JWI EL: Strays, capitolo uno
... riprende dal precedente capitolo.
> Solar System _ 'Mars' planet | time: 12.01.3372 p.U. _ 17.21.46 h.m.s. ... _
«La Terra era unica» asserì Ethan. «Non potevamo aspettarci subito dei risultati.»
La sua voce, dalla ricetrasmittente auricolare, risultava distorta. Era intrisa di delusione. Alexis non rispose: non voleva deprimere il suo amico. Anche perché era divorato dall'amarezza.
Quattro mesi. Avevano perso quattro mesi di tempo per un nulla di fatto. La cosa gli bruciava più di quanto volesse ammettere. Non potevano permettersi un simile spreco.
Sapeva che era uno sbaglio rimanete tanto a lungo su Marte: perché aveva ubbidito agli ordini? Perché era un bravo burattino, ecco perché, si disse. Il Presidente gli concedeva un biscottino e lui scodinzolava come un cane, pronto a compiacerlo in ogni modo. Però che altro poteva fare? Le sue parole erano state chiare: se avesse protestato, la sua famiglia ne avrebbe pagato le conseguenze.
Quale famiglia, si chiese. Ormai ho solo Sandra, si disse. Sentì la gola chiudersi e il mento tremare. Non doveva piangere. Lui era il Sindaco della città astrale Quasar, non poteva permettersi di piangere. Oh, ma chi voleva prendere in giro? Prima di qualsiasi carica, era un essere umano, maledizione. Solo uno sciocco essere umano. Uno degli ultimi.
Spostò lo sguardo verso l'alto. Il cielo di Marte era diverso da quello della Terra. Non era rosso, come si poteva immaginare, ma neanche di un bell'azzurro intenso. Era spento, tendente a un grigio monotono. Si sposava alla perfezione con la sconfinata distesa di terra. Un suolo arido, secco e di un orrendo color ocra. Non si vedeva un angolo in cui il panorama cambiasse aspetto.
All'inizio, Ethan era stato entusiasta, nel vedere quel rossiccio smorto. Alexis non era un biologo, ma, a quanto pareva, il ferro era un microelemento fondamentale per la vita vegetale. O, almeno, questo era ciò che gli aveva ripetuto il suo amico, durante la prima settimana. Con il trascorrere del tempo, però, i fallimenti lo avevano demoralizzato. Le temperature di Marte erano troppo basse, l'atmosfera incredibilmente povera, quasi inesistente, e la terra inospitale. Pensare di riprodurre un ambiente terrestre in simili condizioni era da folli.
L'uso di un'ecocupola avrebbe risolto i loro problemi solo temporaneamente. I primi coloni avrebbero potuto vivere all'interno del sistema artificiale, ma dopo? Quando la popolazione sarebbe aumentata, avrebbero avuto bisogno di molto più spazio. Sarebbero dovuti uscire dai limiti dell'ambiente costruito per loro. Colonizzare nuovi spazi. Terre che Marte non era in grado di offrire. Quel pianeta non poteva essere la loro nuova casa.
Alexis scrutò il cielo per minuti interminabili. Cercava il suo mondo, anche se sapeva che non l'avrebbe trovato. Gli esseri umani erano stati così sciocchi da forzare le leggi della natura e della scienza. Avevano avuto talmente tanta sete di conoscenza e, soprattutto, di energia, da non riuscire a vedere cosa rischiavano di perdere. Quando il buco nero, creato nei laboratori, si era sottratto al loro controllo, finalmente avevano capito di aver commesso l'errore più atroce della storia terrestre.
Ma era troppo tardi per porvi rimedio.
Il fenomeno aveva divorato il pianeta e quasi tutte le sue forme di vita. Solo pochi fortunati erano riusciti a sopravvivere e a scappare. Infine, il buco nero artificiale aveva esaurito la sua fonte di energia ed era svanito. Solo il pianeta degli umani era andato perduto. Il resto era rimasto intatto. Era sembrato un miracolo, quasi una punizione divina.
