Chapter thirty-nine: Terra ferma
Consiglio: Infinity – Jaymes Young
Baby, this love, I'll never let it die
Can't be touched by no one
I'd like to see him try
I'm gonna make this last forever, don't tell me it's impossible
'Cause I love you for infinity
I love you for infinity
P.O.V. Millie
1 anno dopo
<<Miss Brown, da questa parte per favore, mi segua.>>
Annuii cortese, prima di muovermi dietro la donna dai capelli corvini di fronte a me.
<<Ha con sé il suo pass? È meglio se lo mette al collo, adesso.>> mi rivolse un sorriso gentile, senza rallentare un secondo.
Camminava decisa, si destreggiava tra corridoi che a me sembravano tutti uguali, illuminati da una fastidiosa luce a neon.
Frugai velocemente nella borsa, prima di tirar fuori il pass, con sopra la mia foto e il mio nome. Districai il laccetto blu con dita faticose; mani tremolanti. In un movimento fluido, poi, me lo passai al collo.
<<Fatto.>> dissi con voce pratica.
<<Bene.>> fu il sorriso sintetico che mi rivolse la donna, mentre d'improvviso imboccava un corridoio a destra.
<<Questo posto sembra un labirinto...>> sussurrai con occhi sgranati, attenti a ogni particolare.
<<Oh, sì.>> mi rispose quella, ancora di fronte a me. <<L'ippodromo qui a Roma è molto grande, e si è allargato parecchio negli ultimi anni. Un sacco di concerti vengono fatti qui ogni anno, sa?>>
<<Mhh.>> mi limitai ad annuire, gli occhi a girovagare intorno a me.
<<Mi hanno detto che vorrebbe stare dietro il palco, Miss Brown. È corretto?>>
Avrei dovuto dire sì. Avrei dovuto annuire, forse sorridere, eppure non lo feci. Mi bloccai nell'immobilità di un pensiero che faceva capolino tra tutti gli altri, spiccava fastidioso in cerca dell'attenzione che gli avevo negato, tutto il giorno. Lo avevo spinto via, ogni volta che mi si era propinato davanti, e adesso era lì, a grattarmi fastidioso la lingua.
<<No.>> fu la risposta che mi lasciò le labbra in un moto inconsapevole, prima che potessi fermarlo.
E mi stupii di me stessa, della semplicità con cui lo dissi; la donna si voltò sorpresa verso di me: <<Ah... no?>>
Scossi la testa con decisione, poi, con più accortezza e un sorriso gentile sul viso, chiesi: <<Non c'è... un posto sul prato?>>
Mi accorsi che non camminavamo più, adesso eravamo ferme in un corridoio esattamente uguale a tutti gli altri; lei voltata verso di me.
<<Beh sì, Miss Brown, di sicuro un posto c'è per una persona sola!>>
La donna controllò l'orologio con fare sbrigativo, prima di fare dietro front e cambiare strada, tornando indietro.
<<Mi segua, sta per cominciare. Dobbiamo tornare indietro...>> fu il tono sbrigativo che mi porse, camminando ancor più veloce rispetto a qualche minuto prima.
Mentre le correvo dietro, il telefono nelle mie mani vibrò.
"Ma dove sei?"
Sorrisi a quel messaggio, scacciando via l'impulso di rispondere.
<<Aumenti il passo, Miss Brown!>>
E così feci, mentre il telefono vibrò nuovamente, segno che mi avesse mandato un altro messaggio.
"Entro tra cinque minuti. Mi dispiace tu non sia arrivata in tempo... a dopo."
Trattenni una piccola risata tra i denti, ricacciandomi il telefono in tasca: sarebbe stata una sorpresa, decisi, mentre a marcia sostenuta attraversavo corridoi sconosciuti, in un posto sconosciuto, di una città sconosciuta, pensando che no– no, io ero arrivata in tempo.
Io ci ero arrivata eccome, ci ero sempre arrivata, anche se forse non... non all'inizio, non da subito.
Ripensai all'anno passato, a quanto era stato difficile, ai problemi, alle lacrime, alle incomprensioni; tutte cose a cui adesso riuscivo a sorridere piano; un sorriso leggero, più consapevole di me, di ciò che mi sentivo– no, di ciò che ero.
E ripensai a quella promessa fatta a fior di labbra; promessa che, nel bene e nel male, avevo mantenuto, che mantenevo ancora adesso.
Promessa che mi aveva legata in modo indefinibile e indefinito all'unica persona che sapeva come amare me; l'unica a saper tenermi stretta, che fossero mani sicure o traballanti, deboli o forti, stanche o rinvigorite dalla certezza del sentimento.
Erano le uniche mani, a sapermi afferrare, proteggere davvero nel garbuglio di carne e anima... mi stringevano, sapevano accarezzarmi, toccarmi come niente– ed era aria d'estate, profumo di vero, la sua pelle che sfiorava la mia...
<<Miss Brown, tra tre minuti i Calpurnia saranno sul palco! Ecco, quello è il suo posto.>>
La donna corvina accanto a me, mi indicò un piccolo spazio proprio sotto il palco, poco più avanti della prima fila di ragazzi e ragazze arrivate chissà quanto tempo prima di me.
