Eva Pavlova






Il serpente mi ha ingannata,

E io ho mangiato.





†❦





Eva Pavlova afferma d'averla sempre avuta come viziosa abitudine fin da bambina, quella di grattarsi via la pelle lattea dalle lunghe dita, ruvide e raggrinzite come ramoscelli d'un ciliegio morente. In qualsiasi attimo tedioso della sua limacciosa esistenza la si poteva scorgere avvezza a sfregare e strappare, con lo sguardo assente di chi non s'accorge e la cute sciupata maculata di efelidi. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Pallide strisce di carne morta si raggruppavano sovente sulla sua camicetta a fiori, come petali esanimi e molli sgualciti un'ultima volta. Si aggiungevano, poi, le unghie marmoree delle mani e dei piedi. Una dopo l'altra, con cura, rimuovendo la sporcizia e limando ogni arcata sbeccata. Le custodiva, pallide e smunte, ben separate dai resti del derma; lontane, inaccessibili, mai dovevano toccarsi fra loro le cose morte. Dovevano solo star lì, immobili, fisse testimoni che c'era sempre vigore dopo il languore; perché seppur morte lì rimanevano. Indenni e intatte restavano. Altrimenti come poteva ancora vederle? Come riusciva ancora a tastarle? S'interrogava così, Eva Pavlova, ma mai si rispondeva. Si limitava a osservare impotente una parte di lei che avvizziva in una poltiglia opaca, giorno dopo giorno. Si poteva morire solo un po', sempre e solo un po'? Le sembrava di prendersi gioco della morte, a Eva Pavlova. Le si concedeva solo per parti, sfuggevole e riservata e schiva, e le offriva solo le sue collezioni di pelle grigia e unghie di gesso, niente di più. Ed Eva Pavlova afferma che amasse vividamente collezionare.


La neve, evanescente come friabile polvere, era tutto ciò che ricordava dei suoi primi tre anni. Candida e disinvolta, precipitava dalla volta plumbea piovendo in bianchi bioccoli smussati. Sempre si appiccicava, ostica, sui pori della sua pelle, e come forfora s'impigliava fra i suoi capelli, sotto una povyazka azzurra tutta pieghe e ricami. Coi polpastrelli inamidati, Eva Pavlova racimolava ogni singolo fiocco, e lo offriva alla lingua da solleticare. Le piaceva, afferma, assaporare il cielo sulle labbra screpolate dal freddo. Le dava un senso di immortale quiescenza, fra i denti serrati. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Con la lingua ruvida e sinuosa la impastava di saliva, e poi deglutendo ingurgitava. Eva Pavlova afferma che nevicava anche quel giorno, e sbuffi di vento schiaffeggiavano tetri il sole rosso, quando sua madre le si era accostata stringendo ai seni un fagotto di stracci. Lei s'era ritratta di scatto, perché sua madre aveva il naso lungo e delle madri dal naso lungo non ci si poteva fidare, lo sapevano tutti. Ma quell'involucro informe, stretto fra braccia possenti come remi, aveva emesso un vagito strozzato, e un piede di fresca cartilagine, pura e vergine come la neve che lei soleva ingoiare con devozione, era scivolato fuori scalciando.


«Bada bene, moy doch'» le aveva detto la mamma con melliflua mansuetudine. «Guarda cosa ha portato la cicogna stamattina.» E scoprendo il fagotto di pelli, un viso di scarno scheletro aveva socchiuso gli occhi porcini, con una fessura senza denti che gemendo succhiava e succhiava. Eva Pavlova aveva urlato spaventata dal demone in fasce, e s'era ripiegata su sé stessa, ansiosa, grattandosi via la pelle morta. «Bada bene» le aveva ripetuto Duša Savina assuefacendo la voce di cartapesta. «Il suo nome è Georgi.»


A due anni Georgi Pavlov aveva già lunghi capelli, afferma Eva Pavlova. Gli ricadevano spesso sullo sguardo timido e assorto, a caccia di mani pronte a scostarli fremendo. Gli accarezzavano, inermi, le scapole storte e ricurve davanti, in rilievo sotto la consunta lana di yak color malto. A partire dal suo primo inverno cosacco, Eva Pavlova l'aveva soprannominato Georgi l'Elfo, perché era vezzo del vento tingergli di cremisi le orecchie appuntite e sporgenti. E ogni sera, presso un rovente camino di tizzoni e lingue di fuoco, s'innamorava delle sue smorfie dalle labbra gonfie e dai canini aguzzi, con il naso spelato e gocciolante muco. Ma quando accadevano i giorni del terrore, quando le riottose raffiche sbatacchiavano graffi sui vetri, e suo padre sbatteva il portone di casa e sua madre addosso al portone e l'ultima bottiglia di vodka addosso a sua madre, quando le loro urla si rincorrevano urgenti sulle pareti e cocci taglienti penetravano e stridevano e frinivano, Eva Pavlova afferma che Georgi s'inquietava come un cane agonizzante, cadaverico, latrante per l'ultima volta contro affamati avvoltoi che, silenti e vigilanti, attendono e cantano la sua morte. E mentre scorgeva sua madre china per terra come prostrata in preghiere di sangue, conveniva tremando che sì, si poteva morire solo un po', ogni giorno. Georgi lavava il pavimento con dolenti lacrime di occhi infossati, scalciava e rantolava fra i suoi avambracci manchevoli. Allora Eva Pavlova, come in ogni altra occasione, stringeva a sé il suo demone del fagotto di stracci e gli accarezzava il ventre intirizzito dal freddo in lenti movimenti circolari, ora stretti, ora ampi. Strappare e sfregare, sfregare e strappare. Così sfregava per ore avanti e indietro la pancia spugnosa, Eva Pavlova, mentre Igor Pavlov strappava grida di afflitte suppliche a Duša Savina. Strappare e sfregare, sfregare e strappare. Finché ogni giorno sbucava l'alba dalla tempesta di nevischio, e sua madre raccattava i frammenti di vetro sparsi, la sera prima, sulla ruvida pietra di vaniglia.


