Chapter thirty-six: Indefinito

Consiglio: The XX – Angels (Bashki Remix) Per chi seguisse la playlist su Spotify, non c'è questa versione della canzone quindi ho messo quella originale. Questa è davvero speciale però, ascoltatela se vi va :)


And with words unspoken
A silent devotion
I know you know what I mean
And the end is unknown
But I think I'm ready
As long as you're with me

P.O.V. Millie

Novembre, quel giorno, si era presentato con la pioggia.

La sentivo battere forte sui vetri della macchina, mentre tenevo lo sguardo perso tra i primi raggi del sole che stavano facendo capolino nel il cielo grigio di quell'alba plumbea.

Era malinconica quell'alba, faticava a nascere ostacolata dalla pioggia fitta; nuvole troppo dense per gli sprazzi timidi del sole.

Ed i miei occhi scorrevano asettici, pigri, guidati dall'auto che si muoveva rapida nell'autostrada ancora sgombra di quella mattina.

<<Quindi tesoro tornerai a casa prima questo weekend?>> fu la voce di mia madre dall'altro capo del telefono.

Annuii, anche se sapevo che lei non potesse vedermi:<<Sì.>> risposi distrattamente.
<<Ho da fare questo photoshoot e poi prendo il primo aereo della domenica.>>

<<Non sai quanto sono felice di vederti, tesoro!>> trillò la voce di mamma Brown.
<<Per ora sei stata così... assente. E quelle poche volte che ci siamo visti eri sempre stanca... Sono contenta che torni un po' a casa, ti farà bene.>>

"Ti farà bene." mi ripetei come un automa, cercando di convincermene.

"Ti farà bene, Millie."

<<Tesoro, sei ancora lì?>>

<<Sì mamma... scusami, la linea è un po' disturbata.>> mentii nella speranza che lei non se ne accorgesse.

E lo feci con una naturalezza che mi strinse il cuore; avevo perso il conto di quante bugie avevo rifilato nell'ultimo mese.
Bugie piccole, insignificanti, ma pur sempre bugie.

"Questa settimana non torno a casa, ho molto da fare" era la risposta che avevo rifilato per settimane, quando me ne stavo in albergo a guardare il soffitto.

"Oggi è andata benissimo." dicevo quando io e Finn, anche quel giorno, ci eravamo rivolti a stento la parola.

"Sono molto entusiasta." quando invece sentivo il dispiacere insidiarsi fastidioso tra i pensieri.

Sentii mia madre stare per parlare, ma la interruppi prima che potesse: <<Senti mamma, sto arrivando sul set... ci sentiamo dopo, okay?>>

Altra bugia.

Mancava ancora oltre un'ora di strada, ma mi giustificai pensando fosse una bugia a fin di bene. Dopotutto sarebbe stato troppo sgarbato dire "Non ho voglia di parlare né con te, né con nessuno."

Giusto?

<<Va bene, Millie...>> fu la voce poco convinta di mia madre.
<<Sei... Sei sicura che vada tutto bene?>>

<<Benissimo, mamma.>> tentai di suonare convincente e, nel momento in cui mi accorsi che forse non lo sembrai molto, aggiunsi: <<Sono solo un po' stanca, non... non devi preoccuparti.>>

<<Tesoro, è compito mio preoccuparmi per te. Lasciamelo fare.>>

E lo sentii dalla pronuncia delle sue parole, il sorriso tenero che aveva increspato tra le labbra.

Di riflesso sorrisi anche io, infastidita dalla verità di quelle parole.

<<Lo so...>> risposi, questa volta in un tono addolcito.
<<Lo so, ma sto bene. Quindi non farlo troppo.>>

La risposta di mia madre tardò qualche secondo di troppo, segno che fosse davvero preoccupata per me.

La sentii sospirare piano, forse nella speranza di non farsi sentire.
<<D'accordo tesoro, ci sentiamo appena finisci però, scrivimi, va bene?>>

<<Sì, sì tranquilla.>>

<<Allora ciao, Millie.>> mi salutò con voce mielata.

<<Ciao, mamma.>>

Staccai subito la chiamata.

So che avrei dovuto impensierirmi per lei, so che mi sarei dovuta mostrare più serena, forse più felice, magari più appagata, eppure... per quanto mi sforzassi, per quanto io fossi un'ottima attrice, non riuscivo.

L'unico ruolo che ero riuscita perfettamente a ricoprire, in quell'ultimo mese, era quello della mia Undici.

Mi ci ero buttata a capofitto, avevo investito tutte le mie forze e la mia concentrazione, tanto che adesso sentivo Undici come parte di me, un'estensione di me stessa.

