Capitolo 2.
"L'uomo,
confinato dalla natura nell'effimero,
sogna l'eternità.
Erigendo monumenti e statue,
si illude di creare delle cose
che il tempo non altererà
mai."
Gustave Le Bon
A.S. Il capitolo non è lunghissimo, quindi gustatelo con calma, ci sono alcuni particolari che potrei riprendere col passare dei capitoli. Buona lettura!
«Ma hai visto che sfacciata?!», urlò Azzurra fuori di sé, mentre sorvolava, con la sua fiabesca grazia, il vialetto di terra battuta sotto la Sacra dimora.
«Non puoi dire così», emise con un filo di voce la gemella, a cui si spezzava il cuore nel vederla così furibonda senza motivo. «Ci meritiamo il suo astio, l'abbiamo lasciata sola.»
«Ma che vuol dire?! Non può trattare noi così! Non dopo tutti quegli anni, in cui l'abbiamo cresciuta», gridò lei paonazza, voltandosi di scatto verso Rosa in procinto di piangere. «Ehi! Ehi! Non piangere... Scusa.»
La fata non rispose e si limitò a rimanere in silenzio, il che portò Azzurra a guardare la città, al di sotto del promontorio. L'occhio si posò subito sull'alta torre orologiera di pietra verde, che ricordava un marmo color smeraldo. Gli occhi baluginarono subito sulla piazza sottostante, ospitante il mercato mattutino pieno di pescivendoli, allevatori e contadini; tutti intenti a urlare prezzi e offerte, pronti a farsi gara.
Erano rumorosi, quasi invadenti nei pensieri della creaturina, che, per quanto piccola fosse, era uno degli esseri più pericolosi in tutti i Reami.
«Come ti senti?» Chiese d'un tratto, prendendo la mano della gemella.
«Sono solamente delusa, ma al contempo rassegnata. Sua Misericordia è stata con noi da quando era piccolina e ora non ci vuole fra i piedi... Non puoi negarle la sua ragione, perché abbiamo firmato il decreto della regina per rinchiuderla dentro la Sacra dimora. Avrà pure un carattere fumantino, ma non è insensibile», ammise Rosa guardandola con i suoi occhi neri come la notte più profonda, gli stessi che quando s'infuriava divenivano bianchi come il quarzo più prezioso.
«Ci odierà per sempre?» Domandò, capendo che la sua rabbia era immotivata.
Guardò la sorella a lungo, mentre un raggio illuminava i loro volti colorati dalle sfumature chiare. La gemella abbassò lo sguardo scostando i capelli sul volto e fermandosi sul posto.
«Io penso che dobbiamo liberarla. Sono cinque anni che non esce... Dobbiamo convincere la regina a far uscire la Sacra Vergine e dimostrare al popolo che non è un mostro», annunciò decisa, alzando di colpo il volto, mostrando un'espressione che Azzurra non conosceva ancora: dolore. Tutto quello che la primogenita non ebbe mai mostrato, era dolore. E non c'erano sinonimi per quell'espressione, non era tormento, men che meno tristezza, bensì puro dolore. Nella testa della fata non c'erano altri modi per definire quel viso così sofferente. In duecentotrentaquattro anni non ebbe mai visto sua sorella in quel modo. Come si poteva immaginare che la bella, serena e dolce, Rosa potesse provare tale sentimento?
Annuì e strinse i pugni. «Convinciamo la regina», concordò seria, lasciando che il vento spostasse una lunga ciocca azzurra sul suo volto ametista.
Si lasciarono alle spalle la dimora della Misericordiosa e proseguirono per il sentiero verso il palazzo reale.
Azzurra fu la prima a varcare la soglia del cancello, posto di fronte all'immensa fontana in marmo rappresentante una sirena, nel culmine della sua bellezza, con gli occhi rivolti verso l'alto e le labbra, che sembravano essere morbidi e delicate, leggermente schiuse in un dolce sorriso. Le braccia s'innalzavano graziose, a cercare di raggiungere qualcosa, o qualcuno, che gli occhi avevano avvistato. I capelli erano immobilmente scossi da una brezza inesistente e scoprivano le esili spalle dalla pelle tenera. Pareva essere estremamente fragile e delicata, quasi morbida; tuttavia era solo la bravura dello scultore che era stato in grado di rendere il marmo "soffice".
La coda da pesce pareva essere stata bloccata nell'atto esatto in cui compiva quel movimento, come se quella fosse stata opera delle meduse e non di un umano.
