RF: "Sopravvivenza"

DETTAGLI DELL'ELABORATO  

Concorso: Reclutamento Fantasy (RF).

Titolo dell'elaborato: "Sopravvivenza".

Prova I: scrivere un testo di lunghezza compresa tra le 1000 e le 4000 parole, traccia esclusa.

Conteggio parole: 3206 totali, 2747 escludendo le 459 parole della traccia.

Traccia I: da integrare nel testo, con modifiche parziali atte ad adattarlo allo stile e alla trama. Per semplificarne l'individuazione le parole relative alla traccia saranno evidenziate in grassetto-corsivo.


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     Adrian Johnson. Quarantasette anni. Un capace istruttore della SEA (Space Exploration Accademy). Era famoso per due fatti: il particolare senso dell'umorismo e il corso di Sopravvivenza. La sua materia era tra le più temute e odiate. Nessuno poteva sperare di venire assegnato a una esploratrice astrale senza aver passato il suo esame. Giravano voci secondo le quali in molti avessero rischiato la vita, durante il test. I cadetti dell'ultimo anno tremavano al solo pensarci. Sorridevano, invece, quando parlavano di Johnson come persona.

     Era un uomo semplice. Nonostante la mezza età e le brutte esperienze, non si perdeva mai d'animo. Gli studenti lo amavano per i suoi toni scherzosi e informali. Si comportava come se fosse uno di loro. Non chiedeva rispetto. Non pretendeva d'insegnare qualcosa. Si poneva all'altezza degli altri, non un centimetro in più né in meno. Quando interrogava gli allievi, li coinvolgeva in veri e propri dibattiti, che potevano durare anche diverse ore.

     Quel giorno, però, le cose erano diverse. Si trattava delle ultime due ore di lezione. Il corso stava per finire. Johnson osservò i cadetti, mentre si accomodavano sulle sedie. L'aula non aveva nulla da invidiare a una sala conferenze: era spaziosa, semicircolare e possedeva una buona acustica. Poteva ospitare almeno mille studenti alla volta. L'istruttore camminò tra le file, con le mani giunte dietro la schiena. Scrutò attentamente i visi dei suoi allievi. Aveva un rapporto speciale con ognuno di loro.

     I cadetti sedevano compostamente. Tenevano la schiena dritta, in un atteggiamento contegnoso. Alcuni lo fissavano con rispetto, altri gli sorridevano. In entrambi i casi, nei loro sguardi poté leggere la tensione e il timore, ma anche la sicurezza di riuscire a passare l'esame.

     Johnson completò il suo giro. Erano tutti presenti. Scese tranquillamente le scale, fino alla poltroncina del docente. Ci si sedette sopra, con una smorfia. In novantatré anni, i dirigenti della SEA non avevano mai sostituito le sedie. Erano rigide e scomode. Una vera tortura, sia per gli istruttori che per i cadetti. Lui ormai si era abituato. Anche gli studenti, dopo i primi tempi, avevano smesso di lamentarsi. Ogni tanto, però, qualche dolorino ancora lo infastidiva.

     Si rigirò sulla poltroncina. Posò un gomito sul bracciolo sinistro. Si punzecchiò il mento con le dita. Poi cambiò posizione. Niente: era impossibile stare comodi. Lanciò uno sguardo generale ai suoi studenti. L'aula era gremita, ma non si sentiva un suono. I giovani erano col fiato sospeso. Attendevano una sua parola. Una qualsiasi.

     «Eh... ci siamo tutti fatti il culo, su queste sedie, vero ragazzi?» sdrammatizzò.

     Un timido coro di risate vibrò nell'aria. L'atmosfera di tensione di poco prima si distese. Alcuni cadetti si scambiarono delle pacche affettuose, dei sorrisi o degli sguardi d'intesa. Alla fine, sembrava un giorno come gli altri. Parevano le solite due ore del corso di Sopravvivenza del professor Johnson.