Ero soddisfatta del lavoro serrato che avevo fatto in quelle ultime settimane di riprese, quel lavoro che mi aveva avvicinata di più al mio personaggio, facendomelo sentire reale, palpabile nella mia testa; mi sentivo affine a lei, la avevo capita come mai era successo prima.

Ma quello stesso lavoro mi aveva estraniata dalla realtà e anche se facevo finta non fosse così, in cuor mio ne ero stata più che felice.

Non avevo avuto tempo per nessuno, avevo corso da un set all'altro, da una truccatrice all'altra, da una costumista all'altra; mi ero ritrovata ad arrivare spesso in ritardo, forse per evitare di mettermi a parlar troppo con chiunque, forse per far sì che le troppe cose da fare mi occupassero i pensieri.

E avevo imparato impeccabilmente ogni battuta, persino quelle degli altri, avevo provato e riprovato ogni scena fino a renderla perfetta.

Persino con Finn mi ero trovata bene, soprattutto nei panni di Undici; anche lui in quel periodo sembrava essersi concentrato totalmente sul suo ruolo, sul suo Mike, e le nostre scene erano qualcosa di magnifico.

Mike e Undici sarebbero stati speciali in quella stagione.

Ma per il resto, io e Finn non ci intrattenevamo molto con la compagnia l'una dell'altro, nonostante in quei pochi attimi che capitava di incontrarci al mattino, di percorrere la strada del set insieme, riuscivamo a scambiare qualche parola che celasse l'imbarazzo.

E mi faceva sorridere, mi faceva ridere, così come io facevo con lui, i nostri occhi comunicavano nei loro sguardi sfuggenti, come avevano sempre fatto in quegli anni.

Perché quel legame c'era, e nessuno ce lo avrebbe mai strappato via. Quel legame fatto di empatia, di parole che non avevano bisogno di esser pronunciate per essere capite. Quel legame fatto di sorrisi genuini che ci regalavamo ad ogni occhiata, quel legame che nonostante la profonda differenza che ci caratterizzava, in qualche modo ci permetteva di capirci, di capire le parti più vere di noi.

Ed erano mani sfiorate, gesti delicati di cui nessuno si accorgeva mai, era la dolcezza di uno sguardo rassicurante dopo una giornata estenuante.

Era il "buongiorno" che mi riservava ogni mattina e il "a domani" che mi riservava a sera, quando andava via.

Erano piccolezze, quelle che mi riempivano la giornata di lui.

Io e Finn avevamo avuto, in quell'ultimo mese, un rapporto indefinito.

Non c'era rabbia tra noi, non c'era delusione, c'era solo voglia, voglia di ricominciare, voglia di farlo bene, questa volta.
C'era voglia di dare un senso a quell'amore che per troppo tempo era stato tormentato, c'era voglia di pace e di sicurezza e lo capivo, da come si muoveva lui accanto a me.

Lo capivo da come mi guardava, da come mi parlava, dalla sua delicata gentilezza che solo a me riservava.

Perché non ce n'era stato bisogno, non avevamo mai ripreso l'argomento dopo quella volta.

I primi giorni erano stati difficili, non lo nego. Ci eravamo evitati come peste– no, io lo avevo evitato come peste.

Il mio cervello aveva frullato migliaia di pensieri, il rimorso mi aveva divorata viva e non avevo avuto il coraggio di guardarlo, non una volta fuori dal set gli avevo rivolto la parola; poi, per puro caso, una mattina in cui ero arrivata in orario, lo avevo incontrato in roulotte.

Io ero entrata e lui era già lì; il suo corpo rilassato sul divano.

<<Buongiorno.>> mi aveva sussurrato con un sorriso un po' tirato, ma delicato sul viso.

Rimasi paralizzata sulla porta, gli occhi sgranati su di lui, indecisa se far dietro front e andar via come niente fosse o salutarlo a mia volta.

Alla fine avevo optato per la seconda opzione.

<<Ciao...>> era stato il mio tono insicuro, tremolante nell'indecisione di quella situazione.

E lui se ne accorse, si accorse del mio corpo rigido ancora sulla porta, eppure non si scompose; continuò a far finta di nulla.

<<Come stai?>> fu il suo sorriso che si incuneò in quelle parole a fior di labbra.

<<Io... sto... sto bene, grazie.>> avevo sorriso timidamente a mia volta.

E non avevo capito perché, perché non mi avesse chiesto di parlare, di chiarire, perché non fosse arrabbiato con me e non fosse schizzato via dal divano.

E così presi coraggio, avanzai nella piccola stanza, chiudendomi piano la porta alle spalle.

