Le crisi ~ 7
Ottobre 1929
Stavo impazzendo.
Rimanere chiusa tra quelle quattro mura con la frase "Andrai in collegio" che rimbombava nelle orecchie, mi portava a sentirmi in quello stato. Era un continuo ripetersi, quasi come se la mia mente mi stesse imponendo di accettare quella sorte veramente troppo difficile da digerire.
Chiusi gli occhi e deglutii con forza, cercando di ricacciare ogni singolo senso di malessere che sembrava volersi impossessare di me, ma fu tutto vano; ormai ero sempre più tormentata e soffrivo moltissimo per tutto quello che mi stava accadendo.
La mancanza di Jeremiah si faceva sentire sempre di più, al punto che, ormai, da tre giorni continuava a comparirmi in sogno. Erano bellissimi quei piccoli squarci nei quali ancora potevamo stare assieme, tenerci per mano, stringerci forti l'un l'altra e non lasciarci per alcuna ragione al mondo.
Era sempre lì, al lago, ad attendermi con quella camicia sgualcita che amava tanto e che continuava a mettere nonostante la piccola macchia di burro d'arachidi rimasta lì a dispetto dei mille lavaggi. Era un minuscolo dettaglio del quale ridevamo spesso perché non faceva altro che sottolineare il suo essere talmente goloso da riempire così tanto un panino, senza preoccuparsi che qualcosa sarebbe potuto fuoriuscire dai bordi.
Mi sorrideva ogni volta e mi baciava come se fosse l'unica cosa che desiderava per star bene, perché effettivamente così funzionava la nostra storia: io e lui ci bastavamo e non avevamo bisogno di altro per sentirci completi.
In quel momento, percepii crescermi dentro ancor di più quel bisogno di dirgli che lo amavo. Desideravo così tanto fargli quella confessione perché ero praticamente certa che anche lui provasse quel sentimento.
Tutte le volte nelle quali eravamo assieme, la sintonia tra di noi era talmente forte da farmi credere di essere un tutt'uno con lui. Ogni battito, azione o respiro risuonava con una cadenza talmente pari alla mia, quasi da farmi paura. Ricordai di come eravamo sempre capaci di comprenderci con un solo sguardo, di quando ogni singola parola era superflua perché bastava un tocco e ogni nostra sensazione veniva colta dall'altro.
Soffrivo terribilmente e impazzivo all'idea di non poterlo stringere ancora una volta. Socchiusi gli occhi e ripensai all'ultimo ricordo che potevo conservare di lui, ovvero a quel turbinio di emozioni provato a casa sua, risalente al momento in cui ci eravamo avvicinati più che mai. Avevamo compiuto dei passi in avanti quel giorno e, nonostante l'imbarazzo che ancora scuoteva il mio corpo, capii che era ciò che ci serviva per poterci sentire uniti più che mai.
La gioia di quel ricordo venne improvvisamente soppiantata dalla morsa che mi strinse il cuore. In una frazione di secondo mi ritrovai a racchiudermi in posizione fetale, quasi come se con quel gesto potessi incamerare tutto il dolore che aveva appena fatto breccia nel mio petto.
"Basta, per favore" sussurrai, perché ero stanca di come tutti i miei momenti felici venissero sempre sostituiti dal dolore. Volevo smetterla di star male, di piangere e di sentirmi sola. L'unica cosa che desideravo era la mia vita passata.
Qualche lacrima inesorabilmente spuntò fuori dai miei occhi e scese lungo la guancia, ma mi costrinsi a resistere. Non potevo permettermi di ricadere in un nuovo pianto esagerato, per cui, con tutta la forza che sentivo di avere, alzai il busto dal materasso e mi girai in modo tale che i piedi potessero toccare il pavimento.
Mi feci coraggio e, come ogni volta, chinai la testa per poterli guardare. Nel fare quel gesto, mi ritrovai a far scorrere lo sguardo sul mio busto e sulle mie gambe. Ormai erano passate quasi tre settimane da quando mio padre aveva scoperto dell'esistenza dei quadri e sembrava che il mio corpo fosse stato anch'esso colpito da quel male. Mi rendevo sempre più conto di aver perso un po' di peso, perché la voglia di mangiare svaniva man mano che il tempo scorreva e quel viso rotondo che tanto mi caratterizzava aveva cominciato a perdere un po' della sua forma.
Feci scorrere i palmi delle mani su quelle fragili cosce e poi li poggiai sul letto, con l'intento di sollevarmi e costringermi a compiere dei forzati passi verso il bagno. Li sentivo pesanti, come se stessi sollevando una carcassa dal suolo ed era davvero ironico visto che stavo diventando leggera come una piuma.
Appena raggiunsi la porta, la chiusi alle spalle, girando anche la chiave nella toppa e mi diressi verso il lavabo.
Non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio perché sapevo già quale sarebbe stata la tetra immagine riflessa: una ragazza dai capelli spenti, lo sguardo cupo e quegli occhi brillanti ormai scomparsi, dei quali non rimaneva altro che una pozza scura contornata da pesanti occhiaie.
Per evitare di avere la conferma di ciò, aprii il rubinetto con la testa china e giungendo tra loro le mani creai una sorta di contenitore, pronto a riempirsi d'acqua e consentirmi così di rinfrescarmi, nel vano tentativo di assumere una parvenza di vitalità in più. Ormai la tristezza scorreva talmente tanto nelle mie vene, che pure le azioni abituali avevano smesso di essere tali. Ogni mattina, ad esempio, fino a qualche settimana fa, ero solita pizzicarmi le guance per dare al mio viso quel tocco di colore che tanto mi piaceva veder spiccare sul tono cereo.