Eva Pavlova afferma che Duša Savina amasse portare rosari di cedro attorno al collo, tarchiato e cosparso d'unguenti alle erbe. Spesso imponeva alle mani guantate, contemplative e fragili, di strusciarsi sulle perle di legno incastrate a dovere sotto il suo doppio mento grinzoso e oscillante. Le sussurrava, docile, che Dio poteva udirla, quando brandiva la croce scheggiata fra gli indici viola recisi ai lati; ma Eva Pavlova non le credeva, perché delle madri dal naso lungo non ci si poteva fidare, lo sapevano tutti. Eppure sua madre le parlava lo stesso, e lo faceva con le iridi brillanti e il tono stridulo e civettuolo. Le mostrava le sue collezioni di matrioske in ceramica decorata, matriarche panciute e addobbate in fila indiana sulla mensola del salotto, ed Eva Pavlova ogni volta si fermava a ascoltare perché anche lei adorava collezionare. Duša Savina le stringeva quindi il viso fra le dita paffute e percorreva con le unghie rapaci le sue esili trecce.


«Le vedi queste matrioske, moy doch'?» le domandava ogni volta tirando su col naso lungo. Talora, afferma Eva Pavlova, s'impegnava con lena a strofinare la sua manica irsuta sulla porcellana, poiché specchiarsi sulla sua superficie lucida e linda la rasserenava. «Bada bene, noi siamo proprio come le matrioske. Ci nutriamo di segreti, uno ad uno, finché non rischiamo di scoppiare. E ogni segreto ne include un altro, più infimo, più profondo, da custodire avidamente.» Le carezzava la testa con la presa calda di mani da massaia, ed il respiro sommesso e corto d'una preda caduta in trappola. I suoi occhi divenivano cupe voragini d'oblio penetrante. «Ricordati ciò che ti dico, moy doch'. Noi siamo i nostri segreti. Fa' sempre in modo di non farli scoprire a nessuno, perché nessuno deve sapere che siamo delle matrioske.» Stringeva poi la corona benedetta fra i seni, e deglutiva spossata serrando la gola rugosa. «Non concedere agli altri d'aprirti e smembrarti fino al più piccolo pezzo, bada bene. Resta sempre integra e ferrea custode dei tuoi segreti. Promettimelo, moy doch'». Ed Eva Pavlova, afferma, prometteva ogni volta, anche se allora di segreti se ne intendeva ben poco.


L'ultima volta che Duša Savina le aveva indicato, pervasa d'orgogliosa esaltazione, la sua maiolica colorata sulla mensola del salotto, aveva un labbro spaccato e un livido giallo sopra la palpebra scura. Da sotto il grembiule a ghirigori, un taglio obliquo pareva ricamato sul braccio pulsante, come un rigagnolo rosso straripante e melmoso. «Non preoccuparti, moy doch'» le aveva detto con vacua apprensione. «La tua mat' è maldestra, e si è sporcata con la polpa di pomodoro.» Poi aveva distolto lo sguardo di nebbia, e le sue gote avevano tremolato umili. «Bada bene, è meglio che mi vada a pulire.»


Eva Pavlova afferma che sua madre era ancora sporca, la mattina dopo, quando l'aveva trovata con un cappio attorno alla cervice tozza e i piedi a penzoloni nel vuoto indaco sotto di lei. Sapeva che qualcosa non andava, perché al posto del rosario di legno, sotto il suo mento, scorgeva un rigido spago di grigia appariscenza, e anche con le narici otturate di croste avvertiva odore stantio e putrescente. La corda bugiarda, così l'aveva chiamata cedendo tra urla e tremori, le pareva un serpente sibilante odio e latore di spergiuro. Gli occhi di Duša Savina, tetri spilli pungenti che sferzano e scorticano, erano ora cavità pendenti e vitree come cocci di bottiglia, ma l'ecchimosi sull'occhio del giorno prima s'era imporporata vividamente nella notte, e le sue labbra apparivano dense e rimarginate. Le caviglie scalze e ruvidamente increspate s'erano già fatte blu per il gelo di casa, e Eva Pavlova afferma che il gomito, rivestito di venuzze violacee, era ancora imbrattato e lercio di pomodoro essiccato. Non avevi detto che ti saresti pulita, moy mat'? Non l'avevi forse promesso a voce alta, davanti alla mensola del salotto? In tali pensieri sguazzava confusa, pur sapendo con rigore che le madri dal naso lungo mentono sempre. Aveva sette anni, Eva Pavlova, e attendeva la morte con la mano pallida e carnosa della madre stretta alla sua, deformata e sbucciata davanti e di dietro. Piccoli pallini rosei si sfilettavano dalle sue dita con caparbia insistenza, sfregare e strappare, strappare e sfregare. S'ammonticchiavano sempre più sulle piastrelle granitiche, ed Eva Pavlova provvedeva affinché non si depositassero mai sul corpo spianato di Duša Savina; perché mai dovevano toccarsi fra loro le cose morte.


