>
Prese un respiro ad occhi chiusi e quando li riaprì, mi stupii.

<<Io sono stato uno stronzo, Mills. Scusami.>> disse tutto d'un fiato, così velocemente che mi ritrovai a chiedermi se avessi capito bene.

Il mio sguardo si corrucciò, le mie labbra si schiusero appena, il respiro mi si rincorse in gola.
<<Tu... cosa?>>

<<Io sono stato uno stronzo.>> ripeté piano, facendo un passo avanti verso di me.

<<Perdonami, ti prego. Sai che non penso davvero quelle cose di te, sai che...>> le parole gli morirono in gola.

<<Cosa? Cosa dovrei sapere, Finn?>> domandai con scherno e mal velata delusione.

<<Tu non fai altro che confondermi, Finn.>> lo rimproverai, scuotendo piano il capo, mentre i capelli bagnati mi inumidivano il viso a quel contatto.

<<Non fai altro che confondermi.>> ripetei.
<<Mi eviti per settimane, neanche mi tocchi. Poi mi invii un messaggio, rispondo e sei tu quello che non risponde più. Poi mi prendi la mano, poi mi respingi di nuovo, poi mi baci, poi mi volti le spalle. Poi sparisci, ti cerco e tu mi dici di no... Mi confondi, Finn, lo capisci?>> sputai fuori senza riuscire a contenermi, con voce rotta.

E quelle parole si depositarono tra noi senza nessun riscontro, nel silenzio assordante di quella stanza si dispersero come sabbia al vento, mentre i suoi occhi erano ancora fissi nei miei.

E poi lui parlò.

<<Starei meglio se ti avessi accanto.>>

Lo disse in un sussurro impercettibile, quasi lo mimò con le labbra, ma io lo sentii.
Sentii la forza di quelle parole biascicate colpirmi i timpani come fossi nel bel mezzo di un'esplosione. Percepii la testa pulsare come se la avessi appena sbattuta in malo modo.

<<Queste sono le mie parole.>> sussurrai in risposta con occhi spalancati, puntandomi un dito contro il petto come a enfatizzare che erano mie.

Che ero io che le avevo dette a lui e lui non aveva perso tempo a rinfacciarmele, a schernirmele contro quella sera, come la migliore delle beffe.

E per un secondo il pensiero che mi stesse prendendo in giro un'altra volta mi scalfì la mente, provocandomi un brivido di freddo.

<<Sì.>> lo vidi annuire piano.

Abbassai il mento, focalizzando meglio i miei occhi su di lui.

Ma cosa...

<<Sì, ma sono anche le mie.>>

E fu in quel momento che per quanto volessi, per quanto mi sentissi fiera di me fino a quell'istante, non riuscii più.
Non riuscii più a trattenere le lacrime che con prepotenza lasciarono i miei occhi.

<<Non riesco a crederti.>> risposi in un singhiozzo smorzato, abbassando lo sguardo dalla vergogna.

<<Non dopo stasera... Finn... Ma hai idea delle cose che mi hai detto? Di come tu mi abbia fatta sentire, di– oh!>>

Un'esclamazione di stupore bloccò le mie parole, perché fino a quel momento avevo tenuto gli occhi bassi e non mi ero accorta che lui si fosse avvicinato a me; in una frazione di secondo aveva poggiato le sue mani lungo le mie braccia, stringendomi nella sua presa.

E quando alzai lo sguardo umido su di lui, ecco che lo vidi ancora quel conflitto interiore.

<<Non piangere ti prego, non riesco più a vederti piangere.>> confessò, portando una mano sulle mie guance, passando delicatamente i polpastrelli sulla mia pelle per togliere via le lacrime.

<<Credimi, ti prego. Io non le penso quelle cose, lo sai che è così.>>

La sua espressione era così carica di dispiacere e risentimento che solo a guardarlo mi si stringeva il cuore.

<<Credimi, ti prego... credimi amore.>>

Mi raggelai sul posto. Mi feci di ghiaccio, mentre il cuore smise di battermi per un momento.
I miei occhi si spalancarono nei suoi, i muscoli rigidi dallo stupore.