E mi sentii un po' in colpa, lo ammetto, nel momento in cui mi mostrai alla luce, attraversai quella striscia di prato libera per poi fermarmi lì, proprio al centro; occhi rivolti verso il palco nascosto nella penombra di luci ancora spente.
Ho fatto in tempo.
Ma non passò che un secondo, che sentii i primi sussurri alle mie spalle.
<<Ma quella è...?>>
<<Ma ho visto bene, era Millie Bobby Brown? È davvero lei?>>
<<Ma cosa ci fa qui?>>
<<Ma no, hai visto male.>>
<<No, ti dico che è lei!>>
<<Ma sono solo amici, vero?>>
<<Non ci credo, finalmente a un concerto di Finn, era ora ci andasse!>>
Sì, sì era davvero ora. mi ritrovai a rispondere tra me e me, alla voce femminile proveniente alle mie spalle.
E mi sarei anche voltata verso quel chiacchiericcio curioso, lo avrei fatto davvero, se le luci davanti a me non avessero esploso con violenza, facendomi stringere le palpebre.
Boati si alzarono alle mie spalle, mani strepitanti a sbattere con foga; grida e cori che sollecitavano la band a uscire. E io li ricevetti, accolsi quel marasma di suoni che sbatterono, quasi li sentii rimbombare contro la mia schiena... Li accolsi con un sorriso caldo tra le labbra, occhi lucidi e fieri: sgranati esattamente come quelli dei giovani alle mie spalle, nell'attesa di scorgerli, di scorgerlo.
Strinsi le mani al petto in un moto di attesa trepidante, accartocciai le dita fino quasi a non sentirle più; incapace di stare ferma, ondeggiai il corpo di qua e di là, sporgendomi inutilmente.
E allora risi di me stessa, di quell'impazienza da bambina, di quell'amore da donna.
Risi di me, sempre più forte, sapendo che nessuno potesse vedermi, girata di spalle, né sentirmi, in quella baraonda che sapeva di libertà. Mi sentii libera come non lo ero mai stata, lì da sola, in quella babilonia, in quel mare di eccitazione che mi trasportava, mi sballottava il cuore, facendomelo battere ancora, ancora, più forte.
E li sentii esplodere, dritte contro i timpani, grida indescrivibili, quando finalmente, li vidi anche io.
I Calpurnia fecero ad uno ad uno la loro entrata sul palco, tra sorrisi e mani alzate nell'intento di salutare quel prato gremito di folla.
<<Ciao Roma!>> furono le parole in un italiano biascicato che lasciarono le labbra di Finn, proprio di fronte a me.
I capelli spettinati gli ricadevano in lunghe ciocche sul viso arrossato; lo sguardo perso oltre me, su di loro: sul suo pubblico.
E fu in quel momento che lo colsi, capii la sensazione di cui mi aveva sempre parlato: ed io avevo annuito sempre, senza mai capire davvero, fino ad ora.
Fino ad ora, che finalmente lo vedevo per intero, lo vedevo lì, di fronte a loro.
Loro che gridavano, lo chiamavano, applaudivano– erano tremore di terra e scalpitii di battiti.
Lo vedevo lì, con lo sguardo perso in quella folla, gli occhi sereni, pieni di vita, e fu come sistemare l'ultimo tassello del puzzle. Di quel puzzle che era lui, che pensavo di conoscere in ogni sfumatura, in ogni orlo di essenza– ma no, adesso lo vedevo.
Lo vedevo nella sua completezza, senza sapere che ancora molto mi toccava conoscere di lui, perché è molto ciò che è dato conoscere agli amanti della vita– molto nel tempo, molto nello spazio, nella vita di ogni giorno.
E sorrisi a quella consapevolezza ancora inconsapevole; mento alzato verso di lui, occhi persi sul suo viso, mentre già sentivo musica accarezzarmi i timpani.
E mi dimenticai, di sbracciarmi per ricordargli che fossi lì, mi dimenticai di chiamarlo, seppur così vicina: semplicemente mi persi, nella bellezza che irradiava, che sempre mi aveva ammaliata.
<<Finn! Finn! C'è Millie!>> fu il grido che si erse alle mie spalle, così spacca timpani da sferzare per un secondo tutte le altre voci.
E fu un tremolio di spalle, mi strinsi piano tra le braccia a quella voce che avevo percepito proprio dietro di me, imbarazzata da quel suono così diretto, secco contro le orecchie.
Un sorriso timido mi incuneò le labbra, mentre vedevo Finn far scattare lo sguardo verso quella voce, trattenendolo un secondo, per poi stringere le palpebre e far volare gli occhi tra la folla; le labbra strette tra i denti in un moto di concentrazione.
E mi fece ridere, quella sua espressione. Mi fece ridere come per un secondo le sue dita si fermarono sulle corde della chitarra, mentre gli altri continuarono a suonare indifferenti, trattenendo sorrisi tra occhi concentrati sui loro strumenti.