Georgi l'Elfo, afferma, se n'era andato insieme a sua madre quella vischiosa domenica d'ottobre. Il suo sguardo vispo e brioso era tramontato in fossati d'apatia irriverente, e da quel momento la sua bocca espettorava parole ponderose e appuntite. In esse Eva Pavlova percepiva lo stesso sibilo assottigliato che aveva emanato la mortifera fune serpentiforme, e da esse assorbiva un velenoso grigiore di spirito, quasi che si condensassero in nubi infette di sospiri nocivi. «È colpa tua, Eva, solo tua» le ricordava ogni giorno coi canini aguzzi conficcati nel flebile labbro inferiore. «Mamochka voleva solo imparare a volare, voleva ridere sospesa in aria e cantare più forte che poteva insieme agli usignoli, voleva solo toccare il cielo e giocare con le nuvole.» Le sopracciglia si arcuavano sdegnose ogni volta che l'accusava, e i suoi piccoli palmi si serravano in pugni grifagni. «Dovevi solo prenderla al volo» insisteva, ed ecco che la sua voce cristallina sfociava in uno stigio ululato, perforandole le orecchie come arpioni acuminati. «Perché non l'hai fatto, Eva? Perché non l'hai fatto?» Ed Eva Pavlova rispondeva solo con lacrime salate e unghie sbeccate, da raccogliere da terra e limare.


A otto anni, afferma, aveva avuto il suo primo segreto. Le guance mollicce le si erano arrossate fiere e soddisfatte, e il naso all'ingiù s'era ritratto timido sotto lo squarcio della camicetta a fiori, per nascondere l'infossata crepa sorridente. Ora, pensava, bastava trovarne di altri più piccoli, da nascondervi dentro. Sigillarli, preziosi, con la ceralacca delle pergamene che Duša Savina aveva lasciato sulla mensola del salotto, accanto alla spazzola sdentata e al vaso di papaveri spioventi. Accudirli ciascuno, scrupolosa e dedita come una matrioska di bianca terracotta scheggiata. Ma Eva Pavlova rimembrava che non fosse della consistenza che aveva immaginato, quell'infimo, intimo vincolo da custodire. Non aveva il sapore, lieve e fugace, della neve poco prima che toccasse terra marcendo, né il sentore atavico delle erbe che impregnava ancora gli abiti dimessi di sua madre. Pareva più un solco di cinghia ferrate sulle cosce livide, un indelebile marchio su divaricazioni immacolate. Scorreva, rapido, in fenditure di sangue viscoso sulle braccia protese a coprire il volto atterrito. Si rifletteva nei frammenti tersi delle piogge di vetro, la sera, quando udiva Igor Pavlov scardinare il portone di casa fetido di vodka ai mirtilli rossi. Ecco, sapevano di mirtilli rossi, i suoi segreti da custodire.


«Fammi vedere il tuo fiore, baranina» le diceva con delicata premura, ed Eva Pavlova si beava sempre di un tale riguardo, e s'ammansiva come un agnello dalla pelle a batuffoli e la coda che germoglia. «Fammi vedere se va annaffiato per bene.» E così aveva scoperto che le sue gambe erano semplici steli dimessi, a nascondere un baccello di labbra fertili come petali di loto. E Igor Pavlov si prendeva cura di quelle labbra, con dita affusolate come grinfie e il solletico di una lingua unta di bava. Le sfilava, palpando, la veste sozza e inumidita dal pastoso sudore. Giocava con la biancheria sfregando, strappando zelante ogni volta. Ed Eva Pavlova, afferma, si ritrovava compressa contro un muro di macchie rosse, e rideva piangendo per i polsi dolenti e la pelle morta che s'accatastava. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Contemplava, languida, i fiocchi di neve in tempesta che morivano sui fiori in giardino, ed era convinta che il suo, di fiore, stesse appassendo sotto una pioggia di soavi percosse.