     «Oggi parleremo un po' dell'esame finale. Naturalmente, l'intero corso vi ha preparati a questo momento, ma vorrei aprire un nuovo dibattito. Vi ho insegnato tutto quello che conosco: ora dovrete metterlo in pratica e...»

     Prima che finisse di parlare, qualcuno, in fondo alla sala, alzò la mano. Johnson aguzzò la vista. Sorrise bonariamente e con un cenno della mano cedette la parola.

     «Sì, Ross?»

     Lo studente scambiò uno sguardo con i suoi vicini e annuì: «Io e i miei amici ci stavamo chiedendo se potreste fornirci maggiori informazioni riguardo al test, professore. Per ora sappiamo unicamente che si tratterà di una prova di sopravvivenza e che si svolgerà individualmente.»

     Johnson annuì distrattamente: «Esatto, Ross. Sarete da soli: non potrete contare sull'aiuto o sui suggerimenti dei vostri compagni. La prova sarà diversa per ognuno di voi: gli esaminatori selezioneranno la più adatta in base alle vostre capacità e all'analisi psicologica alla quale sarete sottoposti. Posso solo garantirvi che metterà a dura prova il vostro sangue freddo. I commissari sanno essere incredibilmente sadici... e non lo dico perché devo dei soldi a molti di loro.»

     Alcuni cadetti ridacchiarono. Altre due mani si levarono verso l'alto. Seguendo il criterio della precedenza, Johnson cedette la parola a una giovane studentessa. Conosceva i nomi e le facce di tutti i suoi allievi. La ragazza in questione era una delle più promettenti del suo corso. Si chiamava Helena. Helena Williams. Aveva stoffa da vendere. Se avesse dovuto paragonarla a un animale, Johnson avrebbe scelto la pantera.

     «Grazie per avermi concesso la parola, professore» recitò Williams. «Da ciò che avete detto, deduco che il test cercherà di metterci in difficoltà il più possibile. Saremo soli e, molto probabilmente, dovremo affrontare pericoli più grandi di noi. Vorrei sapere se ci sarà concessa un'arma, nel caso dovessimo difenderci.»

     Johnson sorrise: «Mi dispiace, Williams» le si rivolse bonariamente. «Le probabilità di dover fronteggiare una situazione critica disarmati sono abbastanza scarse, nella vita reale. Tuttavia, l'esame punta a testare le vostre capacità di sopravvivenza nelle peggiori condizioni possibili. Dunque no, non vi verranno fornite armi, ma potrete fabbricarle sul posto, quando sarà iniziata la prova.»

     La ragazza annuì: «Grazie per la risposta, professore» concluse.

     «Non c'è di che» rispose Johnson. «Prego, Clark» aggiunse, rivolto all'altro cadetto che aveva alzato la mano.

     Era un giovane minuto, il più timido del gruppo. Era rimasto stupito, quando lo aveva visto prendere l'iniziativa. Non era da lui. Forse aveva pensato che l'argomento fosse troppo importante per lasciarsi vincere dall'imbarazzo.

     «Ecco...» il giovane esitò. «Insomma... ho letto, sul vostro curriculum, che avete frequentato anche voi la SEA, da giovane» cominciò. «Così mi chiedevo... mi domandavo se anche voi abbiate dovuto affrontare questa prova... professore.»

     Johnson fu preso in contropiede. Ricordi del passato lo assalirono. La sua espressione s'incupì. Ricominciò a punzecchiarsi il mento. Si passò l'indice sul labbro inferiore. Il silenzio calò nuovamente nell'aula. I cadetti attendevano una risposta. Clark si guardò attorno, a disagio. Abbassò lo sguardo, sempre più in imbarazzo. Il professore lo osservò attentamente. Si leccò le labbra e riacquistò il suo sorriso bonario. A fatica.

     «Sì, Clark» rispose infine. «Anche io ho dovuto superare questo esame. All'epoca, però, non c'erano i dispositivi e le precauzioni che ci sono oggi. Ho seriamente rischiato di morire.»

     «Ci racconti la vostra storia, professore!» intervenne un cadetto, dimenticandosi di alzare la mano.