Erano state solo le ultime due parole: erano state pronunciate così piano che fossi stata lontana anche solo un centimetro in più probabilmente non le avrei neanche sentite.
Non le avrei neanche sentite perché non erano state dette per essere udite, ma lui le aveva pronunciate a se stesso in un moto d'istinto in cui il suo cuore aveva parlato per lui.

E lui sembrò accorgersi in un secondo di ritardo ciò che aveva appena detto, perché un'espressione di stupore si dipinse anche sul suo viso.

<<Scusami... cazzo, scusami.>> si affrettò a dire a voce troppo alta.
<<Io non so perché... Non so da dove mi sia uscito, non so perché l'ho detto, Millie. Scusami davvero... Dio, sto facendo una cazzata dopo l'altra.>>

Si portò una mano tra i capelli, alzando gli occhi al cielo, mentre continuava a imprecare e maledirsi.

E io avrei voluto dire qualcosa, ma per quanto desiderassi non riuscivo: ero pietrificata nello sbigottimento, quasi sconcertata.
I miei occhi erano fissi su di lui, attirati come una calamita da quel viso preoccupato e confuso allo stesso tempo.

<<Ti prego, dì qualcosa.>> mi supplicò, prendendomi il volto tra le mani, il suo viso a un palmo dal mio.

Aprii la bocca, ma non emisi alcun suono.
La richiusi.

Poi, senza capire quando lo avessi deciso, senza rendermi conto di ciò che stessi facendo, senza nessuna cognizione di causa, tempo o spazio, mi avvicinai a lui.

Premetti piano le mie labbra sulle sue.

Fu lieve, leggero come sfiorare un petalo di rosa, morbido come carezze di velluto, e fu vero, fu luce in tutto quel buio, sollievo in tutta quella sofferenza.

Le mie labbra accarezzarono le sue in un dolce bacio a stampo: le tenni giusto la frazione di un lungo secondo. Poi mi allontani da lui.

Lui spalancò gli occhi, sorpreso.
<<E questo... questo per cos'era?>>

<<Per ricordacelo.>> dissi piano.

La sua espressione si fece ancora più confusa: <<Ricordarcelo...?>>

Annuii, dando voce ai miei pensieri.
<<Era per ricordare a me stessa che nonostante tu sia stato un perfetto stronzo, stasera, questo non cambia le cose, non cambia ciò che io provo per te...>> confessai ad occhi bassi, mentre le guance mi si arrossivano dall'imbarazzo.

<<... E per ricordare a te... per ricordarti che qualsiasi sia il problema che ti porti dentro, qualsiasi sia il motivo del tuo... astio nei miei confronti, della tua perenne indecisione... qualsiasi sia, io ti aspetterò Finn. E quando tu ti deciderai ad aprirti con me io... io sarò qui.>>

<<E lo so...>> continuai in fretta, prima che potesse rispondermi.
<<Lo so che probabilmente è colpa mia, che ho tradito la tua fiducia, che sono impulsiva, che sono... una testa di cazzo. Lo so, Dio, davvero. Solo...>>

Tirai su col naso e finalmente alzai gli occhi, puntandoli dritti nei suoi.

<<Solo... tu non arrenderti con me, ti prego. Sii paziente, con me, perché io non– >>

Scattò in avanti, con impulso, con impazienza, quasi con bisogno.
Mi strinse la testa tra le mani, facendo scontrare le nostre labbra.

Non ebbi il tempo di chiudere gli occhi, anzi li spalancai, e adesso lo guardavo: gli occhi stretti, strizzati, come a voler imprimere quell'istante, mentre premeva forte le sue labbra sulle mie.

Si allontanò dopo pochi secondi.

<<E questo per cos'era?>> chiesi questa volta io, ancora incredula.

E per la prima volta quella sera lo vidi sorridere, ma sorridere davvero; non come quando mi aveva sorriso sul red carpet, né come quando mi aveva rivolto quei sorrisi di cortesia per tutta la sera, no.

Lo vidi allargare le labbra e mostrarmi quei denti bianchissimi, trasmettendomi un calore ineguagliabile, un calore che sapeva di felicità.

<<Questo è per ricordare meglio.>> rispose con voce suadente.