Se la prendeva con sé stessa, quando veniva ferita. Da quando mat' è volata via, c'è molto più sangue sul pavimento. L'amore di suo padre le pulsava vivo nel basso ventre, un po' alla volta, come la morte che la circuiva, un po' alla volta. Devo pulirlo io, il pavimento, da quando mat' è volata via. Si concentrava prima sulle croste vermiglie, figlie sbocciate dai suoi petali consunti, e solo dopo sui cocci di cristallo. Li sfiorava gemendo, Eva Pavlova, mentre l'affetto la corrompeva penetrando da dietro. Igor Pavlov la colmava d'amore, ne era certa. E s'inorgogliva d'un segreto tale, privilegio del fiore suo, perché Duša Savina le aveva sempre detto mantieni intatti i tuoi segreti, moy doch'. E la vedeva ora, Duša Savina, riflessa nei cocci di bottiglia, pallida e rotonda come una matrioska prosperosa. Vola con me, le sussurrava. Ma Eva Pavlova, assorta in biascicati lamenti, a stento la udiva fra scudisciate di cinghia. Si rannicchiava in un angolo vuoto, e spettrale lo lasciava finire sfinita. Raccoglieva, a gambe tremanti, la resina collosa nella sua corolla infiammata, e le natiche prudevano gracili e contuse per la profonda affezione di lui. Così l'era devoto Igor Pavlov, innaffiando il suo acerbo virgulto costante e coscienzioso. Ed Eva Pavlova afferma che il dolore la benediceva, l'avvicinava a Duša Savina volata via, si faceva straziante culla dei suoi segreti ai mirtilli rossi. La spingeva a vantarsi, in vagiti d'agnello, dei suoi segreti d'amore, perché Georgi l'Elfo non li aveva, no. Ogni volta Georgi l'Elfo, ignaro, dormiva.


Per tutte le mattine seguenti, Eva Pavlova sfregava pulendo le piastrelle di vaniglia coi gomiti tagliuzzati e gialli di pus. Strappava le macchie disinvolta e florida, e solo dopo passava ai frammenti impolverati di vetro, carezzandoli uno ad uno fra i polpastrelli sfregiati. Georgi l'Elfo la osservava confuso, le orecchie ampie colorate di porpora e il naso gocciolante coperto dalle maniche. Talvolta, afferma Eva Pavlova, tornava a invitarla nel cortile bianco a mangiare la neve e contare le nuvole di zucchero con cui Duša Savina aveva voluto giocare, quella vischiosa domenica d'ottobre in cui la serpe cinerea l'aveva strozzata. In tali occasioni, Georgi corrugava il viso lattiginoso e i suoi canini sporgenti riflettevano, sfavillanti, la luce lenitiva del sole. Fissava lo sguardo, penetrante e indagatore, negli angoli in cui la recinzione scorreva sottile fra i cumuli innevati, come piccoli monti di forfora e pelle morta da collezionare.


«Dici che mamochka è lì fuori?» le chiedeva sovente, il dito scheletrico a indicare gli abeti lontani. Lei scuoteva la testa, terrorizzata, e avvertiva l'urgenza di sfregare e strappare palline rosee dal pollice intorpidito. «Papa dice che dopo il recinto ci stanno i mostri» bisbigliava poi guardandosi attorno, temendo d'essere udito. «Giganti cattivi dagli occhi bianchi che ringhiano e attaccano e uccidono.» Il suo viso, da sotto la coltre gelida di nevischio, era esangue e circospetto, e il labbro inferiore era screpolato e inciso dalle punte dei canini. «Papa dice che l'hanno presa loro, mamochka, perché lei voleva cantare con gli usignoli e ha superato il recinto, e la notte i mostri si son bevuti la sua voce; l'hanno appesa e l'hanno strozzata finché non cantava più.» Eva Pavlova aveva gli occhi strabuzzati, e il livido sulla guancia la pizzicava come antiche memorie sbiadite, simili ai graffi della spazzola sdentata di Duša Savina, quella sulla mensola del salotto. Mat', perché l'hai fatto? Non si esce dal recinto, lo sapevano tutti. Era la prima regola. «Io li voglio uccidere, Eva, con le mie stesse mani» aggiungeva infine agitando i pugni dalle nocche viola. «Voglio farli soffrire finché non ringhiano più, finché non mi ridanno mamochka, giuro che lo faccio.» Scalciava la neve ammonticchiata, e le sue maniche si bagnavano di rivoli lacrimanti mentre le strattonava le braccia con foga. «Giuro che lo faccio. E tu mi aiuterai, vero? Lo farai, vero? Promettimelo, Eva.» Ed Eva Pavlova, afferma, prometteva di nuovo, anche se oramai aveva i suoi segreti da custodire.


A nove anni, infatti, Eva Pavlova aveva già fatto tesoro di molti segreti. Quasi tutti collezionati la sera, dopo lo sbattere del portone di casa, con il tanfo di liquore a permeare le spoglie pareti cosparse di crepe. S'era fatta un'esperta matrioska, pensava, di quelle sorridenti e affabili che mai scoprono le proprie voragini, ma si limitano a cucirle, l'una sull'altra, con dedizione e impegno. Non c'era più tutto quel sangue, sul pavimento, e la cinghia del padre pareva ora la sua più cara confidente, con cui scambiare qualche parola ad ogni lesto fendente. Timido contatto fra anime disperse al vento. Le piaceva, ad Eva Pavlova, quella rossa intimità luttuosa di pelle su pelle. La confortava.