     Johnson scrutò attentamente i volti dei suoi studenti: erano tutti curiosissimi. Si aspettavano che acconsentisse. Beh... non poteva di certo deluderli, no? Si alzò lentamente dalla sedia. Congiunse le mani dietro la schiena e salì alcuni gradini. Percorse la prima fila. I cadetti lo seguirono con lo sguardo. Il silenzio nella stanza era interrotto solo dal suono dei suoi passi. Con l'incredibile acustica della l'aula, sembravano rimbombare come i colpi di un martello.

     «Molto bene: ve lo dirò. Però dopo dovrete offrirmi una sbronza come gli Dei comandano» scherzò, ottenendo delle timide risate.

     Così Adrian Johnson iniziò a raccontare: «Me lo ricordo come se fosse ieri. Avevo solo ventisei anni, all'epoca. Il mio professore di Sopravvivenza era un vecchio comandante in pensione. Ne aveva viste, di cose, lui. Non penso di aver mai colto un suo sorriso. Se c'era qualcosa in cui il buon vecchio Mitchell credeva, era l'apprendimento sul campo. Non per nulla il suo corso era il più difficile di tutti. Noi cadetti ce la facevamo sotto dalla paura, al pensiero dell'esame.»

     Ridacchiò. Le cose non erano cambiate molto: anche i suoi allievi temevano la prova finale.

     «A quei tempi, il test era a sorpresa. Non ti davano neanche il tempo di prepararti al peggio. Il giorno prima della prova, fui convocato dal professore. Mi sottopose all'analisi psicologica e alla valutazione delle prestazioni fisiche, poi mi chiese di attendere in una piccola stanza. Sapete, ho sempre sofferto di claustrofobia.

     Prima che me ne accorgessi, mi addormentai sulla sedia della camera. Solo dopo seppi che ero stato narcotizzato per via aerea. Un metodo un po' subdolo, ma Mitchell ci teneva a disorientare i cadetti. Perché è così che ci si sente, quando si è gli unici sopravvissuti di un incidente spaziale.

     Mi svegliai molte ore dopo. Percepivo un dolce formicolio in tutto il corpo. Le gambe, i piedi, le braccia. La mia pelle ne era percorsa. Iniziai a sentire caldo. I raggi del Sole bruciavano sui vestiti. Un suono familiare mi trasmetteva una sensazione di quiete. Era il fruscio delle onde del mare. La mia coscienza non era ancora vigile: pensai di essere su una meravigliosa isola dei Caraibi.

     D'un tratto, il verso dei gabbiani mi fece sussultare. Sobbalzai e aprii gli occhi. Non ero più in quella stanza. Davanti ai miei occhi si stagliava il cielo. Era limpido e i suoi colori sfavillanti mi infastidivano. Ero ancora stordito e assonnato.

     Allora distolsi lo sguardo ed ebbi un tuffo al cuore. Ero circondato dalla sabbia bianca e dall'oceano. Le sue acque erano turchesi. La spiaggia era così piccola che potevo vedere ogni anfratto, senza neanche muovermi. Mi guardai attorno. Ero frastornato. Mi alzai e girai su me stesso. Attorno a me c'erano alte palme e arbusti dai fiori violacei.

     Ero spaventato, stordito e disorientato. Sentii un fruscio. Sobbalzai e mi voltai. Ero pronto a difendermi, quando capii di che si trattava. Erano solo uccelli, nascosti nei cespugli. Cantavano a intermittenza, seguendo il ritmo delle onde del mare.»

     Qualcuno alzò la mano. Johnson s'interruppe, rendendosi conto di essere stato un po' troppo logorroico e di non aver lasciato spazio al dibattito. Il cadetto Dike era un giovane curioso. Si interessava molto di antropologia e psicologia. Il professore immaginò che quella storia dovesse interessargli più per le reazioni del soggetto piuttosto che per avere un'idea di come si svolgesse la prova. Quando gli cedette la parola, la sua domanda confermò l'impressione di Johnson.