Mi fece ridere, vederlo così concentrato, a cercare me, a volere me, scrutare veloce i volti tra la folla; e risi, risi, risi– aria cristallina si disperse intorno a me, gettata fuori da battiti di cuore leggero.
E forse fu la mia aria che respirò, forse fu il suono della mia risata, più vicino di quanto pensasse, o forse fu solo istinto, quando in un guizzo di palpebre i suoi occhi finalmente mi trovarono.
Pupille nere si arpionarono a me, mi strinsero in uno sguardo appagato, pieno di me. Lo vidi, il taglio degli occhi incunearsi all'ombra di un sorriso: labbra dolci sbocciarono nel più dolce dei saluti, mentre teneva i suoi occhi su di me.
Ed io alzai piano la mano in un'onda leggera di dita, mimai un "ciao" con le labbra, certa di sentire gli occhi vitrei, resi lucidi dalla felicità.
<<Ciao.>> fu la sua risposta che rimbombò al microfono, refolo di fiato di un respiro affannoso.
E fu un sussulto di risate che si alzò dalla folla; persino Jake, questa volta, non si trattenne dal ridere contro il microfono, mentre le sue dita continuavano a muoversi abili sulla chitarra.
Finn sembrò accorgersi appena di avermi salutata ad alta voce davanti a tutti, sembrò a malapena udire il brusio di risate di quel gesto spontaneo, non pensato.
Strinsi le labbra nel trattenere anch'io una risata, mentre lui adesso mi rivolgeva un ultimo sguardo da sotto le ciglia lunghe, prima di ricominciare a muovere le dita su quel complesso di corde.
E mi ritrovai a saltare, a ballare; la fronte madida di sudore, capelli appiccicati sulla fronte. E non mi importava– no, non me ne fregava niente – mentre mi muovevo, respiro ansante, senza freni mi muovevo. Ballavo ogni canzone, su ogni battito di nota, mi scatenavo sul quel prato, in quell'aria leggera che quella magica città mi stava regalando, in una notte speciale.
Gli rivolsi più di uno sguardo, ricambiato o no, notato o no; sarei ipocrita se non vi confessassi che lo guardai tutto il tempo, solo lui, a riempire il contorno dei miei occhi.
Lui che suonava concentrato, che si fermava per buttar giù una battuta, che in una sincronia di sguardi, era sinergia pura, erano un tutt'uno di suoni e movimenti, forza irradiata. E poi lui che sorrideva al pubblico, persino lui che si fermava per bere e sputar via l'acqua, e poi... lui che cercava me, tra la folla, trovandomi sempre.
E mi chiesi se non fosse forse questo l'amore, trovarsi in un guizzo di palpebre, tra un'accozzaglia di persone: l'amore era muta ricerca– sguardi di carezze e parole di occhi.
L'amore era lui che mi sorrideva nella frazione di un secondo, ed io che ricambiavo in iridi fiere di lui.
Persi la cognizione di tempo e spazio, di causa e ragione. Persi tutto, in quelle ore di libertà, nonostante fossi sola, nonostante non avessi nessuno accanto a cui prendere la mano per ballare, e mi sbatté forte contro il petto la consapevolezza che non mi serviva nessuno.
Non mi serviva nessuno, per essere veramente felice, perché in quel momento io ero l'essenza della felicità.
E fu nella serenità del paradosso, che mi ritrovai: il caos intorno a me e la quiete nel cuore, riflesso di ciò che i miei occhi vedevano.
<<Questa canzone è... per qualcuno di speciale.>> fu il respiro affannoso di Finn, le labbra contro il microfono, mentre con un gesto flessuoso delle dita, si tirava sù i capelli, appiccicati alla fronte.
I suoi occhi saettarono su di me in una muta dedica, prima che quella canzone mi pervadesse i timpani.
Parole dritte al cuore si dispersero nel tremolio del mio corpo, mentre una lacrima solitaria mi rigava le guance– e fu una sola, quando sentii la sua voce, una che scappò via dal mio cuore.
<<My baby don't cry
All she do is laugh
When she gets home
She takes a long bath>>
E mi sorpresi di come io in quell'istante stessi proprio piangendo, nel silenzio della dolcezza del cuore, stessi piangendo di gioia, d'amore; grata di esser nascosta a tutti, di spalle a tutti, tranne che a lui.
Lui, il cui sorriso mi stravolse dopo quella prima strofa, lui, che forse sembrò notare il luccichio sulla mia guancia, perché i suoi occhi si addolcirono, la sua voce si fece friabile nelle note successive– occhi fissi nei miei.
<<There's no wasting time
There's no wasting time>>
E senza accorgermene, mi ritrovai a cantare a squarcia gola quella canzone che in cuor mio avevo capito, fin dal primo momento in cui l'avevo sentita, a chi fosse dedicata. Era stata una consapevolezza che silenziosa si era sedimentata nel mio cuore, come a volerne celare l'imbarazzo, come a volersi nascondere dall'incredulità della parte più logica di me che "no", avrebbe altrimenti detto: "Questa canzone non è per te."
<<One, two, three, four!>>
E invece sì, sì, sì, era per me!