Quella torbida sera di marzo, tuttavia, Igor Pavlov era diverso, afferma. I capelli sudati, pendenti in ciocche imbrattate di vischio e melma, fendevano un volto scarno dalle striature cremisi. Il ventre prominente sporgeva all'infuori coperto di macchie, e i calzoni penzolavano, molli e decurtati, per la cinghia assente. Fra le braccia nerborute, Eva Pavlova scorgeva un ruvido fagotto di stracci. Vuole nascondere la bottiglia di vodka, pensava. Vuole cogliermi di sorpresa, la pioggia di vetro. Ma il pavimento era rimasto una lucida, marmorea distesa di vaniglia, e nessun frammento di cristallo le aveva lacerato le gambe di steli. No, Igor Pavlov era diverso, quella sera. L'ira disinibita dei suoi occhi era ora maschera di patimento, e la gola corpulenta deglutiva e deglutiva inesorabile. «I mostri l'hanno preso, baranina» singhiozzava sputacchiando saliva gialla. L'involucro l'aveva deposto, senza fiato, davanti ai suoi piedi dalle unghie sbeccate. «I mostri l'hanno preso perché lui ha superato il recinto» ripeteva come fra sé e sé, passando la manica nera sul naso sanguinante. Allora Eva Pavlova aveva urlato con voce rauca, e aveva ripreso a martoriare le dita smorte un po' e un po'. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Avanti e indietro. Striscioline di derma s'erano depositate per l'ultima volta sul corpo esile del suo demone dalle orecchie a punta, come fiocchi di neve sotto cui tutto avvizzisce e muore. Non canta più, l'Elfo. L'aveva osservato, tremula, con gli occhi di chi non s'accorge che le cose morte si toccano fra loro, e aveva subito nascosto il suo viso avvizzito con la coperta malconcia. Il suo naso incrostato di sangue sta ancora colando. Le mani s'erano mosse da sole, afferma, e avevano iniziato a compiere i soliti movimenti circolari sul suo ombelico senza vita. Va tutto bene, Georgi, va tutto bene. Impastava con ansia il suo stomaco, ancora e ancora, per allietarlo e assopirlo per davvero; e lasciarlo un'ultima volta placido e serafico come un cane che la sera s'appisola, fiero e fedele, di fianco al padrone riconoscente. Niente avvoltoi, quella notte. Eva Pavlova non s'era interrotta finché non aveva udito scricchiolare le sue nocche ceree sotto la pressione dei movimenti di supplica. Poi s'era ritratta, affranta ed esanime, ed era tornata a strapparsi le unghie, sfregando fra loro le falangette polpose e bagnate di pianto. La mattina seguente, Georgi l'Elfo non era più, afferma.


La morte continuava a punzecchiarla, Eva Pavlova. L'accerchiava da più parti, claustrofobica fonte d'eterno addio. La schiaffeggiava, macabra e perentoria, per ingegnosa ripicca. Fra un'unghia e l'altra, Eva Pavlova le s'era sempre concessa poco alla volta, sfuggevole, fin da bambina. E la morte, corvina e deforme, aveva intuito come vendicarsi. Aveva carezzato, soffusa, le gote incavate di Duša Savina, quando lei l'aveva scorta sospesa in aria con lo sguardo serrato. Aveva sghignazzato, latrando, nelle orecchie appuntite di Georgi Pavlov, infagottato nel sarcofago lercio e inzaccherato di sangue. E ora la pedinava, silenziosa e accorta, come un'ombra testarda e irremovibile che incombe e assilla. Eva Pavlova la percepiva nei banchi di nebbia intricati che trasportavano nubi gonfie di pioggia. L'assaporava nel puzzo di vodka ai mirtilli rossi ch'era tornato, insistente, a condire i suoi segreti da matrioska fatta e finita. L'ascoltava, attenta, ogni volta che si spingeva più lontano, nel tetro giardino appassito che faceva da gabbia. Un passo in più, ogni giorno. La sfidava approcciandosi lentamente al recinto, all'erta, tremando spasmodica con gli arti indolenziti e vibranti di freddo. Georgi sto venendo a prenderti, come promesso. Eva Pavlova afferma che talvolta indugiava, pensierosa, e ghignava con lei. Ridevano insieme, lei e la morte. Si beffavano sguaiatamente l'una dell'altra, afferma. E intanto i cumuli di pelle crescevano e crescevano, e le sue unghie marcivano solitarie ancora per terra.