     «Professore, non si è infuriato con l'ex comandante Mitchell, quando ha scoperto di essere stato ingannato?»

     Johnson scoppiò in una fragorosa risata: «Oh, no, Dike. Non ero abbastanza lucido per capire cos'era accaduto. Non avevo la più pallida idea che la prova fosse iniziata, né che mi trovassi a chilometri di distanza dalla Virginia. Come ho detto, Mitchell ci teneva a disorientare gli studenti. Inoltre c'era qualcosa, sull'isola, che mi impediva di concentrarmi. Dovevo sforzarmi molto per riuscire a ragionare lucidamente. Certo, col senno di poi mi sarebbe piaciuto strangolarlo. Però non l'ho fatto. Mi sono accontentato del mio "Idoneo con Lode accademica".»

     Alle sue ultime parole, un brusio percorse la sala. Johnson sogghignò. Non era da lui vantarsi dei suoi meriti accademici. Stava sfruttando l'occasione per trasmettere un messaggio importante ai suoi allievi. Ossia che era possibile passare quella prova e uscirne vincitori. Anche se era molto difficile.

     La conversazione proseguì: «Per quanto siete rimasto sull'isola, professore?» chiese un cadetto.

     «Più di tre settimane» rispose Johnson. «Furono i giorni peggiori della mia giovinezza.»

     La sua aula perse compostezza per alcuni secondi. Gli studenti si lasciarono andare all'interesse e si dimenticarono di alzare le mani. Le loro domande si accavallarono indistintamente. Johnson, nell'improvvisa confusione, riuscì a distinguerne solo alcune.

     «Cosa accadde su quell'isola, professore?»

     «Quali pericoli avete dovuto affrontare, professore?»

     «Avete avuto paura, professore?»

     Johnson batté le mani. Tre volte. I rimbombi echeggiarono nella sala. Calò il silenzio. Era raro che dovesse richiamare all'ordine i suoi alunni. Però poteva capirli. L'idea che lo stesso istruttore avesse trovato tremendi i giorni dell'esame doveva averli intimoriti. Il desiderio di saperne di più, per poter essere preparati al peggio, li aveva colti di sorpresa.

     «Ragazzi, non fiondatevi insieme: ce n'è per tutti» scherzò maliziosamente. «Per rispondere alle vostre domande, lasciate che concluda il mio racconto. Dov'ero rimasto?»

     «Ci stava parlando delle sue impressioni quando si svegliò, professore» riassunse un cadetto.

     «Giusto. Grazie, Houston. Noto con piacere che sei attento e partecipativo come sempre. Dunque... mi ero appena svegliato sull'isola. Ancora non riuscivo a capire cosa mi fosse accaduto. Sentivo che le mie emozioni e sensazioni erano amplificate. Non riuscivo a concentrarmi e a ragionare lucidamente. All'improvviso udii qualcosa. Un leggero vociare. Era inquietante. Una melodia, una voce indistinta, tenue e misteriosa. Non era chiaro da che direzione provenisse: mi sembrava che fosse ovunque, dentro e attorno a me.

     Mi guardai di nuovo attorno. Ero confuso. Barcollavo spesso: in qualche modo, il mio senso dell'equilibro era stato compromesso. Mi sentivo come se mi avessero drogato. Volevo capire da dove provenisse quel suono, ma non c'era nulla attorno a me. Allora alzai lo sguardo verso il cielo. E lo vidi.

     Era un bagliore metallico, alto all'orizzonte. Portava con sé un rombo, lontano e attutito. I gabbiani emisero un verso inquietante. Un attimo dopo, si alzarono in volo, abbandonando l'isola immediatamente, come se temessero qualcosa. All'improvviso fui davvero solo. Spaventato, inerme e incapace di ragionare. Anche solo mettere a fuoco il bagliore mi richiedeva un grande sforzo. Quando ci riuscii, ebbi un tuffo al cuore. L'oggetto sfrecciò in picchiata tra le nuvole. Si dirigeva verso di me. Più si avvicinava, più il suo rombo diventava assordante. Rimasi senza fiato: sapevo che stava per schiantarsi.