Lo gridava fiero, adesso, il mio cuore, in un frullo di battiti; coscienza che si istillava silenziosa in ogni nervo.
<<My baby is insane
She brings all the rain
She just got home
She threw it all down the drain>>
Occhi nei miei. Labbra calde di sorrisi, furono quelle che si scontrarono.
<<There's no wasting time
There's no wasting time
There's no wasting time
There's no wasting time!>>
"Non c'è tempo sprecato." furono le parole che rimbombavano contro la mia gabbia toracica, mentre le gridavo forte, gliele gridavo in faccia.
Sguardo dritto su di lui, e non mi importava non mi guardasse sempre, non mi importava se i suoi occhi non erano sempre fissi nei miei, perché lui mi sentiva, ne ero certa.
Focalizzava la mia voce, in quel boato di grida, me che facevo sfregare quelle parole contro la gola, fino a fare male.
Perché era vero.
Non c'era stato tempo sprecato, non ce n'era e non ce ne sarebbe stato, mai. Era troppo breve, troppo fragile e malleabile, la vita, per sprecare tempo.
E già mi crogiolavo nel rimorso di quei mesi confusi, che sentivo ormai quasi lontani, una sfumatura leggera nel passato dei miei giorni, già colorata da nuovi ricordi, nuove parole, nuove certezze. Già cuciti con attenti punti di sutura, erano stati curati gli errori e le incomprensioni del passato, forgiati in nuove chiarezze, ma anche in nuove difficoltà.
Tante cose erano state affrontate, superate nel bene e nel male, nella consapevolezza che altre si sarebbero presentate. Eppure eravamo ancora lì, a tenerci silenziosamente e nascostamente per mano, senza fare rumore, senza attirare l'attenzione.
Eppure era lì, come un ago che pungeva alla base della testa, il ricordo delle difficoltà, di ognuna di esse e del tempo che, all'inizio, avevamo perso sì, perso davvero.
Ma mai più sarebbe accaduto. Da qualche parte avevo sentito e fatto mia la capacità di saper disinnescare...
"Non trasformare ogni discussione in una lotta di supremazia. Non credo che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un passo indietro. E invece sta un passo avanti."
E noi, di passi indietro, ne avevamo fatti eccome. Piano, inciampando negli errori di due giovani menti, mano nella mano, avevamo fatto passi indietro e passi avanti, scoprendo la bellezza di camminare insieme.
Quella melodia si spense leggera, mentre vedevo Ayla e Jack sul palco, schiena contro schiena, strimpellare gli ultimi accordi della mia canzone preferita.
<<E adesso gente, per salutarvi, l'ultima canzone della serata!>> fu la risata di Ayla, I lunghi capelli a ondeggiarle sulle spalle, mentre intonava l'ultima nota di quella notte.
Mi sorpresi, di come il tempo mi era volato nel cuore, quella sera, di come mi era volato dentro in quei mesi, facendomi perdere ogni consapevolezza di tempo. Mi sorpresi, di come non importavano le circostanze, se lui era lì. Se lui c'era.
E lui c'era. Sempre.
Torto o ragione.
Giusto o sbagliato.
Lui c'era, nel rumore del silenzio.
Ogni giorno, ogni istante.
Ogni volta che avevo bisogno di lui, lo trovavo lì, a fianco a me. Dalla mia parte. Lì era stato, silenzioso, nella rabbia e nella serenità, nella tristezza e nella felicità.
Ed era bella, era bella e fresca la consapevolezza dell'amore. Di una ragazza e un ragazzo, che fossimo stati solo attimo di un amore eterno, o vita dello stesso.
<<I am a city boy
You are a city girl
You date the city tool
I am a city fool
I am a city boy
City boy>>
Ogni metro, ogni palmo conquistato, era stato una fatica: noi, abituati a muoverci nel silenzio del cuore, era lì che avevamo fatto radici. Nella parte più vera, quella che non ha bisogno di essere gridata agli altri, quella che si crogiola nella dolcezza dell'intimità.
Ed era stato un mondo nuovo, un continente da esplorare; eppure adesso ne conoscevamo le zone d'ombra e quelle di sole. Sapevamo dove i raggi battevano forte e dove invece la pioggia minacciava di bagnarci. E anche dalle difficoltà, ci facevamo bagnare perché poi, sì, ci asciugavamo sempre al sole dell'amore.
<<When you have an artistic view
It'll rub off on your take
When you answer to a bunch of dudes
You should run away>>
Senza dubbi e incertezze, in ogni scusa e debolezza, in ogni crepa di dubbio, lo ritrovavo.
In quel marasma di battiti, nella città di ombre e luci che era il mio cuore, nel silenzio della notte, nel caos del giorno.
<<I am a city boy
You are a city girl
You date the city tool
I am a city fool
I am a city fool
I am a city fool>>
E mi persi, nella melodia della sua voce, mi persi in ogni inflessione di tono, nei respiri che esalava, tra una nota e l'altra, come se per me, stesse cantando. Per me, la sentivo mia, quella voce.
La sentivo mia, come propria la sentivano le persone in quell'istante– graffiante di muscoli e vene, una delicatezza disarmante, che faceva tremare le punte delle dita.