Aveva ormai dieci anni, Eva Pavlova, quando per la prima volta sfiorava il recinto di ferro, umido e sterile come il letto di Georgi l'Elfo vuoto da tempo. Strideva ovattato contro i suoi palmi di porcellana, accapponati e effimeri come sottili veli increspati. Le sembrava quasi d'avvertirlo tintinnare, docile, e scandire il precipitare candido di fiocchi su fiocchi da collezionare con il palato. Rimaneva lì, ferma, a guardarsi intorno nella foschia densa e infittita, e le sue trecce le baciavano umide il collo ammaccato. Sono qui, Georgi. Dove sei? Sono qui per te. Solo il vento le rispondeva, a tratti pungente e scontroso, come un'infetta e nociva esalazione d'odio; e lei era certa che fosse emissaria dei mostri dagli occhi bianchi, quella folata venefica, per sedurla in malattia e allettarla con la morte. Ed Eva Pavlova piangeva senza saperlo, perché il nevischio sembrava ora bucarle ostile la pelle in fori anneriti. Pareva che urlasse, quando incontrava la martoriata cute ai lati dei pollici rossi. Ma non era il nevischio, a urlare. Le voci che udiva erano echeggianti riverberi d'un mondo lontano. Somigliavano alla morte che ride, afferma. S'iniettavano flebili fra gli aghi di biancospino, e la deridevano trastullando. Stridevano in volo, i mostri dagli occhi bianchi, mentre Duša Savina e Georgi Pavlov avevano la bocca strappata e le ali tarpate. «My znayem tvoy zapakh. Tebe ne skryt'» sfrigolavano tagliuzzando l'aria. «Sei nota al nostro fiuto. Non puoi nasconderti.» Ma Eva Pavlova non capiva, e sapeva che i mostri dagli occhi bianchi si stavano avvicinando, con pugnali ricurvi al posto dei denti e fruste come dita, per vedere se osasse superare il madido confine tutto sporcizia e ruggine. E lei, afferma, era fuggita seminando unghie sporche e orme sbiadite sul suolo giallo e nutrito di fango.


Quella sera, Igor Pavlov era rincasato presto. Aveva strascicato le suole logore sull'uscio malmesso e le aveva scagliato addosso la bottiglia di vodka prima ancora di chiudersi la porta alle spalle. Frammenti di vetro le avevano aperto, fetidi e incandescenti, gli squarci ancora visibili sulle braccia malferme e le gote avvallate. Avevano sferzato, lesti, i lividi violacei sotto i polsi, e inciso cadendo la punta sporgente del mento. E ora Eva Pavlova, afferma, era un involucro di punture gocciolanti e strisce di tagli, accasciato in rantoli contro la parete sciupata. Il suo fiore rosso s'era colmato, rugiadoso e accogliente, d'un segreto d'amore più irruento del solito. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Brandelli di vestiti nevicavano sul pavimento di vaniglia, cosparsi di pallini di pelle morta. Duša Savina la osservava ancora, sorridente e con le mani giunte in preghiera, dalla finestra satura di vapore. Vola con me, le sussurrava sempre. (Spinta in avanti, spinta all'indietro). E Georgi l'Elfo, di fianco a lei, aveva le lunghe orecchie recise e cantava urlando senza bocca. La salutava, angelico, con la mano mangiucchiata da becchi rapaci. (Spinta in avanti, spinta all'indietro).


Eva Pavlova si meravigliava sempre, finito tutto, d'essersi divorata le labbra, morsicando fino a sanguinare dalle gengive. Non s'accorgeva mai, la sbadata. Ma in quell'occasione, tramortita dal sentimento del padre fino a gridare d'incontenibile strazio, n'era divenuta vividamente cosciente. S'era sentita rivoltare, percossa dai tormenti, e aveva incontrato da vicino due occhi profondi come pozzi e instabili come valanghe ruzzolanti. Bava gialla l'era colata addosso, e l'olezzo di mirtilli rossi le aveva stuzzicato il naso pruriginoso. «Gli usignoli cantano, baranina, o lo hai dimenticato?» le aveva ringhiato Igor Pavlov calandole il cuoio su una guancia; ora le bolliva il viso, brace putrida e surriscaldata. «Un usignolo mi ha detto d'averti vista vicino al recinto» aveva aggiunto, e un'altra scudisciata le aveva strappato una treccia. Eva Pavlova era confusa. Non si supera il recinto, lo sanno tutti. L'ho superato? Non ricordo. Georgi, da dietro le tende insudiciate, continuava a riderle nella testa, e Duša Savina applaudiva fiera alla matrioska ch'era diventata. «Tu mi provochi, baranina. Vuoi forse farti prendere dai mostri?» (Spinta in avanti, spinta all'indietro). Frastuono metallico su pelle di latte vermiglio. Eva Pavlova non voleva, afferma. Voleva solo che il dolore finisse, cioè che l'amore finisse. Paziente, potente, pulsante. Segreti su segreti che s'accavallavano, costipati, costipando. Ma i mostri dagli occhi bianchi le avevano urlato qualcosa, insisteva, e la morte non faceva che ridere di lei, giurava piangendo. «Guarda cosa succede quando mi provochi, baranina», e mani nodose s'erano sigillate attorno al suo collo imperlato di sudore rosa pallido.