     Finalmente, aguzzando la vista, riuscii a capire cosa fosse. Rimasi pietrificato per alcuni secondi. Sentii l'incertezza e il terrore paralizzarmi. Era un aereo. Un aereo! Lo avreste mai immaginato? Roba da far accapponare la pelle. Avrebbe dovuto essere un pezzo da museo. Invece volava! E stava per sfracellarsi sull'isola. Esattamente dove mi trovavo io!»

      Gli allievi si agitarono. Lo stupore sui loro visi era evidente. Gli aerei di linea erano stati smantellati dopo l'uscita in commercio delle aeromobili. Erano pericolosi per il traffico aereo cittadino e anche per gli spostamenti a lunga distanza. Solo alcuni esemplari erano stati risparmiati ed erano tornati alla vita grazie ai musei storici. Com'era possibile che Johnson ne avesse visto uno funzionante poco più di vent'anni prima?

     «Siete sicuro che non si trattasse di un nuovo modello di aeromobile, professore?» suggerì qualcuno.

     «Vi capisco» asserì l'istruttore. «Neanche io ci avrei creduto. Però vi posso assicurare che era un aereo. Scendeva di quota a una velocità inaudita. Sembrava proprio che mirasse a me e all'isola. Sarei sicuramente rimasto coinvolto nell'esplosione, se fossi rimasto dov'ero. Allora mi girai e iniziai a correre. Il più veloce possibile, sulla sabbia rovente. La mia unica salvezza era il mare.

     Il rombo del motore divenne insopportabile. Era così nitido che il terrore mi paralizzò. Avevo paura di finire tra quelle gigantesche pale. Non riuscii più a correre: inciampai e caddi. Ero sulla riva. A pochi metri dalla salvezza. Poi accadde qualcosa. Prima che potessi girarmi e guardare in faccia la morte.

     Calò il silenzio. Credetti che il suono dell'esplosione mi avesse assordato. Che avrei sentito di nuovo entro poco tempo. Però qualcosa non quadrava. Non avevo percepito lo schianto. Il calore sulla mia pelle era quello del Sole, non del fuoco di un incendio. Allora li udii. I gabbiani erano tornati. Alzai lo sguardo e li vidi. Si libravano sull'isola. Il rombo del motore era scomparso.

     Mi girai di scatto. Volevo capire cosa fosse accaduto. L'aereo era svanito nel nulla. Non c'erano segni dello schianto. Non una carcassa, delle macerie, delle fiamme danzanti. Niente: eravamo solo io, i gabbiani e la spiaggia. Era come se l'aereo non fosse mai esistito.»

     Un nuovo brusio percorse la sala. Alcuni cadetti sembravano aver già compreso i risvolti della storia. Johnson sorrise, orgoglioso dei suoi studenti. Erano molto bravi a mettere insieme le tessere del puzzle. Certo, loro avevano ancora la lucidità mentale per arrivare a delle conclusioni. Lui, quando aveva affrontato la prova, non era stato così fortunato.

     «Qualcosa, però, era cambiato» continuò. «Era rimasta una traccia del suo passaggio. Un sacco di juta pieno di oggetti e alimenti di prima necessità. Col senno di poi, mi sono dato dello stupido. Avevo davvero creduto che fosse stato l'aereo a lasciarlo lì. In realtà si trattava solo del cibo e degli utensili dati in dotazione per affrontare la prova. Ero troppo stordito per rendermene conto.

     Non capivo dove mi trovavo e perché. Cosa ci facevo su quell'isola? La mia mente era impegnata a cercare risposte. Ma non ci riusciva. Perché non era lucida. Qualcosa inibiva la mia capacità di ragionare. Mi impediva d'intuire che l'aereo era solo un'allucinazione. Che il sacco di juta mi era stato assegnato dagli esaminatori. Che il mio compito era sopravvivere a quell'inferno.»

     Qualcuno alzò la mano: «Ci sta dicendo che è stato drogato, professore?» chiese un cadetto, scandalizzato.