Alexis osservò il Sole e la Luna. Anche il tramonto di Marte sembrava smorto. Aveva combattuto per mesi contro la repulsione che quel mondo gli suscitava. Ora però lo attendeva la vastità dell'universo. Per qualche motivo, si sentiva sollevato. L'infinito vuoto spaziale non lo spaventava. Era sempre meglio del monotono grigiore di quel pianeta.
Il polsino interattivo della divisa spaziale emise un lieve trillo. Alexis abbassò lo sguardo e notò che la spia luminosa della temperatura esterna lampeggiava. A lato, lo schermo segnalava meno ottantadue gradi. Sarebbero stati protetti solo fino ai cento gradi sotto zero.
«Dobbiamo raggiungere la città prima che cali il Sole» disse all'amico. «Le temperature stanno raggiungendo i valori limite.»
Ethan annuì e trafficò con il proprio polsino: «Non dovrebbe mancare molto...» lo rassicurò, mostrandogli distrattamente lo schermo.
La mappa digitale indicava la loro posizione e quella della città. A separarli c'erano solo tre chilometri terrestri. Alexis accelerò il passo, superando l'amico. Anche la sua divisa era fornita di un navigatore interno, ma non riusciva a sopperire al suo pessimo senso dell'orientamento. Era il panorama sempre uguale di Marte a confonderlo.
Arrivarono in circa quindici minuti. Sulla Terra avrebbero impiegato almeno mezzora, ma lì la gravità era un terzo di quella terrestre. Valeva a dire che, pensando si meno, non avvertivano la stanchezza e potevano mantenere l'andatura più a lungo. Anche questo contribuiva al loro disagio. Era del tutto innaturale sentirsi così leggeri.
Quando la sagoma della città si stagliò all'orizzonte, Alexis sorrise. La gigantesca ecocupola sembrava poter raggiungere il cielo e abbracciare quelle terre desolate. Si agganciava a un'imponente struttura a strati, che ne costituiva le fondamenta e i sotterranei. Quasar era un grosso ibrido tra un centro urbano e un veicolo di esplorazione astrale.
Era costruita, esternamente, con materiali ceramici termoresistenti e, internamente, con molteplici leghe metalliche. Contava tre piani, l'uno, lo zero e il meno uno.
La vita cittadina e amministrativa si svolgeva prevalentemente nel primo livello, delimitato dall'ecocupola. La città era costruita attorno al Comune, una grande struttura paragonabile a un centro di comando e di controllo di tutte le funzioni della comunità. I palazzi che la circondavano si dividevano in due ampie aree: una con gli alloggi e l'altra con i servizi fondamentali.
Nel piano zero, lo strato superiore della struttura su cui poggiava l'ecocupola, era racchiuso il cuore pulsante di Quasar. Quasi l'intero livello era occupato dagli ambienti dell'ingegneria. Solo una piccola porzione, a prua, era dedicata alla sezione di navigazione, dove si gestivano i movimenti e la velocità durante i viaggi spaziali.
Proprio sotto il Comune, risiedeva il fulcro energetico gravitazionale, che forniva energia a tutta la città. Paradossalmente, sfruttava lo stesso tipo di tecnologia che aveva distrutto la Terra. Alexis sapeva di avere una bomba a orologeria a casa propria. L'idea non gli piaceva per niente, ma era l'unico modo per garantire sufficiente energia a tutte le sezioni della città.
L'ultimo livello, il meno uno, era dedicato alle provviste. I magazzini contenevano qualsiasi cosa si desiderasse, dal cibo ai materiali di riparazione, dai droni esplorativi alle tute spaziali. C'erano anche delle serre e delle stalle, dove lavorava Ethan.
Infine, sotto all'intera città, erano presenti i piloni di atterraggio e le porte d'accesso.
Armeggiando con il polsino, Alexis cambiò canale della ricetrasmittente auricolare. Esistevano complessivamente sedici canali istituzionali, di cui uno prioritario del Comune, più quelli privati. Sintonizzandosi sul canale comunale poteva comunicare con il centro di comando anche a notevoli distanze.