E adesso Igor Pavlov stringeva e stringeva, la smorfia a denti stretti coperta da una barba intricata come fili elettrici, la vena pulsante che scorreva in rilievo lungo la fronte contratta. Eva Pavlova annaspava perdendo sangue dalla testa, stremata ma strenua nel suo stremo. Suo padre l'amava fin troppo, pensava, le nocche fredde e catramose sfiorenti sul pavimento di vaniglia. E lei si faceva amare, fedele e ospitale, serrata nella sua presa sempre più rigida. Le immagini di Duša Savina e Georgi l'Elfo si facevano sempre più offuscate, dietro il vapore. E Duša Savina piangeva gocce aeriformi, adesso. Perché piangi, mat'? Non sono stata una brava matrioska, forse? Eva Pavlova era convinta che sì, lo era stata. Aveva custodito con grazia ogni segreto. Li aveva spolverati tutti e riposti al sicuro, nascosti. Era stata ligia e servizievole, proprio come sua madre le aveva fatto promettere.


Ma le madri dal naso lungo mentono, lo sanno tutti. Solo ora se ne ricordava, Eva Pavlova, e le sue dita spelate incontravano un coccio appuntito da cui gocce di vodka stillavano ancora come rivoli di sangue. Le madri dal naso lungo mentono. Pensando a Georgi l'Elfo dai canini appuntiti, Eva Pavlova, afferma, aveva allora sollevato il braccio vagendo come un agnello agonizzante e aveva sepolto il vetro, ruvido e aguzzo, nella giugulare butirrosa di Igor Pavlov. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Avvertiva allentare la presa, mentre infilzava e sfilzava con la mano rossa, dallo stesso olezzo ferroso del recinto del suo giardino. (Spinta in avanti, spinta all'indietro). Igor Pavlov aveva prodotto un ululo strozzato, fra le fauci digrignate, e aveva schizzato linfa porpora sulle piastrelle granitiche, un po' alla volta, ansimando. Devo pulirlo io, il pavimento, da quando mat' è volata via. Quindi aveva abbandonato la cinghia inzuppata di fianco a lui, serpentesca com'era stata la fune grigia di Duša Savina, e in guaiti soffocati era crollato poi nella pozza del suo stesso sangue, appiccicoso come la sua resina ancora gocciolante fra consunti petali di loto. Ed Eva Pavlova aveva urlato, afferma, e s'era scusata prostrandosi a terra, matrioska mancata, mentre la morte tornava, ridendo, a beffarsi di lei.


Nevicava anche oltre il recinto nero, afferma Eva Pavlova. Si mescevano i bioccoli celesti con le sue strisce di pelle grattata, e cadevano insieme alle unghie di gesso rincorrendosi l'un l'altro. Sto venendo da te, Georgi, come promesso. Seminava dietro di sé scie sanguigne e collose, sparse e frammentarie sulle sue orme indecise. Igor Pavlov era rimasto inerme fra i cocci di cristallo, muto e imperscrutabile, ad attendere gli artigli dei mostri dagli occhi bianchi; e anche lui, come gli altri, aveva cessato fievolmente di cantare. Ora Eva Pavlova vagava dispersa nella notte, corpo traballante e fiaccato schiaffeggiato dal vento ridente. Attorno a sé, aghi appuntiti di pino e lontani bagliori di fuoco. Un passo alla volta, guardinga, attenta a non fidarsi più degli usignoli che fischiano e tubano sui rami nivei.


E poi li aveva uditi, soffusi, i mostri dagli occhi bianchi. Rumoreggiavano remoti, vicino alle strisce grigie più avanti, dove i fuochi s'ingrandivano e sfavillavano nella foschia. Eva Pavlova s'era messa a correre sugli steli vessati che aveva per gambe, e s'era raggomitolata poco distante a osservarli, sagome d'ombra deformi ed estranee. Dove sei Georgi? Non ti vedo. E i mostri gorgogliavano beffardi, congiungevano le dita all'unisono come artigli ed emettevano versi dalle fauci scintillanti. «Zdes' pakhnet pozorom» aveva sbatacchiato una delle bestie, e d'impeto s'era voltata verso di lei. «Qui aleggia odore di vergogna», ed Eva Pavlova continuava a non capire, e rabbrividiva congelata e senza fiato dal terrore di quella lingua sconosciuta. Mi stanno aspettando. E quando l'intera orda aveva infine sollevato lo sguardo vacuo da terra, Eva Pavlova aveva urlato come punta da spilli arroventati ed era fuggita dalle creature senza iridi.


Papa ha ragione, sono quasi tutti bianchi, i loro occhi. Candidi come fiocchi di neve, ma con una parte centrale di un luminoso blu elettrico, e nessun ombelico nero al centro. Eva Pavlova, afferma, s'era sentita trapassare da parte a parte quando li aveva incrociati coi propri, scuri crateri su occhiaie purulente. E ora scappava, sgomenta e sfinita, e sentiva le loro falcate approcciarla da dietro, e il loro fetore avvelenare l'aria; e sapeva che cercavano di farla tacere come Duša Savina e Georgi Pavlov erano taciuti prima di lei, e per colpa sua papa non poteva più custodirla, come lei non aveva saputo custodire i loro segreti d'amore. Georgi aveva ragione, è tutta colpa mia. Avanzava a fatica sotto gli abiti strappati e roridi di sangue vischioso, mentre i primi nuovi lividi macchiavano la sua pelle incrostata e irta per il freddo. Gridava e sussultava, e i mostri dietro di lei aumentavano e acceleravano il passo per ghermirla e darla alla morte che sghigna. «Dalle sue cosce piove resina rossa!» esultavano sollevando in aria le robuste membra fusiformi in religioso giubilo. «Rinnovata fonte battesimale!» Ed Eva Pavlova all'improvviso finalmente capiva e scalpitava con foga ringiovanita, certa che volessero inseguirla fino al confine infuocato del mondo e spogliare il suo fiore avvizzito degli ultimi petali spioventi con le loro grinfie malefiche.