     Johnson scoppiò a ridere: «No, Grey. Erano i fiori. I fiori! Specie Erythroxylum Hallucinantur. Una cultivar prodotta in laboratorio, con lo scopo di alleviare le sofferenze dei pazienti con malattie terminali. Alcuni esemplari furono consegnati alla SEA per gli ospedali astrali e per la sperimentazione. Perché credete che vi abbia assillato con noiose nozioni di botanica? Non solo per aiutarvi a trovare le piante commestibili, ma anche quelle pericolose.»

     «E come siete riuscito a capire che si trattava di illusioni?» insistette Grey.

     «Non è stato semplice. Ho trascorso giorni interi in preda alle allucinazioni causate dal polline delle Erythroxylum. La mia fortuna è stata quella di allontanarmi dalle piante. Quando i viveri nel sacco di juta sono finiti, infatti, ho dovuto iniziare a procacciarmi il cibo. Nel momento in cui ho smesso di respirare il polline delle Erythroxylum, ho ricominciato a ragionare. Così ho capito in che situazione mi trovavo e cosa dovevo fare per uscirne. Ho improvvisato una maschera antigas, con un panno imbevuto di...»

     Stava per spiegare come era riuscito a scampare all'inferno dell'isola, quando una voce metallica risuonò nell'aula. Dai microfoni dell'accademia, qualcuno annunciò che l'ultima ora dell'ultimo anno era appena terminata. Alcuni cadetti si lamentarono per quella interruzione. Johnson sorrise dolcemente. Chissà, magari tra loro ci sarebbe stato qualcuno d'importante. Quell'anno ci sarebbero state anche le assegnazioni all'ammiraglia astrale.

     «Beh... a quanto pare il nostro tempo è scaduto» disse sfregandosi le mani. «Mi dovete una sbronza.»

     I cadetti risero in coro e iniziarono ad alzarsi dalle sedie. Gli sarebbero mancati. Li salutò uno ad uno, premurandosi di ricordare loro i passi fondamentali per la Sopravvivenza. Le strette di mano furono tante. Alcuni intrepidi osarono addirittura abbracciarlo. Johnson ne fu lieto. Quando fu il turno di Helena Williams, la ragazza lo strinse forte. Poi gli rivolse una domanda.

     «Sa, professore: mi chiedo come mai le abbiano assegnato una prova del genere.»

     Johnson ridacchiò: «Gli esaminatori sono abili strateghi» le disse accompagnandola fuori dalla porta. «Sfruttano le debolezze dell'allievo. Testano la sua capacità nel superarle.»

     La ragazza lo fissò: «È questo che non capisco. Non sembra abbiano sfruttato le vostre debolezze.»

     L'istruttore le sorrise: «Non è così, Williams. Ho sempre avuto paura di perdere il controllo della situazione. Gli esaminatori lo sapevano. Per questo hanno fatto in modo che non potessi ragionare. Mi hanno privato delle mie armi. Ciò mi ha reso vulnerabile.»

     «E questo può essere considerato un pericolo reale?» replicò lei.

     Johnson non le rispose. Williams era intelligente. Sapeva come porre le domande giuste, nel momento più adatto. Lui però non si lasciava manovrare facilmente. Non da una ventiseienne alle prime armi. Sapeva dove voleva arrivare: cercava di capire in base a cosa gli esaminatori scegliessero la prova. Così avrebbe potuto modificare le rispose dell'analisi psicologica in modo da pilotare la scelta del test. Era davvero una piccola pantera. Continuò a sorriderle finché non arrivarono all'atrio. Allora la salutò gentilmente.

     La osservò uscire dalla porta.

     La sua domanda gli tornò in mente.

     Johnson sospirò.

    «A volte il pericolo più grande siamo noi stessi.»


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Il testo ha ottenuto punteggio pieno nella valutazione della prima prova del concorso Reclutamento Fantasy, totalizzando 8 punti su 8. Di seguito lo screenshot della valutazione.

Screenshot della valutazione:

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