36. Carta straccia e inchiostro rosso
Inspirando a pieni polmoni l'aria ricolma di smog il killer fece un primo passo lungo il marciapiede, guardandosi intorno con lo sguardo spaesato di chi non sa dove si trova. Non aveva idea di che ore fossero, di quanto tempo fosse rimasto imprigionato nella sua stessa mente in compagnia delle tremende immagini che essa aveva costruito, ma si accorse che era giorno perché Netville era illuminata dalla luce del sole, sebbene una grossa coltre di nubi facesse da filtro.
Si incamminò a passo svelto come se sapesse con esattezza dove intendeva andare, ma la verità era che voleva semplicemente allontanarsi da tutto l'orrore che aveva appena vissuto e se possibile trovare un modo per schiarirsi le idee. Ma ogni singola cosa che lo circondava sembrava essere cambiata pur restando la stessa: aveva la netta impressione di non conoscere più la via che stava percorrendo, quella che aveva frequentato assiduamente per lunghi mesi dopo aver trovato rifugio in quella città dimenticata da Dio.
L'aspetto dei palazzi, delle insegne sverniciate, dei cartelli stradali sembrava essere totalmente cambiato pur avendo mantenuto lo stesso aspetto di sempre.
Trattenendo il fiato Jeff chiuse attentamente la zip della giacca che aveva indossato e cambiò direzione, questa volta con una meta ben precisa. Dopo quei lunghi giorni di follia in cui aveva visto ogni sua sicurezza infrangersi al suolo e dividersi in mille pezzi era sicuro che niente sarebbe mai stato più come prima; la sua stabilità mentale era giunta a un punto di non ritorno, allo stesso modo in cui aveva del tutto perso il controllo sulla sua dipendenza dalle sostanze stupefacenti che, di certo, non aveva migliorato la sua condizione.
In cuor suo si domandava se ci fosse qualcosa che avrebbe potuto fare per riparare a un danno di quel calibro, ma era sicuro che gli importasse davvero.
Ripensò al volto stanco di sua madre mente spingeva la porta di un piccolo negozio di oggettistica in centro, al modo in cui il suo alcolismo le aveva invecchiato la pelle e spento lo sguardo. Fece un passo all'interno, trovando dinnanzi a sé un piccolo bancone ricolmo di annunci attaccati con qualche striscia di scotch e dietro di esso un uomo che lo osservava stranito.
Il moro si appoggiò con i gomiti al banco, guardandosi intorno senza dire una parola. Attorno a lui oggetti di ogni tipo tra scatole decorate, album per le fotografie, scaffali pieni di soprammobili e fiori finti, ma nessuna delle cose su cui posò lo sguardo attirò minimamente la sua attenzione.
-Ciao, di cosa hai bisogno?- disse il proprietario del negozio, che osservava curioso la cicatrice che il cliente portava sul volto ma senza permettersi di fare alcuna domanda a riguardo. Ma era quasi certo che lo avesse riconosciuto, considerato che la sua pessima reputazione aveva il vizio di precederlo. -Cerchi qualcosa in particolare?-.
Il killer ricambiò lo sguardo, affondando entrambe le mani in tasca e stringendo le spalle -Una penna- mugolò. -E qualcosa su cui scrivere-.
L'uomo annuì brevemente. -Tutto qui? Ho delle agende se vuoi, siccome siamo a più di metà dell'anno sono in sconto-.
E l'altro sospirò. -Quello che ti pare, non importa-. Estrasse dalla tasca una banconota e la poggiò sgraziatamente sul tavolo, aggiungendo: -Tieni il resto-.
Poco dopo uscì dal negozio con lo stesso silenzio sordo con cui era entrato e proseguì il suo cammino, proiettando nella sua mente il tragitto più breve che lo avrebbe condotto rapidamente alla sua meta.
Per lui erano finiti i tempi in cui soffocava i suoi dolori nella droga e nella violenza.
Nei pressi del centro di Netville vi era quello che gli abitanti definivano come il quartiere più degradato di tutti, il cuore pulsante di quella città disperata; e proprio qui sorgeva uno dei palazzi più alto in assoluto, che contava ben ventidue piani innalzati abusivamente dai cittadini anno dopo anno, mattone dopo mattone. La particolarità di quell'edificio era che disponeva di una grossa scala esterna in ferro che ne percorreva interamente l'altezza, permettendo a chiunque di scalarla e raggiungere il tetto. Molti giovani lo facevano abitualmente la sera, per ritrovarsi a fumare e bere qualche birra godendosi un panorama a dir poco mozzafiato.
Una sorta di grottesca attrazione turistica per gli amanti dell'orrido.
Stringendo nella mano sinistra la penna e il taccuino Jeff iniziò così a salire i vecchi gradini, ormai corrosi dalla ruggine; salì fino in cima, senza mai fermarsi neanche per il tempo necessario a riprendere una boccata d'aria.
Giunto sul tetto il vento gli scompigliò i capelli; lassù le correnti d'aria erano tipicamente molto più forti ed insistenti. Si ritrovò solo su quel tetto, in compagnia soltanto della sua nostalgia.
Si mise a sedere sul bordo.
Lasciò pezolare le gambe giù dal parapetto, sospese su oltre cinquanta metri di vuoto. Aveva sempre amato ogni sorta di brivido: quello dell'altezza, quello del potere, quello del controllo. E anche quello della morte.
A quel punto poggiò il taccuino sulle sue gambe e sorrise, curvando leggermente le labbra all'insù e con esse la grottesca cicatrice che solcava entrambe le sue guance pallide. Da quel tetto altissimo la visuale sui palazzoni della città diventata qualcosa di molto più poetico: poteva vedere le persone muoversi lungo i marciapiedi come gruppi di piccolissime formiche e i colori delle insegne appese sulle facciate diventare schizzi di acquerello su una vecchia tela sbiadita.
Sospirò.
Non desiderava lasciare il segno, se così non fosse stato avrebbe deciso di raccontare la sua storia in modo decisamente più plateale e si sarebbe assicurato che ci fosse stato qualcuno lì ad ascoltarla. No, ciò che desiderava dire, o meglio scrivere, era un poema rivolto solo a sé stesso.
Così, con un'amarezza che non riusciva più a scacciare via, impugnò la penna rossa che aveva appena acquistato e aprì strappò via una pagina bianca con poco riguardo. La ripose poi sul dorso del taccuino e iniziò a scrivere con la mano che tremava.
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