«Sindaco Ross a Comune, mi sentite?»
Una voce femminile rispose: «Qui Supervisore Bianchi. La sento forte e chiaro, Sindaco.»
Alexis dimenticò immediatamente il grigiore di Marte. Sorrise dolcemente, ascoltando il suono melodico che usciva dalla ricetrasmittente. Il marcato accento siciliano di sua moglie gli era sempre piaciuto. Per chi, come lui, era sempre vissuto in America, la particolare cadenza del dialetto italiano risultava esotica. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma la trovava molto sensuale. Sarebbe rimasto ore ad ascoltarla, anche sotto una tempesta solare.
Si schiarì la voce: «Aprite la porta d'ingresso numero due: stiamo rientrando.»
Trascorsero alcuni minuti di silenzio, poi la stessa voce confermò: «Porta numero due aperta. Bentornati a casa.»
«Grazie. È bello sentirselo dire» sussurrò Alexis.
Ethan gli diede una spinta amichevole sulla spalla. Lui barcollò lievemente di lato, poi tornò a camminare. Gli lanciò uno sguardo divertito. Con un cenno della testa, gli chiese silenziosamente perché lo avesse fatto. L'altro alzò gli occhi al cielo. Aveva ragione: non avrebbe dovuto essere così nostalgico, specialmente non quando usava il canale comunale. Ridacchiando, gli restituì la spinta.
Lui ed Ethan si conoscevano dai tempi del college. All'epoca nessuno avrebbe mai scommesso sulla loro accoppiata. Erano esattamente agli antipodi, sia per l'aspetto sia per il carattere.
Ethan era il tipico uomo afroamericano, dalla pelle scura, il vocione da duro e le spalle larghe. Alexis in confronto sembrava uno scricciolo, più basso di almeno cinque centimetri e molto meno imponente. Vantava però dei capelli di un bel rosso naturale e uno sguardo penetrante.
Il loro aspetto non tradiva minimamente il carattere. Per quanto Ethan potesse sembrare un duro, era in realtà un uomo molto dolce e timido, che raramente riusciva a imporre le proprie idee. Al contrario, Alexis era sempre stato un individuo dal carisma magnetico.
Nonostante le differenze, e anche se avevano preso strade diverse, non si erano mai separati. Erano entrambi degli scienziati, ma mentre Alexis si era occupato di ricerca scientifica nell'ambito energetico, Ethan aveva preferito gli studi di botanica e biologia.
Il Presidente non era stato felice, quando Alexis aveva preteso di avere l'amico con sé. Erano pochi gli umani sopravvissuti al disastro che ancora sapevano come coltivare un albero di mele. La conoscenza di Ethan era talmente preziosa, che in molti avevano protestato per il suo trasferimento su Quasar.
Per non scatenare la rivolta delle altre città, erano dovuti scendere a compromessi: ogni esploratrice astrale aveva inviato un gruppo di dieci apprendisti, che Ethan doveva istruire affinché un giorno insegnassero ai futuri coloni come autoprodurre il cibo. Il suo amico non era stato particolarmente entusiasta di quell'onere.
Giunsero vicino a un pilone d'atterraggio. Alexis sospirò e accarezzò la ceramica. La divisa non gli permetteva di percepirne il freddo, ma a lui bastava sentirne la solidità sotto le dita. Finalmente. Era lì che doveva essere. Quello era il suo posto.
Alzò lo sguardo e vide, sopra le loro teste, un oblò aperto. Non poteva essere più largo di cinque metri quadrati. Da questo pendevano due funi resistenti, terminanti in dei ganci. Ethan si avvicinò a uno di questi e lo allacciò all'apposita asola della divisa. Alexis lo imitò. Si accertarono entrambi che fossero ben assicurati alle funi.
«Sindaco Ross a Comune. Siamo agganciati: iniziamo la procedura di rientro» comunicò Alexis.