Fu un istante: solo per un istante i nostri occhi si incastrarono nella stessa muta richiesta.

fu la risposta che si diedero all'unisono, il silenzioso consenso.

Finn mi appoggiò le mani sulla vita e iniziò a spingermi piano verso dietro.
Camminavo al contrario, non avevo il coraggio di girarmi, i suoi occhi mi tenevano in ostaggio, mentre lui guidava il mio corpo, passo dopo passo, con lentezza lancinante.

Indietro e ancora, ancora, finché... le mie gambe non incontrarono resistenza nel morbido bordo del letto.

Mi spinse dolcemente indietro, circondandomi la schiena con un braccio, rallentando così la mia caduta sul morbido materasso, mentre il suo corpo si abbassava lento sopra il mio, insieme al mio.

In pochi secondi mi ritrovai sdraiata, con solo l'accappatoio addosso, i capelli ancora bagnati a inumidire le lenzuola sotto di me.

I miei occhi spalancati nei suoi, le labbra umide, semiaperte dall'impazienza che mi mozzava il respiro.

Lui reggeva il suo peso sui gomiti mentre mi guardava con aria trasognata, il suo respiro caldo sul mio viso.

E soffrii, quando sentii il suo corpo staccarsi dal mio, e stavo per protestare, stavo per aprir bocca, quando sentii le sue gambe stringermi la vita e vidi il suo viso che adesso mi guardava dall'altro.
Finn era seduto su di me, le ginocchia premute contro il mio bacino, la schiena dritta mentre mi scrutava da sotto le lunghe ciglia nere.

<<Mmh...>> sussurrò piano, mentre le sue dita si avvicinavano alla piccola cintola dell'accappatoio stretta intorno alla mia vita.

<<Carino quest'accappatoio.>> sussurrò piano, accarezzandomi con movimenti estremamente lenti da sopra il tessuto che mi copriva.

<<Ma non è un po' troppo... pesante?>> chiese, rivolgendomi uno sguardo incuriosito, come se quello che stesse chiedendo avesse davvero bisogno di una risposta, come se fosse un argomento importante.

Deglutii forte, sentendo improvvisamente la gola asciutta.
I miei occhi ancora spalancati su di lui, trepidanti, impazienti.

<<Forse meglio se lo togliamo, non credi?>> chiese ancora, corrugando la fronte, come se stesse davvero constatando cosa fosse meglio e cosa no.

Sentii le sue mani sulle mie e un attimo dopo il mio busto si sollevò dal materasso, arrivando all'altezza del suo.

Lui restò fermo, seduto ancora sulle mie gambe, mentre io mi sedevo sul materasso, le sue mani intorno al mio corpo.

<<Quindi, Millie?>> chiese incuriosito.
<<Staresti più comoda se... te lo togliessi?>>

Annuii impercettibilmente, in silenzio, senza riuscire a fiatare, soggiogata dal suo sguardo, dalle sue parole soavi, mielose, che scivolavano sui miei timpani come la musica più dolce.

<<Immaginavo.>> sorrise, lasciando che le dita gli scivolassero nuovamente sulla mia cinta.

La slegò piano, gli occhi concentrati sui suoi movimenti lenti, mentre io ero concentrata su di lui.

La slegò e con estrema lentezza mi fece scivolare l'accappatoio lungo le spalle, poi lungo le braccia, me lo sfilò dalle mani, lasciando che cadesse alle mie spalle, sulle lenzuola del letto.

E i suoi occhi mi percorsero, si soffermarono su ogni centimetro di pelle, perché sì– , ero completamente nuda davanti a lui, alla mercé dei suoi sguardi.

<<Sei bellissima...>> mi celebrò con voce improvvisamente insicura, mentre sentivo le sue mani spingermi nuovamente contro il materasso.

Mi appoggiò piano, scendendo insieme a me e finalmente le sue labbra toccarono le mie e non solo per un secondo, e non nella paura di un bacio non ricambiato, no.
Finalmente le toccarono davvero, completamente: le accarezzarono, si accolsero calde, impazienti, smaniose di tutti quei baci che per troppo tempo non avevano ricevuto.