<<E tu?>> buttai fuori.

Il suo sorriso si allargò: <<Sto bene anch'io, grazie. Parto tra una settimana, rivedo la mia band, sai?>>

<<Ti mancano?>> gli avevo sorriso, mentre mi sedevo cauta accanto a lui, attenta a non sfiorarlo.

E poi io e Finn avevamo parlato.

Finn mi aveva raccontato dei suoi prossimi progetti, della sua band, delle prove che lo aspettavano, delle nuove canzoni che aveva scritto, le nuove melodie che aveva composto.

E io lo avevo ascoltato, come solo io sapevo fare, perché lui mi aveva parlato, come solo con me riusciva a fare.

Mi aveva poi chiesto di me, delle mie collaborazioni con Calvin Klein, i miei progetti con l'Unicef, i miei prossimi film, i miei programmi a breve e lungo termine.

Per la prima volta dopo giorni, forse addirittura mesi, ci eravamo riscoperti.
Ci eravamo ricordati l'un l'altro perché ci piacessimo a vicenda, ci apprezzassimo e stimassimo come persone.

Quella mattina ci eravamo incamminati insieme sul set, così come quasi tutte le mattine a seguire; e il silenzio era spesso imbarazzante, ma mai scomodo.

Averlo accanto istillava in me una sorta di sicurezza, nonostante mi sentissi comunque... frenata e sapevo, percepivo che per lui era lo stesso.

Mi sentivo bloccata e non perché non avessimo più toccato l'argomento, ma perché non volevo rovinare ciò che c'era tra di noi.

Vedete, il rapporto tra me e Finn era così bello, così genuino e puro, così naturale se non veniva intaccato da altri, da altro.

Era perfetto così, senza che ci fosse bisogno di definirlo, era perfetto finché restava nei limiti di una sincera, speciale amicizia.

E sapevo di essere ipocrita, forse incongruente, ma la paura di definire Finn come qualcosa in più, mi aveva da sempre spaventata.

Mi aveva spaventata all'inizio delle riprese di quell'anno e di quello precedente, mi aveva spaventata ad ogni bacio dato sul set e anche fuori, ad ogni lacrima, e più di tutto mi aveva spaventata quando un mese prima avevo rischiato di perderlo.

La verità era che la sola idea di perdere Finn mi terrorizzava.

Così, per quanto amassi la sua compagnia, spesso mi ero ritrovata a tenermi a debita distanza, sfiorarlo il meno possibile, guardarlo il meno possibile.

Non potevo rischiare di rovinare tutto di nuovo, il compromesso di averlo per metà di quanto il mio cuore desiderasse, era sempre meglio di non averlo affatto.

Così adesso  avevo raggiunto una sorta di... quiete, forse anche apatia.

Perché se essere in buoni rapporti con lui mi rendeva serena, non poterlo toccare come io volevo, invece, mi rendeva inquieta.

Tutto questo sfociava in una mia totale passività nei confronti delle giornate che trascorrevano lente, del corso degli eventi che mi travolgeva, sballottandomi da una parte e dall'altra.

Ero felice a metà, ma la felicità per metà mi muoveva per inerzia; e mi mancavano gli stimoli, mi mancava la voglia di esternare il mio affetto nei confronti delle persone che amavo.

Non avevo voglia di parlare, di vedere, di stare a sentire nessuno per la maggior parte del tempo e così mi ritrovavo a evitare tutti: da mia madre alla mia migliore amica.

Perché che cosa avrei dovuto dire?

Che stavo bene? Era una bugia.

Che ero felice? Era una bugia.

Che non mi mancava niente? No, no, no. Sarebbe stata una bugia.

E allora evitavo.

Evitavo di parlare, di propinare finti sorrisi, di far finta di essere come in realtà non ero.

Gli unici momenti di felicità, nel corso della giornata, erano quelli che passavo con lui.
Momenti che spesso si trasformavano in dolce agonia, nel reprimere l'impulso che avevo di osare di più.

E allora mi rattristavo, e l'apatia tornava a consumarmi gli orli dei pensieri.

E la mia vita era un circolo vizioso, ancora e ancora.

Penso che fu così che mi addormentai, quella mattina, con la mente strabordante di pensieri, finalmente la stanchezza ebbe la meglio.

L'auto mi cullò nel suo rombo tenue per tutto il viaggio, il ticchettio ritmato della pioggia mi anestetizzò i sensi, facendomeli distendere nel sonno.

E non la visti, quella mattina.

Non la visti l'alba che finalmente riusciva a sbocciare tra le nuvole, spazzando via gli ultimi grigiori della notte.