Sinuosa, flautata, era. Si alzava, la sua voce, tra i cori che l'accompagnavano, le mani che ondeggiavano a tempo, dandole movimento nell'aria della notte.
<<I am a, I am a city fool
I am a, I am a city, city fool>>
E poi mi guardò, puntò gli occhi di me nel solo chiarore della luna, li scorsi in un guizzo veloce, palpebre che mi rinchiusero in iridi nere.
E aggiunse una frase.
Una frase, alle ultime parole di quella canzone già finita.
Aggiunse una frase, nel buio di quegli occhi che sentii addosso, e forse solo io, in quell'istante di secondo, me ne accorsi– li sentii su di me, nascosti tra fronde di ciocche nere e lucide, appiccicate sulla fronte.
<<You are my city girl.>>
Sentii un sorriso allargarsi sul mio viso, talmente forte da fare quasi male nel tirare la carne delle mie labbra tremule. Si incastonò nel riflesso dei miei occhi, quel sorriso che gli regalai.
E lui lo ricambiò, respiro ansante e petto convulso dal fiato che mancava, lo ricambiò, prima di far vagare gli occhi sulla folla.
Esplose un boato da far tremare i timpani, quando loro salutarono ancora, ringraziando e afferrando da terra i regali e le lettere che il pubblico aveva lanciato loro durante tutto il concerto.
<<Era dedicato a lei, l'ultima frase alla fine?>>
<<Magari no!>>
<<Ma io credo di sì!>>
<<Ma cosa ha detto? L'ha detto così piano e così velocemente che non ho sentito!>>
<<Ma la guardava?>>
<<Non si capiva!>>
<<Ma stanno insieme?>>
<<No, no! A quest'ora si saprebbe.>>
<<No che non stanno insieme!>>
<<Ma se invece stessero insieme?>>
<<Sono solo amici! E poi... anche se, non si capisce! Non si capisce niente, come ogni volta !>>
Trattenni una risata tra le labbra, senza voltarmi neanche una volta verso quel vociare alle mie spalle; supposizioni su supposizioni, come sempre, soprattutto negli ultimi due mesi a questa parte...
I ragazzi sul palco ringraziarono per attimi interminabili, prima di scomparire dietro il palco.
Era il momento.
Sgattaiolai fuori da quel piccolo spiazzo di prato che era stato solo per me, per tutto quel tempo, eppure la curiosità di dare un volto a quelle voci vinse dentro di me.
Mi voltai con un sorriso divertito verso le ragazze alle mie spalle e non passò molto prima che queste si accorgessero di me che le fissavo, qualche metro più avanti a loro.
Furono sorrisi e gridolini che mi regalarono, tra sguardi confusi e mani crepitanti in un insieme di battiti; occhi vispi su di me.
Mi limitai a sorridere a tutte, alzando piano una mano e muovendola in segno di saluto.
<<Ciao.>> fu il saluto in italiano che regalai loro, prima di sfuggire ai loro occhi, dirigendomi verso l'uscita laterale, a qualche metro da me.
Loro gridarono qualcosa alle mie spalle, eppure la mia mente era già occupata per registrare anche una singola parola.
Strinsi il pass che avevo ancora appeso al collo, me lo rigirai nervosamente tra le dita, cercando di ricordare la strada per arrivare ai camerini della band, che mi era stata spiegata solo qualche ora prima.
Ma tra tutti quei corridoi, quelle fastidiose luci a neon, e il mio scarso senso dell'orientamento, era davvero difficile riuscire a ricordare...
Nel bisogno di muovere le gambe, nell'adrenalina che si mescolava al sangue che ribolliva ancora tra le note del concerto appena finito, imboccai il corridoio di destra, pregando Dio che fosse quello giusto.
Mi sorpresi nel momento in cui mi ritrovai a correre: era una corsetta leggera, niente di impegnativo o stancante, che però mi permetteva di colmare quell'incapacità di stare ferma, quella voglia di sbrigarmi nell'intento di trovarlo.
Dopo qualche minuto passato a percorrere mura e porte ai miei occhi tutte uguali, constatai di essermi ufficialmente persa.
Mi fermai di colpo in mezzo al grigio di quelle mura, andante, portando il dorso della mano sulla fronte madida, boccheggiando cercando di riprendere aria.
E me ne sarei accorta prima, se il cuore non fosse stato uno sfarfallio di battiti.
Lo avrei sentito, quel suono alle mie spalle– mi punzecchiò in ritardo la coscienza che, stanca, ferma su caviglie tremule, qualcuno stava correndo per me.
Stava correndo verso di me, che mi ero fermata per riprendere fiato.
Qualcuno stava correndo al posto mio, per raggiungermi. Raggiungermi a metà strada.
Eppure non me ne accorsi, non sentii il rumore delle suole alle mie spalle, non me ne accorsi finché non la sentii.
Quella voce.
<<Ehi, tu!>> fu il sorriso che seppi già esserci alle mie spalle.
Le pupille mi si dilatarono, mentre con uno scatto secco ruotavo la schiena; i capelli corti a sforzarmi gli zigomi, l'espressione sorpresa a dipingermi il volto in un sorriso.