«Ricevuto. Ricordatevi di registrare la data e l'ora» rispose la voce di sua moglie.
«Quando avremo finito, potrai accoglierlo come si deve, Supervisore» commentò Ethan, ridacchiando.
Si udirono delle risate di sottofondo dalla ricetrasmittente auricolare. Alexis assestò una gomitata leggera al costato dell'amico. Continuando a ridacchiare, Ethan tastò la superficie vicino all'oblò, fino a trovare un pulsante nascosto. Si accese una spia luminosa rossa, poi una voce metallica annunciò l'inizio della procedura di rientro.
Quando la piccola luce divenne verde, le funi iniziarono a sollevarli, portandoli dentro l'oblò, che si chiuse alle loro spalle. Furono issati per una decina di metri, poi un braccio meccanico spostò le funi in una nicchia laterale, abbastanza grande da poter contenere cinque persone.
I due uomini attesero che un'altra spia luminosa, posta sul soffitto, diventasse verde. Allora posarono i piedi a terra e sganciarono le funi. Si avvicinarono alla porta che collegava la nicchia a un compartimento a tenuta stagna.
Alexis aprì la porta e disse a Ethan di andare per primo. La procedura imponeva che si entrasse uno per volta. Mentre attendeva, le preoccupazioni iniziarono ad affollargli la mente. Dove sarebbero andati adesso? Marte era l'ultimo pianeta del sistema solare che potesse avere le potenzialità per ospitare la vita. Era sempre stato scettico in merito, ma i risultati degli esperimenti erano un no troppo definitivo.
La spia luminosa della camera stagna lampeggiò di giallo. Quando Ethan uscì, Alexis dovette aspettare che il compartimento si depressurizzasse. Allora la luce divenne verde e lui poté entrare. La porta gli si chiuse alle spalle ermeticamente.
Udì la voce neutra del computer: «Inizio fase di decontaminazione. Prego, tenere braccia larghe e gambe divaricate. Ruotare di novanta gradi a destra ogni trenta secondi fino al termine della procedura.»
Alexis eseguì svogliatamente. Ogni volta, gli sembrava di essere un piccolo robot. Contava trenta secondi, insieme al computer, e poi strusciava i piedi, ruotando su se stesso. La prassi gli ricordava vagamente i pupazzetti dei carillon. La musica di sottofondo era il martellante ronzio dei sensori ad alta risoluzione, che scandagliavano la sua divisa alla ricerca del più microscopico batterio nocivo.
Naturalmente, anche gli elementi non presenti negli archivi erano ritenuti pericolosi. Tuttavia le probabilità d'incontrare un agente estraneo sconosciuto erano estremamente basse. Qualora fosse capitato, la divisa e il soggetto sarebbero stati posti in isolamento e l'elemento spedito nei laboratori di analisi.
Alexis girò su se stesso tre volte, prima che il computer lo fermasse: «Decontaminazione terminata. Inizio fase di pressurizzazione. Prego, attendere.»
L'uomo sospirò e si sedette sul pavimento della camera. In sottofondo, era trasmessa una sinfonia classica. Mozart, azzardò Alexis.
Nel frattempo, il computer trasmetteva dei messaggi di avvertimento, con intervalli regolari di trenta secondi: «Per la Vostra sicurezza, le porte d'ingresso e di uscita sono chiuse ermeticamente. Premere il pulsante di sblocco in caso di emergenza. Uscire dalla camera solo al termine della procedura.»
Alexis attese pazientemente che la pressione della camera si uniformasse a quella della città. Marte era un pianeta dall'atmosfera rarefatta, che esercitava una pressione molto inferiore rispetto allo standard terrestre. In più di venti minuti, il contatore del polsino della divisa passò dal segnare 0,009 atm a indicarne 0,996.
Gli si tapparono le orecchie e il corpo gli parve più pesante. Per compensare la differenza di pressione tra esterno e interno delle orecchie, chiuse la bocca e il naso e soffiò. Dovette ripetere l'operazione più volte, durante lo svolgimento della procedura di pressurizzazione.