E non lo sapevo ancora, che qualcuno quel giorno avrebbe soddisfatto il proprio bisogno.

Quel bisogno di sentirsi un po' più come l'alba e un po' meno come la notte.

P.O.V. Finn

<<Siamo quasi arrivati, Mr. Wolfhard.>> mi informò il mio autista.

<<Oh, va bene.>> risposi, mentre mi rimuovevo le cuffiette dalle orecchie, le ultime note della canzone ancora ad accarezzarmi i timpani.

Mi sentivo riposato quella mattina, come se quando avessi poggiato i piedi a terra e fossi sceso giù dal letto, una consapevolezza intrinseca mi avesse pervaso, rilassato i muscoli.

E quella consapevolezza era cresciuta, ancora e ancora, fino a trasformarsi in pura eccitazione.

Eccitazione, sì: perché quel giorno lo avremmo passato insieme, tutto il tempo.

Le riprese del penultimo episodio erano state sospese e una serie di photoshoot avrebbero occupato tutta la giornata.

E finalmente l'avrei rivista, dopo essere stato via un'intera settimana.

Le prove con la band erano state proficue; tutti eravamo rimasti soddisfatti delle novità, della bellezza delle nuove melodie e del miglioramento delle vecchie, di quelle che portavamo già nel cuore.

Prove su prove, organizzazione del tour, ci avevano stremato, ma era stata una stanchezza felice, che io e i ragazzi avevamo ben accolto.

E dopo una notte di riposo, adesso ero pronto a rivederla.

Millie era stata sempre il mio primo pensiero, quella settimana, nonostante avessi dovuto implicare tutte le mie forze per non mandarle neanche un singolo messaggio.

Fosse stato per me, gliene avrei mandati a centinaia.
C'erano così tante cose che avrei voluto sapere di lei, in quelle settimane di silenzio.

Come stava, cosa stava facendo, se si era ricordata di pranzare, se aveva riposato bene.

Eppure mi ero frenato: sapevo che non l'avrei aiutata. Perché per quanto lei cercasse di nasconderlo, di non farmelo vedere o di far finta di nulla, io la conoscevo bene.

La vedevo, l'insicurezza che spesso aveva nello starmi vicino, la riscontravo nei suoi occhi, la preoccupazione di far incrinare tutto anche solo sfiorandolo con un polpastrello.

E nonostante io non vedessi letteralmente l'ora di tirarla tra le mie braccia, volevo regalarle quel tempo.

Perché a volte, avevo scoperto anch'io a mie spese, anche quando sei innamorato serve tempo; tempo per pensare, per metabolizzare, tempo per fare un passo avanti, su quel terreno che senti malleabile e che ti blocca nella paura di sprofondare in sabbie mobili.
Sabbie mobili dalle quali poi ti viene difficile, se non impossibile, tritarti via.

E allora avevo aspettato, aspettavo ancora, ogni giorno, ogni secondo di ogni ora.

Aspettavo un suo segno, che fosse un sorriso di consenso, una parola sussurrata, un cenno con la testa.

Perché volevo che lei lo volesse, volevo che lei fosse pronta, pronta davvero, per me.

Per me, che mi ero sentito un tale sciocco, così stupido, così in colpa.

Ma adesso sapevo, sapevo cosa volevo e nessuno me lo avrebbe strappato via.

C'era solo da capire se...beh, se quello che io volevo era anche quello che voleva lei.

<<Eccoci, Mr. Wolfhard.>> mi informò il mio autista, mentre sentivo la macchina spegnersi sotto di me.

Alzai di sfuggita lo sguardo nel parcheggio ancora semivuoto di quella mattina, prima di puntarlo sul mio autista.

<<Grazie mille. Ti chiamo io appena finisco, va bene?>>

<<Va bene, Mr Wolfhard.>>

<<E smettila di essere così formale con me, Aaron, mi conosci da tre anni.>> gli sorrisi divertito.

Lui riuscì a stento a trattenere una risata; un'espressione sorpresa gli si dipinse sul volto.

<<Scusi, Mr Wolf– ehm...>>

Alzai gli occhi al cielo, prima di sorridergli.
<<A più tardi.>>

Lui fece cenno di sì con la testa; così, in un movimento fluido, scesi velocemente dall'auto che ripartì dopo pochi secondi, dietro di me.

Mi incamminai impaziente verso l'entrata del set, attento a non mettere i piedi nelle fresche pozzanghere che quella mattina tappezzavano il terriccio.

Fu così, mentre speravo che non si mettesse più a piovere, per quel giorno, che sfuggita i miei occhi si posarono poco più avanti, su un'altra auto nera.