Non ebbi il tempo di rispondere, né di ridere, né di respirare, perché due braccia mi cinsero, si strinsero ferme intorno alla mia vita, palmi e dita di cui già conoscevo ogni scorcio di pelle, ogni forma.
Due mani mi sollevarono per aria, facendomi volteggiare su un'aureola di ciocche scure, sudate.
<<Volevi fregarmi, non è vero?>> fu la risata che sentii, mentre vorticavo per aria.
<<Finn! Finn! Mi gira la testa!>> gridai forte, mentre un sorriso mi spaccava le labbra; le mie mani ferme sulle sue spalle, avvinghiavano la stoffa della maglietta bagnata, nel bisogno di tenermi.
<<Te lo meriti!>> mi canzonò, continuando a ridere e farmi volteggiare.
Spinsi fuori una risata, nella pace del cuore, nella contentezza di ogni cellula, nell'appagamento di sentirlo vicino.
Risi forte non riuscendo a trattenermi, sentendo quasi i polmoni bruciare, le palpebre serrate in quel vortico d'aria che mi faceva volar via le ciocche.
E non me ne accorsi, quando i miei piedi toccarono terra, non mi accorsi di lui, che mi aveva rimessa giù, mentre ero ancora persa nella mia risata, ad occhi chiusi.
Finn non mi interruppe, non mi richiamò, mi lasciò ridere fino all'ultimo respiro; e furono occhi vispi quelli che incontrai, arresi a me, quando i miei si riaprirono; come dovessero respirarmi, nella lucidità di quelle iridi nere.
Sorriso dolce che mi accolse, facendo sì che anche sul mio viso ne sbocciasse uno.
<<Eri qui.>> mi sussurrò piano, il suo volto a un palmo da mio.
<<Certo che ero qui.>> risposi con occhi seri, nel fremito della mia voce.
<<Come avrei potuto perdermelo?>> gli dissi, portando le mie mani sul suo viso, in carezze ad arrossargli le guance.
Lui abbassò lo sguardo, un sorriso timido sulle labbra: <<Non so...>> fu l'incertezza della sua voce.
<<Non avevi risposto ai miei messaggi e... non so, magari avevi avuto un imprevisto.>>
Scossi la testa, trattenendomi nel ridere di lui: <<Volevo solo farti una sorpresa, per questo non mi sono messa dietro il palco.>> spiegai in una volta.
<<Siamo venuti a Roma insieme. Sono venuta per questo. Per vedere te. Come avrei potuto perdermi questo spettacolo?>>
Alzò gli occhi su di me, un sorriso adesso furbo sul volto: <<Tecnicamente non sei venuta qui per me...>> scherzò piano.
Alzai gli occhi al cielo: <<Idiota!>> lo canzonai a mia volta divertita.
Era vero. Non ero andata lì... per lui.
Ufficialmente avevo accettato l'invito alla sfilata di quei giorni di Dolce & Gabbana, che più volte negli anni mi ero ritrovata a dover reclinare, a malincuore. Quando Finn, ormai mesi prima, mi aveva detto che negli stessi giorni si sarebbe svolto il suo concerto nella prima tappa italiana del tour di quell'anno, avevamo subito organizzato il tutto.
E ci era sembrato perfetto, un bacio dal cielo, una coincidenza da non poter perdere.
Eravamo stati attenti in quell'ultimo anno, a non dare troppo nell'occhio: l'idea era stata, ovviamente, di Finn. Fosse stato per me, per il mio carattere esuberante che più volte lui mi aveva fatto notare di avere, lo avrei gridato al mondo interno.
Eppure Finn mi aveva insegnato cosa fosse, in quei mesi, la pazienza del sentimento, urlato solo nella riservatezza dell'intimità. Era stato un bocciolo che aveva fiorito piano, senza fretta, tra sole e pioggia, era sbocciato nell'armonia di colori sgargianti.
Non era stato facile, non subito. Non per i primi mesi. L'inesperienza di portare addosso un sentimento così grande era sfociata spesso nell'incapacità di saperlo gestire.
Da quella promessa che avevo fatto, quell'ultimo giorno di riprese, molte cose erano cambiate nel tempo, eppure molte erano rimaste le stesse.
E il sentimento vero mi aveva stravolto, era arrivato così, piano, silenzioso, nel modo in cui fiorisce un fiore: in silenzio, con il tempo, senza fare rumore.
Mi aveva stravolto e travolto, l'amore.
Quello che costruisci con pazienza, che levighi nelle pieghe degli sbagli, che dipingi nei sorrisi di ogni giorno, di cui ne risani le crepe delle incomprensioni, e le raddrizzi per far sì che trovino la giusta strada.
<<Allora... ti è piaciuto davvero?>> mi chiese, occhi brillanti di un'aspettativa tribolante.
<<Se mi è piaciuto?>> chiesi sorpresa.
<<Sei stato... meraviglioso.>> gli risposi, mentre perdevo le dita tra le sue ciocche nere, accarezzandole piano.