Quando il contatore raggiunse il valore di 1,00 atm, Alexis si alzò in piedi. L'idea di avere addosso un'atmosfera simile a quella terrestre lo rassicurava. Gli trasmetteva la sensazione essere di nuovo a casa.
Nel momento in cui la spia luminosa della porta d'uscita divenne verde, l'uomo sospirò di sollievo e uscì dalla camera. Lì lo attendeva Ethan, che si era già disfatto della sua divisa e si stava dedicando a una meritata doccia sterilizzante. Sì: avevano finito la prima parte della procedura di rientro, ma ora dovevano proseguire con la seconda.
Anche se le mute erano state analizzate e non erano stati trovati agenti estranei, ciò non significava che qualche atomo marziano non si fosse infilato tra i tessuti e/o depositato sulla loro pelle. Per sicurezza, le tute e gli uomini dovevano essere sterilizzati.
Alexis si avvicinò alla doccia vicina a quella di Ethan. Trafficò con il polsino, selezionando alcuni comandi. La divisa spaziale si aprì con uno scatto netto, come l'esoscheletro di un gamberetto durante la muta. L'uomo sfilò per prime le braccia, poi la testa, il busto e infine le gambe. Ripose la divisa in un'apposita nicchia, dove sottili getti di liquido disinfettante iniziarono a ripulirla con precisione millimetrica. Infine posò la ricetrasmittente auricolare vicino a quella di Ethan, su una piccola mensola.
«La tua bella deve ritenersi molto fortunata, vedo» il commento dell'amico lo colse di sorpresa.
Alexis lo squadrò, ricordandosi della propria nudità: «Sai pensare solo a quello?» lo canzonò.
«No... non solo. Però è un argomento di cui posso vantarmi.»
Il Sindaco alzò gli occhi al cielo. Entrò nella doccia e il getto si accese automaticamente. Era freddo, ma non poteva essere riscaldato senza alterarne le qualità sterilizzanti. Alexis arricciò il naso: era difficile sopportare l'odore pungente del liquido. Cercando d'ignorarlo, afferrò la spugna abrasiva e cominciò a strofinare le braccia.
Anche se la divisa lo aveva protetto dall'esterno, aveva la sensazione di essere ricoperto di terra marziana. Era sicuro che quell'orribile fuliggine si fosse insinuata persino sotto la pelle. Non aveva idea di quale fosse l'origine della sua repulsione per Marte. Immaginava che lo odiasse perché gli ricordava i suoi errori. Perché, alla fine dei conti, non sarebbe mai potuto diventare la nuova Terra.
Ethan intanto aveva finito la doccia disinfettante e aveva iniziato quella con semplice acqua.
«Quanto tempo è che non lo fate?» insistette con l'argomento.
Alexis si sgranchì il collo: «Da quel giorno» rispose, senza mostrare alcuna emozione.
L'amico scosse la testa: «Quasi un anno!» esclamò. «E non hai provato a...?»
«Non fraintendere» sospirò il Sindaco. «La amo. Anche lei mi ama. Ma fa troppo male. Ogni volta che ci proviamo, i ricordi riaffiorano. Non ho mai visto Sandra in quello stato, Ethan. Probabilmente neanche lei mi ha mai visto così. Quando siamo insieme, leggo nei suoi occhi l'accusa. Mi ripete che non avevo scelta, che non mi ritiene responsabile, ma so che è una menzogna, così come lo sa anche lei.»
Mentre parlava, fissava la cicatrice. Era spessa, frastagliata, e percorreva il suo braccio sinistro, dal polso fino al gomito. Da quando se l'era procurata, la sua presa non era più tanto salda quanto un tempo. La sua mano tremava, se provava ad accarezzare sua moglie. Aveva impresso sulla pelle il marchio dei suoi sbagli. Eppure, quel segno era lì proprio perché Sandra era ancora viva.