E sarebbero velocemente passati oltre, se l'autista non avesse attirato la mia attenzione.

Piantai i piedi, adesso le palpebre affilate, mentre cercavo di capire cosa stesse facendo.

Ma che diamine...

L'autista era voltato di schiena, piegato sulle gambe, la schiena inarcata in avanti, sul sedile posteriore, mentre teneva una mano sullo sportello aperto.

Mi avvicinai velocemente, raggiungendolo in ampie falcate.

<<Tutto bene?>> chiesi non appena mi fermai a pochi passi dietro di lui; uno sguardo confuso a stropicciarmi il volto ancora assonnato.

Lui si mise dritto e si voltò verso di me e fu in quel momento che la vidi: Millie era profondamente addormentata sul sedile posteriore.

<<Oh sì, Mr Wolfhard, buongiorno.>> mi salutò educatamente quello.

<<Stavo provando a svegliare Miss Brown, ma vede... Non ho cuore, non riesco proprio. La bambina sembrava così stanca e adesso che sta riposando mi sembra così un peccato...>>

Non potei fare a meno di sorridere all'espressione sinceramente costernata di quell'uomo.

<<Lei... non è riposata?>>

L'ometto si avvicinò a piccoli passi a me.
<<Oh vede...>> iniziò un po' incerto.
<<Che resti tra noi, ma questa settimana Miss Brown è stata molto stressata e, beh...>>

<<Capisco.>> lo interruppi.

<<Posso provarci io?>>

Lo sguardo dell'uomo si illuminò, come lo avessi appena sollevato da un compito arduo.

<<Sì!>> esclamò, per l'appunto.
<<Ho privato a scuoterla, ma è così addormentata...>> mi spiegò, mentre si metteva da parte per farmi passare.

Mi avvicinai allo sportello ancora aperto e inarcai la schiena, protraendo il busto verso di lei ed entrando la testa all'interno dell'auto.

<<Millie.>> la chiamai, ma lei non si mosse.

Avvicinai ancora di più il viso al suo, mentre con una mano le accarezzavo il viso, levandole una ciocca di capelli dalle labbra dischiuse.

<<Mills, devi svegliarti...>> mentre piano le sistemavo i capelli dietro l'orecchio.

Le accarezzai piano la guancia: non volevo che si svegliasse bruscamente, sapevo bene quanto un brutto risveglio potesse rovinare la giornata.

E poi, mentre sentivo il suo viso premere contro il mio palmo, come alla ricerca inconsapevole di una carezza che le concessi subito, mentre vedevo i suoi occhi stropicciarsi, strizzando le palpebre– poi, era già troppo tardi perché potessi trainare indietro le parole.

<<Forza, svegliati amore.>>

P.O.V. Millie

Il mio sogno era bellissimo.

Un mare azzurro si stagliava davanti ai miei occhi, addosso il sole caldo dell'estate.

Io ero seduta sulla battigia e lo guardavo; cercavo di scorgere quell'aureola di ricci neri che affiorava dal pelo dell'acqua in alternanza di veloci secondi.

Le braccia magre si muovevano flessuose, mentre lui nuotava verso di me. 

Sentivo una sensazione surreale di piace scaldarmi il cuore, mentre sorridente aspettavo che mi raggiungesse, mentre lo aspettavo impaziente, seduta tra la sabbia bagnata.

Onde leggere mi accarezzavano le gambe, lasciando che i granelli si depositassero sulla pelle, un attimo prima di esser risucchiati dall'onda successiva.

Poi Finn arrivò, lo sentii mentre il peso del suo corpo faceva cadere il mio sulla sabbia; sentii quest'ultima impigliarsi tra le ciocche bagnate.

Buttai fuori una risata, mentre Finn ancora su di me, iniziava a riempirmi il viso di baci.

E poi fu un sussurro che mi carezzò il timpano, lì sull'orecchio, proprio dove un suo bacio bagnato si stava posando.

Fu lì che nel sogno, Finn parlò.

<<Forza, svegliati amore.>>

E in quel momento, con mio grande disappunto, le immagino iniziarono a sbiadire davanti ai miei occhi.

Le vidi allontanarsi piano, sentii il peso del corpo di Finn venire meno, il rumore delle onde e dei gabbiani cessare; in compenso un fastidioso silenzio.

Poi però, mi accorsi che sentivo ancora le sue carezze.

Ma sì, forse non avevo smesso di sognare! Forse, se mi fossi concentrata il sogno sarebbe ripartito da dove si era appena interrotto...