Lui poggiò la fronte sulla mia e chiuse gli occhi. Un'espressione di pace a distendergli il volto; il suo respiro che entrava dritto nella mia bocca, che era mio, come il mio era suo.
<<Grazie.>> fu il sussurro che mi rivolse, le sue labbra a sfiorare le mie in quella parola così dolce.
<<A te.>> fu il sorriso che gli rivolsi, anche se lui non potè vederlo.
Poi premetti le mie labbra sulle sue.
Fu un bacio lento, leggero come un battito di cuore, mentre lo tenevo stretto a me per la nuca, le mie dita tra i suoi capelli.
Le sue mani mi cinsero la vita, facendomi aderire completamente al suo corpo, mentre mi respirava e mi dava aria al tempo stesso, mentre ogni angolo della sua bocca incontrava la mia in una danza che entrambe, vecchie amiche, conoscevano a memoria.
Ed erano passi tutti nostri, nella dolcezza di quel bacio che dilaniò i secondi del tempo, annullandone ogni logica.
Furono le sue dita tra i miei capelli quelle che sentii, mi ghermirono le ciocche umide, ancora calde del concerto di poco prima, e io mi strinsi a lui ancora di più.
Quando ci staccammo per riprendere fiato, furono le nostre pupille le prime a trovarsi. Nel silenzio di quell'attimo, in un'intesa che ormai conoscevamo bene, entrambi scoppiammo a ridere.
<<Ero venuta a cercarti, sai? Però penso di essermi persa...>> confessai, ancora ridendo.
<<Lo so. Questa è la direzione sbagliata. Ti ho cercato per una buona decina di minuti.>> mi rispose, occhi sorridenti, mentre piano scuoteva il capo, arreso alle mie scarse capacità di orientamento.
<<Seriamente?>> sgranai gli occhi, un'espressione seria sul viso.
Ero davvero così pessima?
<<Sì.>> fu il suo risolino, mentre io ancora lo guardavo imbarazzata.
<<Vieni.>> fu il sorriso gentile che mi rivolse, quando staccandosi piano da me mi prese la mano.
<<Gli altri si chiederanno che fine ho fatto, sono uscito subito per cercarti.>> mi spiegò, mentre piano mi trascinava con sé.
<<Oh.>> furono le mie labbra che si schiusero dalla sorpresa, mentre a passi incerti lo seguivo.
Lui dovette accorgersene, perché si fermò dopo pochi metri, rivolgendomi uno sguardo curioso, quasi preoccupato.
<<Cosa c'è? Non ti senti bene? Sei ancora accaldata?>>
Scossi subito la testa, ma lui non sembrò accorgersene.
<<Oh, no, io– >>
<<Vuoi aspettarmi qui? Vuoi sederti? Vado a prendere dell'acqua se vuoi. Ci metto solo due minuti a tornare indietro, tu respira e– >>
<<Finn!>> lo richiamai, interrompendo quel flusso di parole.
<<Sto bene! Non è... non è per quello.>> mi affrettai a spiegare, la mia mano ancora stretta nella sua.
<<E allora... cosa?>> furono i suoi occhi confusi che scrutarono il mio volto.
<<Io...>> iniziai imbarazzata, abbassando gli occhi.
<<Se non dovessi piacergli?>> fu il sussurro che mi lasciò le labbra, insicurezza manifestata dalle mie guance improvvisamente rosse.
La verità era che non avevo ancora conosciuto nessuno della band, non avevo mai incontrato nessuno di loro di presenza. Il fatto che fossero i migliori amici di Finn praticamene da una vita, che probabilmente sapessero quante ne avevamo passate, quante volte era stata colpa mia... mi faceva amplificar di più, in cuor mio, la paura di essere giudicata.
Come se il loro verdetto penzolasse già sulla mia testa, l'idea che loro avevano di me, e bastasse solo una conferma definitiva, prima di scaraventarmelo addosso.
Alzai gli occhi su Finn, e fu, ancora una volta, un sorriso disteso che incontrai.
<<Non essere sciocca.>> mi rassicurò, una carezza veloce sul viso, dita tenere a stringermi una guancia.
<<Loro sanno quanto io tenga a te. Ti piaceranno.>>
<<Sì, ma se io non dovessi piacere a loro?>> esclamai, alzando le sopracciglia in uno sguardo ovvio.
Il suo sorriso si allargò, mentre piano scuoteva la testa, i ricci a far danzare l'aria intorno a lui.
<<Fidati di me.>> mi disse semplicemente, mentre piano riprese a camminare.
Mi sforzai dal non rispondere, mentre la sua mano tirava gentile la mia. Mossi le gambe, riprendendo a camminargli accanto.
Fidati di me.
E lo feci, come avevo fatto in quell'ultimo anno, come sempre avevo fatto dalla prima volta che lo avevo conosciuto– come fosse riflesso incondizionato del mio cuore, fidarmi di lui.
Fu lui il primo a rompere il silenzio dei nostri passi: <<Hai sentito... l'ultima frase della canzone?>> mi chiese, gli occhi fissi ancora davanti a lui.
<<Sì.>> annuii in un sorriso.