Finn mi accolse nel momento in cui gli chiesi di più, mi accolse in tutta la sua dolcezza, senza esitazione.

Mi accolse in tutto il mio bisogno, esattamente come io feci con lui.

E nel momento in cui si staccò da me, facendo vagare le sue labbra in altri scorci di pelle non lo fermai; non lo fermai mentre scendeva piano sul mio sterno, non lo fermai mentre scendeva giù, sulla mia pancia, lasciando piccoli, casti baci, e giù ancora, e ancora fino a sfiorare la parte più sensibile di me.

Trattenni il fiato quando le sue labbra si posarono lì, mentre le sue mani si aprivano lungo i miei fianchi, tenendomi ferma.

<<Finn.>> lo chiamai in un sussurro, stringendo forte le mani tra le lenzuola, mentre lo sentivo accarezzarmi dove più ero vulnerabile.

<<Sì?>> rispose lui, alzando la testa su di me e guardandomi dal basso del mio corpo.

Lo guardai per secondi interminabili e nel momento in cui lui stette per parlare, gli afferrai la mano, alzandomi dal materasso e mettendomi seduta in uno scatto.

In un moto di confusione lui fece lo stesso, mentre i suoi occhi erano attraversati da una scintilla di preoccupazione.

<<Ho fatto qualcosa che–>>

Ma non ebbe mai modo di finire la frase, perché mi spostai velocemente verso di lui, sedendomi sopra le sue gambe, aggrovigliando le mie intorno alla sua vita, disperdendo le mani nei suoi capelli e premendo  forte le mie labbra sulle sue, tutto in una frazione di pochi secondi.

E la sentii la sua sorpresa nella lentezza che ci mise a ricambiare il mio bacio, mentre le sue dita premevano forte contro la mia vita nuda.

<<Oh, non avresti dovuto...>> sussurrò con voce roca al mio orecchio, mentre poggiava le labbra contro il mio collo, scendendo piano.

<<Sei nuda, seduta su di me... lo sai vero?>> mi chiese mellifluo, facendo perdere un battito al mio cuore, mentre le sue labbra continuavano a tracciare percorsi indecisi sulla mia pelle.

Non risposi, non ci riuscii.

E tra baci, carezze, gemiti, mani tra i capelli, gambe aggrovigliate, tra spasmi di piacere, brividi di calore, non riuscii a capire il momento esatto in cui lui si spogliò: così piano, così lentamente, che non me ne accorsi se non quando me lo ritrovai nudo, sopra di me.

<<Mi eri mancata.>> mi sussurrò in un momento di quiete in cui aveva perso lo sguardo tra i lineamenti del mio viso.

<<Sei... sicura?>> mi chiese piano, mentre io già annuivo ancor prima che lui potesse finire la frase.

E così accadde. Accadde e fu meraviglioso, ancora più bello della prima volta, ancora più dolce, ancora più intenso.
Ogni movimento mi colmava e non solo il corpo, ma anche il cuore.

I suoi fianchi contro i miei erano pura poesia, le sue mani su ogni centimetro del mio corpo erano così giuste da farmi sentire completamene appagata, ad ogni tocco.

Fu così perfetto, così incredibile da lasciarmi senza fiato.

E quella notte dormivo già, accoccolata al suo petto, prima che potessi sentire il fiato caldo delle parole che mi sussurrò tra i capelli.

<<Sì, avevo corso per raggiungerti.>>

Perché ancora non sapevo che Finn Wolfhard avrebbe anche corso una vita intera, solo per raggiungermi e passare con me i suoi ultimi dieci minuti di esistenza, fossero stati anche solo dieci secondi: lui avrebbe corso per me.

Spazio autrice
E dopo dieci capitoli esatti, ecco che è successo di nuovo. Ma sarà per l'ultima volta?
Opinioni?

Ve lo avevo detto che questi Emmy sarebbero stati di fuoco!
Regalatemi una ⭐️ se vi è piaciuto il capitolo!

P.s. questo è l'ultimo capitolo che esce fuori dal giorno prescritto, dalla prossima settimana si torna alla routine domenicale, quindi... a domenica ♥️

P.s.s. Trovate qualcuno che sia disposto a correre per voi.

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