Sentivo ancora il calore delle sue mani sul mio viso...

Se mi fossi concentrata, forse...

Dovevo solo...

<<Mills.>>

Aspettate un momento...

<<Millie, sei arrivata.>> fu il palmo che mi carezzò la fronte; l'alito di una voce che conoscevo bene a soffiarmi sul viso.

E ancora con gli occhi chiusi, il mio cuore perse un colpo.

Perse un colpo perché no, non stavo più sognando.

Lui era lì, sentivo il suo respiro, la sua mano, sentivo il suo odore che si era sparso nell'abitacolo della macchina, che si era fatto improvvisamente troppo piccolo.

Aprii gli occhi con lentezza estenuante e furono due iridi nere quelle che mi accolsero.
Eppure era un nero caldo, le palpebre assottigliate nella leggerezza di un sorriso.

Sì, il viso sorridente di Finn Wolfhard era a un palmo dal mio.

Schiusi le labbra dalla sorpresa, non sapendo bene cosa dire; gli occhi spaesati, fissi su di lui.

Ma lui– oh lui, sembrava tutto fuorché confuso.

<<Buongiorno.>> fu il sussurro dolce, due occhi grandi grandi che mi scrutarono il viso.

Sentii la sua mano staccarsi dalla mia fronte, ma fu un dettaglio che registrai a fatica, ancora stordita dalla sua vicinanza.

E lui sembrò notarlo, eppure non si mosse, non si mosse mentre quasi i suoi ricci mi accarezzavano la fronte.

<<Ciao.>> esalai col poco fiato che avevo in gola, la bocca improvvisamente asciutta.

<<Che... cosa fai?>> chiesi con voce tremula d'indecisione.

<<Beh, non è ovvio?>> chiese lui, mentre quel sorriso sghembo bocciava sul suo viso, così vicino che se mi fossi sporta solo un po' avrei potuto...

No.

<<Ti sveglio.>> concluse semplicemente.

<<E perché?>> corrugai la fronte.

<<Perché stavi dormendo. Cos'è, non volevi essere svegliata? Stavi facendo un bel sogno?>> sorrise divertito.

<<Sì, ma la realtà è– >> mi bloccai, nel realizzare troppo tardi di star dando voce ai miei pensieri.

Dovevo assolutamente destare i miei sensi, le mie percezioni cognitive o da lì a pochi secondi ne avrei combinata una delle mie, ancora aggrappata all'intorpidimento del sonno.

E quando guardai meglio Finn, notai che adesso lui non rideva più.

La mascella era serrata, gli occhi socchiusi in un'espressione concentrata.

<<La realtà è...?>> mi fece eco.

<<Niente.>> gracchiai, mentre con le mani mi davo la spinta per alzar la schiena, segno di volermi alzare.

Fu in quel momento che Finn si allontanò, portando indietro la testa e spingendo il busto fuori dall'auto.

<<E comunque non intendevo quello.>> dissi, evitando di guardarlo, mentre uscivo fuori dall'auto con movimenti fiacchi, stanchi.

<<Se lo dici tu...>> fu il risolino che ricevetti in risposta.

A quelle parole sbattei lo sportello dell'auto alle mie spalle, forse con un po' troppa foga.

Rivolsi un sorriso al mio autista che mi guardò con aria intenerita.

<<Mi dispiace che si sia dovuta svegliare, Miss Brown...>>

Gli sorrisi dolcemente: <<Oh Jake, non preoccuparti. Avrò da riposarmi stasera.>>

Quello annuì piano, prima di darmi le spalle e risalire sull'auto.

Mi incamminai svelta verso l'entrata del set, noncurante dei passi che sentivo accanto a me, anche se sapevo benissimo a chi appartenessero.

<<Non hai dormito bene, per ora?>> mi chiese con tono cauto, come a non voler osare troppo.

Gli rivolsi un'occhiata sbieca, prima di ripuntare lo sguardo dritto sulla strada davanti a me.

<<Non molto...>> confessai poi, in un sussurro.

<<Oh, mi spiace...>>

Gli rivolsi un'altra occhiata di sottecchi, nascosta dalle ciocche che mi coprivano il viso mentre camminavo: sì, gli dispiaceva davvero.

<<Non è importante.>> scrollai le spalle e lui non ribatté.

Il tragitto proseguì senza che nessuno dicesse nulla, finché non mi fermai di fronte la porta della roulotte della mia costumista.

<<Beh...>> iniziai, dondolandomi nervosamente sui talloni.

Lui mi sorrise comprensivo: <<Sì, ci vediamo dopo. Vado a prepararmi anch'io.>>

<<Allora a dopo...>>

<<A dopo, Mills...>> e sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò.