Ethan lo studiò attentamente. La sua espressione era indecifrabile, ma Alexis poteva immaginare cosa stesse pensando. Gli sorrise bonariamente, ricominciando a strofinare la spugna sul corpo. Il suo amico decise di non insistere ulteriormente. Aveva toccato un tasto dolente e probabilmente se ne stava pentendo. Non era il genere di persona capace di reggere i discorsi pesanti troppo a lungo.
Il getto della doccia dell'amico perse lentamente l'intensità, fino a chiudersi del tutto. Ethan uscì dallo scomparto e afferrò il primo asciugamano che trovò. Si asciugò in fretta, poi si avvicinò allo stipo posto in vicinanza di una seconda porta, affacciata sul corridoio che conduceva alla città. Aprì il suo armadietto e recuperò gli abiti civili.
«Allora, domani alle serre, al solito orario?» cambiò argomento, vestendosi.
Alexis ridacchiò: «Certo. Come sempre» rispose, ancora sotto la doccia.
Ethan si dileguò dopo aver indossato la sua ricetrasmittente auricolare. Il Sindaco rimase da solo a terminare la procedura di rientro. Quando finì la doccia, aprì il proprio armadietto. Indossò la camicia e i pantaloni con serenità. Era come se la conversazione di poco prima non fosse mai avvenuta.
Raccolse i capelli, ancora umidi, in una coda, corta e bassa. Il nastro che usò era di seta, di un bel verde smeraldo. Scosse la testa e si diede una rassettata. Si ricordò di registrare la data e l'ora del rientro, come gli aveva raccomandato Sandra, e di indossare la ricetrasmittente. Percorse il corridoio per l'esterno. Quando ne raggiunse la fine, la luce abbagliante dei fari gli ferì gli occhi. Alzò lo sguardo. Il grigiore smorto di Marte era sparito. Al suo posto, c'era un cielo azzurro, limpido e terso. Era solo un'illusione ottica creata dal materiale che componeva l'ecocupola, ma ad Alexis sembrò di essere di nuovo a casa.
Osservò gli alti palazzi, come se li vedesse per la prima volta. Alcune capsule di trasporto gli sfrecciarono davanti. Quasar era in fermento, proprio come una vera metropoli, e lui... lui, l'uomo che era la causa di tutto, ne era il Sindaco. Non meritava quella seconda possibilità.
Si avvicinò a una delle capsule di trasporto in sosta davanti all'uscita del corridoio. Entrò in una di queste, accomodandosi sul morbido sedile, e la accese. Un'interfaccia interattiva comparve sul vetro, che componeva la semisfera superiore. Selezionò la destinazione, "Comune", e il tipo di percorso, "Diretto".
Due cinture di sicurezza meccaniche uscirono dalle apposite fessure e gli cinsero il busto, formando una croce sul petto. Il motore del veicolo si avviò con un lieve rombo, che poi si ridusse a delle fusa silenziose. La capsula si sollevò e iniziò la manovra di partenza.
Una voce metallica lo informò: «Avete selezionato la tratta "Diretta" per destinazione: "Comune". Tempo di arrivo stimato: sette minuti e trentotto secondi. Prego, non rimuovere le cinture di sicurezza. Per la Vostra incolumità, lo sportello della capsula si chiuderà ermeticamente per tutta la durata della tratta. Premere il pulsante di sblocco in caso di emergenza. Uscire dalla capsula solo al termine del viaggio.»
La capsula arrivò a destinazione nel tempo stimato, spaccando il secondo. Alexis scese e si diresse con sicurezza verso l'entrata del Comune. Non si soffermò ad ammirare gli archi rampanti e gli imponenti pilastri, che scaricavano sulle fondamenta il peso dell'intera ecocupola. Il palazzo comunale era disposto su tre piani distinti. Le sue pareti erano costituite da ampi archi, intervallati da vetrate interattive. Il piano terra era aperto ai cittadini, mentre i due superiori erano riservati ai dirigenti.