<<Era per te.>> mi confessò in un sussurro, occhi fermi ancora di fronte a sé, la sua mano stretta nella mia.
<<Lo so.>> risposi, girando il volto verso di lui, accanto a me, e lasciando che mi sbocciasse un sorriso a fior di labbra.
<<Secondo te ho...>> lasciò la frase a metà.
Il mio cuore si incupì, pervaso dalla consapevolezza di ciò che volesse dire, di ciò che pensasse. Ed era ciò che più lo preoccupava, che più si era curato di tenere nascosto, protetto alle parole della gente, alla smania di sapere altrui.
"Secondo te ho sbagliato?" era ciò che non aveva pronunciato per paura di ferirmi, ma ciò che il suo cuore temeva, nella sensibilità dell'animo dolce che aveva.
Questa volta fui io che lo fermai, gli tirai il braccio, posizionandomi di fronte a lui.
<<No.>> decantai con voce seria, occhi decisi nei suoi.
Poi addolcii lo sguardo, ripetendo parole che per primo lui era stato a pronunciarmi, mesi prima: <<Lasciamogli pensare quello che vogliono, che dici?>>
Finn sembrò rilassarsi, abbozzò un sorriso timido: <<Dico che sono d'accordo.>>
Annuii al suo consenso, mentre il mio cuore tornava a battere sereno.
<<Bene.>> conclusi.
Perché lo avevo promesso.
Io lo avevo promesso a me stessa, lo avevo promesso a lui, quella mattina.
"Ci proverò" gli avevo risposto.
"Io, per te, con te, ci proverò sempre." erano state le mie parole.
Parole che erano state mantenute, che erano mantenute anche adesso, che servivano a tirarci via dai dubbi che a volte si insinuavano nei nostri cuori giovani, perché sì– sì, ci stavamo provando entrambi, a coltivare quell'amore selvatico, che cresceva troppo in fretta tra rovi di spine e petali di rose.
Nonostante ci pungessimo alle volte, era questa la sfida: restare dove si ha paura, dove si pensa che scappare costi meno.
Restare, sempre. Provarci, sempre.
E sorrisi nella consapevolezza intrinseca di amare, di essere innamorata e questa volta no, non solo dell'idea dell'amore.
<<A che stai pensando?>> fu lo sguardo curioso che mi rivolse, un sorriso confuso sulle labbra.
<<Che ti amo.>> risposi senza pensarci un attimo, nella sconsideratezza del cuore.
E mi aspettavo una risposta, forse un bacio, eppure nessuna delle due cose arrivò; Finn si limitò a osservarmi per lunghi istanti, dritto di fronte a me, un'espressione seria sul viso.
<<La sai una cosa?>> mi chiese poi, di punto in bianco.
Mi strinsi nelle spalle, i miei occhi spaesati, indecisi e persi su di lui.
<<Sei la mia terra ferma.>>
Furono parole che buttò fuori così, nella semplicità disarmante di uno sguardo serio, indecifrabile.
Strinsi le palpebre, cercando afferrare quel qualcosa che di sicuro mi era sfuggito.
Che cosa voleva dire?
<<Terra ferma?>> gli feci eco, confusa.
<<Sì.>> rispose lui, semplicemente.
Poi lo scorsi.
Lo vidi, l'abbozzo di un sorriso farsi strada tra le sue labbra, tirate senza scoprire i denti.
<<Sei la mia terra ferma, in tutto questo mare.>>
Fu così che mi abbracciò, con quelle parole ancora ferme a danzare sopra le nostre teste, Finn aprì le sue braccia intorno a me, circondandomi in una stretta dolce.
Sentii una lacrima scivolarmi sulle guance, mentre piano ricambiavo quell'abbraccio, stringendo forte a me quel ragazzo che mi aveva appena fatto dono delle parole più dolci mai sentite.
E non furono le parole a farmi piangere di lacrime che lui avrebbe scorto solo quando si sarebbe staccato da me, non furono le parole a farmi piangere, no.
Fu quella consapevolezza stringente che sentii attanagliarmi il petto, ancora e ancora, consapevolezza che già un anno prima avevo fatto mia.
Consapevolezza che mi gridava forte nel petto, lacerandomi la carne: "È vero", mi diceva.
"È giusto così. Sembra sbagliato, forse farà male, ma cosa non lo fa? Quale amore vero non fa male? È vero. Fidati di te."
E così fu in quell'attimo che completamente, totalmente, in ogni cellula, mi sentii... a casa.
Mi sentii terra ferma tra le sue braccia.
Spazio autrice
Non voglio dire nulla, parlerò ai ringraziamenti a fine capitolo, adesso non avrebbe molto senso, solo... una cosa.
La storia dovrebbe finire così.
Eppure ho deciso di farvi un piccolo regalo...
Ho scritto un epilogo di questa storia... inizialmente pensavo sarebbe stato poco coerente, non avendo un prologo, eppure ho recentemente scoperto che gli autori tendono a scrivere o uno o l'altro, raramente si includono ambedue, quindi ho pensato... beh, perché no? 😌
Ve lo rilascerò tra qualche giorno... spero vi piacerà ♥️
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