Mi diede le spalle e si allontanò, lasciandomi lì a pensare ancora una volta al sogno che avevo fatto quella mattina.

***

<<Sei in orario stamattina!>> fu il saluto di Shawn nel momento in cui entrai nella stanza in cui avremmo girato il photoshoot quella mattina.

Lo guardai con un sorriso divertito:<<Avevi dubbi?>>

<<Sì, in verità.>> rispose spassoso.
<<Finn è già arrivato, ti aspetta di là.>> mi informò un attimo dopo.

<<Inizieremo con voi, stamattina. Pomeriggio invece ci saranno anche i ragazzi, d'accordo?>>

<<Oh, pensavo che... che saremmo stati tutti insieme...>> fu la mia voce tremula, mentre improvvisamente sentivo le gambe cedere.

<<No, Millie. Abbiamo pensato sia giusto dare a Mike e Undici qualcosa... in più, non credi?>>

Non riuscii a rispondere, ma Shawn non sembrò accorgersene mentre controllava scartoffie di cui aveva le braccia piene.

<<Beh, che ci fai ancora qui?>> mi spronò, notando che non mi ero ancora mossa d'un soffio, le gambe ben piantate a terra.

<<Forza Millie! Il tempo è denaro!>> mi incitò.

Non so come, riuscii a mettere un piede dietro l'altro senza che il panico mi subissasse sotto il suo peso che sentivo diramarsi piano, invadere i pensieri.

<<Oh, sei arrivata!>> fu il sorriso caldo di Finn che mi accolse nel momento in cui varcai la soglia di una piccola stanza.

E persi un battito a quegli occhioni neri posati dolcemente su di me, a quello sguardo puramente grato, gioioso di vedermi lì, nonostante ci fossimo incontrati neanche un'ora prima.

Lui era posizionato davanti il fondale fotografico, alcuni fotografi maneggiavano già i vari attrezzi, calibravano le luci e provavano qualche scatto.

<<Non sono... non sono in ritardo, giusto?>> chiesi rivolta verso Finn.

Ma a rispondermi fu una voce diversa: <<Oh no, cara.>>

Mi voltai verso quel tono sconosciuto: una piccola donna si stava avvicinando a me, una macchina fotografica tra le mani, con un obiettivo così grande che per un attimo mi chiesi se le sarebbe cascata a terra mentre camminava (con mia sorpresa non successe).

<<Sei in perfetto orario!>> disse, fermandosi di fronte a me.
<<Sono Aria, la fotografa di questa mattina, è un piacere conoscerti cara!>>

<<Grazie. Il piacere è mio.>> sorrisi educatamente; le dita a intrecciarsi in movimenti spigolosi che tradivano il mio nervosismo.

<<Perché non ti posizioni accanto a Finn? Così cominciamo. La mia equipe è già pronta.>> mi informò, poggiandomi delicatamente una mano sulla spalla e invitandomi ad avvicinarmi a lui.

<<Oh... sì, sì certo...>> farfugliai, avvicinandomi a lui a piccoli passi.

E camminavo piano, come se ad ogni passo l'avvicinarmi mi rendesse più vulnerabile, esponesse parti di me che non volevo lui vedesse.

Perché non volevo lui capisse la difficoltà e insieme il sollievo che provavo nello stargli accanto.

Ed era benessere e male insieme, era l'antidoto di ogni turbamento e la fonte di ognuno di esso.

<<Buongiorno Undi.>> scherzò, nel momento in cui mi fermai a pochi passi da lui.

<<Ciao Mike.>> ricambiai, un sorriso genuinamente divertito sul viso.

Fu un incrocio di sguardi; io troppo imbarazzata, e lui, così rilassato in quel sorriso disteso. Finn emanava... pace, quella mattina. Una serenità che irradiava, che ti circondava, mettendo un po' a tacere i tuoi demoni interiori.

E gliene ero talmente grata che forse fu per questo che il mio sorriso si allargò, accolse quella sua dolcezza con tutto il calore possibile.

Una luce mi accecò gli occhi.

E vidi Finn davanti a me strizzare le palpebre allo stesso modo.

<<Scusate ragazzi! Scatto rubato!>> furono le scuse di Aria; un'espressione bonariamente colpevole sul viso.

<<Soltanto che eravate così... spontanei.>>

Abbassai lo sguardo dagli occhi di Finn, mentre sentivo il sangue fluirmi alle guance.

Finn non rispose nulla, semplicemente si limitò a tenere gli occhi fissi su di me.