Entrando, Alexis percepì delle vibrazioni sotto i piedi. I suoi occhi scattarono sul pavimento. Erano miti, si notavano a stento. Le fusa del mostro, che dormiva nelle fondamenta della sua casa.
Erano i motori della nave, in modalità quiescente. Anche se la città era ferma, il fulcro gravitazionale doveva essere mantenuto sotto sorveglianza. Se la piccola singolarità fosse sfuggita al loro controllo, Quasar avrebbe fatto la stessa fine della Terra. Sarebbe scomparsa.
Alexis si diresse speditamente verso l'ascensore. Passò davanti alla postazione dell'accettazione e rivolse un sorriso bonario alla segretaria di turno. Era raro che non fosse impegnata con le pratiche amministrative.
Salì fino all'ultimo piano. Quando uscì dall'ascensore, trovò ad accoglierlo un silenzio inquietante. Avanzò di alcuni passi. Gli occhi dei tecnici e dei supervisori erano puntati su di lui. Attendevano di ricevere delle direttive. Le domande che si era posto, quando aveva capito che era ora di abbandonare Marte, tornarono ad assillarlo. E adesso?
Il piano di comando del comune non era altro che una grande stanza circolare. Al suo centro, un enorme computer di controllo si collegava alle postazioni minori, disposte lungo le pareti vetrate.
Alexis si avvicinò all'astronomo: «Voglio un elenco di tutti i pianeti di tipo roccioso potenzialmente abitabili nel raggio di duemila ly. Alla svelta.»
L'uomo si mise subito al lavoro: «Subito, Sindaco!»
«Dov'è il Supervisore Bianchi?» domandò, notando che non c'era traccia di Sandra.
«È scesa al livello zero, Sindaco» rispose qualcuno. «Voleva informare personalmente il Capo Ingegnere Stein del suo arrivo.»
Così la sezione d'ingegneria sarebbe stata pronta ad avviare le procedure di decollo. Alexis si trattenne dal sorridere. Sandra era un'aiutante efficiente, oltre che una moglie meravigliosa. Anche prima che diventasse Sindaco di Quasar, ricordava momenti in cui lei era diventata il suo sostegno. Non sarebbe arrivato fin lì, se non l'avesse avuta al suo fianco.
Istintivamente, osservò la cicatrice sull'avanbraccio.
Regolò la ricetrasmittente sul canale di collegamento tra il Comune e l'Ingegneria: «Sindaco Ross a Capo Ingegnere Stein.»
Una voce tonante rispose: «Qui Capo Ingegnere Stein.»
«Stein, inizi a riscaldare i motori: stiamo per partire.»
«Ci sto già lavorando» rispose il suo interlocutore «... ma il fulcro avrà bisogno di alcune ore per stabilizzarsi, dopo aver disattivato i repressori, o rischiamo di perderne il controllo.»
«Conto sulla sua competenza, Stein» replicò Alexis, avvicinandosi all'ascensore. «Tra sei ore voglio che lei sia pronto al decollo, perché Quasar lascerà questo pianeta per sempre. Inviate l'elenco dei pianeti al mio computer personale» l'ultima frase era rivolta all'astronomo.
«Sì, Sindaco» rispose questi.
«Non possiamo affrettare le cose» disse nel frattempo il Capo Ingegnere. «Lei dovrebbe saperlo meglio di me, Sindaco...»
«Certo che lo so» replicò Alexis, piccato. «Le do sei ore, Stein. Se le faccia bastare.»
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Ecco qui il primo e unico capitolo di Strays. Se non sapete di cosa si tratta, vi invito a leggere la parte della raccolta intitolata: "#JustWriteIt #Earthlove: Strays", che spiega la tematica di questo capitolo e del precedente. Lì è spiegato anche perché ho deciso di non continuare questa storia, che pur tuttavia ha raggiunto ottimi risultati in classifica e nei commenti. Chissà, magari un giorno la riprenderò in mano! Mai dire mai :D
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