Afferma Eva Pavlova d'esser giunta fino a un ponte sospeso in aria, e d'aver udito l'acqua che scorreva sotto come vodka da una bottiglia stantia, ma senza l'acre odore dei mirtilli a irritarle il naso ormai congelato. S'era voltata scattante, maschera cinerea e atterrita, ma tutto attorno a lei era zanne bavose e arti sospesi come arpioni. Le ultime unghie precipitavano al suolo distratte, sfregare e strappare, strappare e sfregare, mentre la circondavano smaniose e aizzanti le infide creature. «Dove cammini tu la terra si fa santa, Iskupitel'nyy!» aveva osannato uno di loro, e le sue gote s'erano raggrinzite rivelando solchi e ferite su cui tempo e rimarginazione non sortiscono effetto. «Redentrice!»


Ho smarrito la via del perdono. Non doveva superare il recinto, lo sapevano tutti. Ma Eva Pavlova l'aveva promesso a Georgi l'Elfo, ed ora eccolo là, il suo Georgi tutto orecchie e denti a punta, un riflesso lentigginoso nel torrente ghiacciato. La salutava sempre, monco e sbiadito, e la guardava ridendo come ride la morte. Di fianco a lui, Duša Savina aveva i polpastrelli scheletrici sul petto nudo, e il suo crocifisso di legno pareva galleggiare da solo sulla corrente al galoppo. Vola quaggiù, sussurrava vomitando acqua. Ma ecco d'improvviso un'onda sbilenca infrangere la schiuma lattea del torrente, e il volto tumefatto di Igor Pavlov brillare dimesso sotto i raggi della luna, proprio dietro gli altri due, le lunghe falangi ancora brandenti i cocci di vetro estratti dall'incavo del collo. Le tre figure sbiadivano e s'addensavano al rimestare dei flutti. «Allontanati dal parapetto, Iskupitel'nyy, e vienici incontro» era l'implorazione uggiosa che ora proveniva da dietro di lei. I mostri s'erano avvicinati tanto da poterla quasi toccare. «Con trepidazione e a lungo abbiamo atteso questo giorno. Forza, devi solo darci la mano!» Vola quaggiù, moy doch', baranina. E lei s'era tuffata, moribonda, un attimo prima d'essere intrappolata dalla loro morsa.


Tutto ciò lo afferma, Eva Pavlova, mentre precipita nel buio fra la nebbia spumosa e beffarda. Ma non lo fa ad alta voce, no; né lo compone in forma scritta. Lo conserva come un ultimo, prezioso segreto da custodire. Non è più una matrioska mancata, quando vola verso il basso a braccetto con la morte. Stavolta le si dona completa, inerme e fioca come una candela che flebilmente si spegne, mentre il cielo si colora di screziate propaggini. Le cose morte non conoscono colpa. La consolazione del suo ultimo pensiero l'accompagna finché piovendo non diventa tutt'uno con le sagome ancora luminescenti sotto di sé. «Ma mai devono toccarsi fra loro» le sembra d'udire in risposta, ed è convinta che sia la morte a sussurrarlo, divertita e gravida di vita, cavalcando le folate di vento freddo mentre lei soccombe.




NdA:

Il precedente racconto è frutto della testimonianza raccolta nel 1943 dallo psichiatra Novomir Tarasov, al culmine di anni di studi e valutazioni del profilo psicologico della paziente Pavlova Eva, affetta fin dalla nascita da una grave forma cronica di disturbi della personalità, schizofrenia e psicosi, e detenuta a partire dal 1934 nel carcere femminile di IK-2, Mordovia, dopo essere stata giudicata colpevole di aver ucciso, nel 1913, il padre Igor Pavlov al termine di un episodio schizofrenico di forte depersonalizzazione e intensa alterazione della realtà.

Richiamata a processo nel 1948, Eva Pavlova viene definitivamente giudicata colpevole anche della morte di Georgi Pavlov, avvenuta nel 1912, ma assolta da quella di Duša Savina, verificatasi (con una buona dose di probabilità, da quanto potuto appurare) sul termine del 1909; archiviata, questa, come suicidio.

Condannata all'ergastolo per duplice omicidio, Eva Pavlova viene infine giustiziata tramite fucilazione nel 1966, ad un'età non certificata. Fino ad allora, avrebbe sempre ribadito con ferrea convinzione di essere morta gettandosi in un fiume quando aveva dieci anni, e non avrebbe mai cambiato versione nel reiterare gli accadimenti che sancirono il corso turbolento della sua vita.

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