<<Bene ragazzi, cominciamo davvero adesso, pronti?>>

Io e Finn annuimmo all'unisono.

E fu un intrico di mani sfiorate, mani afferrate, tra i capelli, sul viso, polpastrelli su labbra troppo tremule.
Furono sguardi d'intesa, occhi che gridavano nel silenzio di un bisogno; abbracci che premevano per entrarti dentro.

Quando i suoi palmi si posarono dolcemente sulla mia vita, sentii le sue dita affusolate stringermi da sopra il tessuto leggero– lì in quell'attimo capii che sarei anche potuta morire e non me ne sarei neanche accorta.

Lì, dove quel tocco casto e leggero mi portava a ricordi che avevo preferito seppellire nei meandri della mente, lì erano quei ricordi che avevo sperato di dimenticare e di conservare come tesori allo stesso tempo– e fu un guizzo che mi passò davanti, un attimo in cui rividi il suo corpo sopra il mio.

E Finn dovette accorgersene perché lo vidi, trattenere a stento un sorriso, le labbra premute tra di loro.

Perdi la cognizione del tempo e mi ritrovai a sperare che la mattinata non finisse mai, che le sue mani su di me non finissero mai.

Così quando Arya annunciò la fine del photoshoot per quella mattina, mi ritrovai a contare i minuti che mancavano al pomeriggio; anche se non saremmo stati soli, anche se gli altri avrebbero circondato e invaso la nostra bolla di sapone.

E non mi importava, non mi importava di nulla, nell'impellente bisogno che premeva per averlo vicino.

<<Tutto bene?>> la voce di Finn mi riportò alla realtà, mentre ci incamminavano entrambi fuori dal set fotografico.

Annuii d'istinto, forse troppo energicamente.

<<Sì... tutto bene.>> risposi, cercando di sembrare davvero tranquilla.

<<Sembri pensierosa.>> fu lo sguardo di sottecchi che mi rivolse mentre entrambi camminavamo l'uno accanto all'altra; le braccia nude attente a sfiorarsi piano, come fosse per caso.

Non risposi.

<<Tu... vuoi parlarne?>> chiese in un tono che malcelò una sfumatura di preoccupazione.

<<No.>> risposi di getto, scuotendo forte la testa.

<<Io... non credo ce ne sia bisogno, Finn.>> aggiunsi dal profondo del cuore.

Ed era la verità, una delle poche verità che aveva accarezzato la mia lingua in quelle ultime settimane.
Perché io lo sapevo e lui anche: il nostro modo di cominciare era diverso, era speciale, esattamente come lo era il nostro rapporto; e se c'erano cose per cui la mancanza di una parola, di una spiegazione, potesse mandare tutto a puttane, ce n'erano altre, di cose, che non avevano bisogno neanche d'esser pronunciate.

<<È stato un fraintendimento, abbiamo mandato a rotoli tutto, che dopotutto è la cosa che ci riesce meglio...>> fu la punta d'amarezza che sporcò le parole chiare, altrimenti decise.

<<Millie, mi dispiace... lo sai vero?>>

Mi presi un attimo per guardarlo in volto: quegli occhioni grandi, così dispiaciuti, supplicanti. Le labbra storte in una smorfia che faceva intuire tutto il suo rimorso.

<<Certo. Certo che lo so.>> risposi decisa.
<<Dispiace a te, come a me.>> buttai fuori con sincerità trasparente, le pupille fisse nelle sue.

Per un momento sembrò che, per la seconda volta quel giorno, Finn volesse aggiungere qualcosa; sempre per la seconda volta, però, sembrò ripensarci.

E mi chiesi cosa fosse, cosa c'era che volesse dirmi: qual era il bisogno che lo spingeva ad aprir bocca e quello che gliela faceva richiudere un secondo dopo?

E forse la parte più irrazionale del mio cuore lo sapeva, sapeva cosa lui volesse dirmi, esattamente come lui sapeva che io, sempre forse, non ero pronta a sentirmelo dire.

Non ancora.

Non quel giorno.

Spazio autrice

Il p.o.v. iniziale di Millie era in assoluto la parte più importante di questo capitolo, spero che l'abbiate capito/apprezzato.
Sono curiosa di sapere cosa ne pensiate, se qualcuno ha voglia di dirmelo, beh, sono qui 🤗 

Per il resto, questo era il Photoshoot che immaginavo stessero facendo quel giorno, e niente...
a domenica prossima 🌸


Saluti da una Amsterdam uggiosa 🌦
(sì, sono in vacanza e ho trovato un modo per scrivere/pubblicare il capitolo in tempo!)
Spero mi amiate un po' di più 🐻♥️

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