A concludere quella perfezione, c'erano i schizzi di acqua eccezionalmente scolpiti fino a sembrare reali.
Passarono accanto a quella marmorea meraviglia, continuando per il vialetto di ghiaia, attorniato dalle siepi di rose gialle, e volarono fino al portone, si fermarono.
«Saliamo dalle finestre?» Propose Azzurra, con un sorriso angelico, impaziente di arrivare alla sala del trono.
La gemella sospirò e annuì, iniziando a salire fino alla grande arcata con diaspora, che fungeva da finestra.
«Quindi sei una vandala», esclamò stupefatta la fata, venendo fulminata dallo sguardo di Rosa, incapace di concepire la stupidità della sorella. Era particolarmente visibile il suo dispregio, quasi cinico, nei suoi confronti.
«No?» Chiese accennando un sorriso impedito, seguito da una risatina.
La primogenita alzò un sopracciglio, come per screditare la gemella poi scosse la testa, chiudendo gli occhi. Sospirò un ultima volta, prima di avanzare da sola.
«Aspettami», gridò Azzurra, venendo zittita dalle guardie poggiate alle pareti. Se ne accorse solo in quell'istante di essere nelle passerelle soprastanti la sala del trono.
Le colonne, che reggevano gli archi a tutto sesto, erano decorate da bassorilievi floreali, mentre la balaustrata era decorata da piccole statue di angeli, il che rappresentava la devozione della città agli angeli patroni Zurigo e Athena, i quali, secondo la parola della Misericordiosa, non erano mai esistiti e, in caso contrario, sarebbe stata lieta di fare loro conoscenza.
Spostò lo sguardo oltre e vide quel trono su cui vide sedere sei sovrani diversi, e aspettava di vedere il settimo. La struttura era inglobata dal tronco dell'ulivo retrostante, creando una perfetta unione tra natura ed esistenza umana.
«Azzurra, sembri molto assolta dai tuoi pensieri», commentò una voce calma, ma al contempo gelida e ferma. Si rese conto di essere quasi volata addosso alla regina, tanto era persa nell'ammirare quel trono illuminato dalla luce proveniente dalla cupola posta perpendicolarmente all'ulivo.
Incontrò lo sguardo cilestre della bellissima Jenica, accompagnato da lunghi capelli neri e una pelle nivea come la neve appena caduta. Rimase imbambolata a contemplare la beltà di quell'essere magico: un elfo.
Le labbra carnose si schiusero in un sorriso abbagliante, sembrò quasi brillare da quanto fosse bello; era ovvio che superava di molto la bellezza della Santa Vergine, però non aveva lo stesso aspetto, simile a una divinità.
«Mi perdoni, sua Maestà», esclamò imbarazzata e si allontanò velocemente.
«Azzurra...» Mormorò la gemella, circondata da aurea negativa. Probabilmente l'avrebbe uccisa se solo avesse potuto.
«Ditemi, Victoria ha intenzione di venire?» Domandò scandendo con chiarezza l'impronunciabile nome.
«Come osa chiamarla per nome?!» Gridò Rosa, l'unica cosa che amava difendere con tutta sé stessa era il rispetto nei confronti della Sacra Vergine.
Azzurra la guardò confusa, poi si accigliò e prese le difese della sorella.
«Mia regina, pensa di avere abbastanza confidenza con la Misericordiosa?» Domandò calma e sicura di sé. Nessuno poteva dubitare del suo coraggio e della sua sicurezza.
Fu un attimo e la regina sembrò priva di potere e insignificante di fronte a due rappresentanti della stirpe reale di Atlantide.
«Perdonate la mia insolenza, non volevo screditare la Protettrice di Roccaverde», ammise Jenica, facendo un umile inchino, scatenando nella fata un immenso compiacimento; un'altra dimostrazione di quanto le fate fossero pericolose.
«Siamo venute a informarla che Sua Misericordia, l'attende alla Sacra dimora per il tè», disse Rosa voltandosi e volando via. Rimase da sola con la regina.
«Non ci sfidi. Ci sono già state guerre contro le fate, sapete cosa andrete in contro», sibilò con gli occhi socchiusi. Jenica alzò lo sguardo supplicante: non era stupida. Il regno non disponeva di zolfo, l'unico elemento a cui erano sensibili le piccole creature. L'unico Regno fornitore era Duhan, tuttavia dubitava fortemente che tra i due sovrani potesse nascere intesa.
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