In quegli attimi, però, non avevo nessuno stimolo che mi spingesse a farlo e l'unico modo per far sì che il mio volto mantenesse un aspetto sano, era quello di gettargli addosso acqua fredda. Oltretutto speravo che, in qualche modo, potesse svegliarmi: una bella doccia gelata utile per realizzare come tutto ciò fosse solo un brutto sogno.
Inspirai profondamente e, una volta raccolta l'acqua a sufficienza, dissi con una voce flebile: "Fa che sia tutto un sogno, ti prego". Mi buttai l'acqua sul volto e, tenendo gli occhi chiusi, allungai la mano verso l'asciugamano.
Dopo averlo fatto scorrere sulla mia faccia per togliere le goccioline che la imperlavano, mi feci coraggio e finalmente mi guardai allo specchio. Ovviamente ero sempre lì: spenta, fragile e consapevole che quella era la realtà.
Appesi il panno al gancio attaccato al muro e, rassegnata, andai ad aprire la porta, pronta a tornare nuovamente nella mia stanza. Imboccai il corridoio, con la testa puntata verso il pavimento, ma la alzai di scatto non appena sentii qualcuno bussare all'ingresso.
Il mio cuore improvvisamente iniziò a battere a un ritmo accelerato e con una forza che non sapevo di possedere compii dei veloci passi fino alle scale. Raggiunsi il primo gradino e, tenendomi salda al corrimano, mi sporsi in modo tale da avere lo sguardo puntato sulla porta, così da poter comprendere chi era venuto a farci visita.
Di mamma e di papà non c'era alcuna traccia, ma alla porta continuavano a bussare e la mia curiosità aumentava ogni istante di più. Scesi il primo gradino e guardai giù, verso il corridoio, sperando di poter scorgere in qualche modo i miei mentre uscivano dalle loro stanze per andare a vedere chi fosse. Purtroppo da quel punto la visuale verso la cucina o lo studio non era affatto buona, perciò decisi di fare altri passi giungendo così a metà scalinata.
Mi affacciai ancora, ma nessuno sbucava fuori per andare ad aprire, così gridai: "Bussano alla porta!". Rimasi ferma, in attesa di percepire un rumore qualsiasi, ma nessun suono giunse alle mie orecchie, se non i colpi che, con cadenza regolare, venivano perpetrati all'ingresso.
Decisi, con non poca esitazione, di andare a vedere chi stesse insistendo in quel modo. Percorsi gli ultimi gradini, sfregandomi le mani prima tra di loro e poi lungo il vestito che indossavo. Il mio aspetto non era sicuramente adatto ad accogliere qualcuno, ma in qualche momento sembrava quasi come se non mi importasse, talmente ero attirata da quell'evento così semplice.
Non capivo come mai mi sentissi in quel modo. In molti si presentavano a casa nostra, però il mio corpo, in quel frangente, percepiva qualcosa di diverso e il bisogno di girare quella maniglia era sempre più forte.
Giunta lì davanti, voltai la testa verso il corridoio così da assicurarmi se i miei genitori fossero o meno nei paraggi. Nell'attimo in cui mi sporsi un po' per verificare con attenzione, la persona dall'altra parte della porta smise di bussare e mi parve udire un rumore di passi sulle travi del portico. Per non rischiare che scappasse, afferrai la maniglia e la girai in fretta, spalancando così la porta e facendo entrare una potente folata d'aria.
"Ellen!" esclamai appena riconobbi la chioma biondo cenere della mia amica. Senza proferire alcuna parola, lei mi si scagliò addosso e mi strinse in un forte abbraccio. Avvolgendomi chinò la testa in modo tale che poggiasse sulla mia spalla e cominciò a singhiozzare.
"Che succede?" domandai, stringendola più forte come per trasmetterle vicinanza.
"Dove sei stata tutto questo tempo, Daisy?" replicò lei, ma io, in risposta, tacqui. Non sapevo dove fossero i miei e rivelare qualcosa era troppo rischioso in quel momento, perciò decisi di aspettare che lei continuasse, svelandomi il motivo di quella sua visita.
"Mi sei mancata così tanto" esordì, allontanandosi da me, con il volto rigato da lacrime. Interruppi la corsa di una e dissi: "Anche tu, non sai quanto".
"Daisy, sono qui per dirti una cosa..." iniziò, calando la voce man mano che giungeva alla fine della frase. L'ultima parola la pronunciò con una tonalità talmente bassa da non farmela quasi percepire.
Stavo per chiederle di proseguire, ma dei passi alle mie spalle mi bloccarono. Mi voltai di scatto e vidi, dietro di me, mia madre e mio padre, l'uno accanto all'altra.
Non trapelava alcuna emozione dai loro sguardi seri, perciò cominciai a domandarmi se fossi nei guai per essere andata a vedere chi stesse bussando alla porta. Decisi di mettere da parte quel timore, almeno per il momento, e osservai mia madre cambiare espressione, sorridere e dire: "Ciao, Ellen. Come mai sei qui, cara?".
"Salve, signori Sullivan" rispose lei con voce flebile. La scrutai con attenzione, cercando di capire cosa stesse succedendo e cosa ne fosse stato di quell'amica energica ed esuberante che conoscevo.
"Sono qui perché..." iniziò e poi si interruppe per passarsi entrambe le mani sul volto. Era quasi come se volesse celare qualsiasi tipo di emozione e anche quello portò a far crescere, dentro di me, un forte senso di preoccupazione.
"Ellen, cosa succede?" chiesi, esortandola a continuare. Quella situazione mi stava facendo agitare e, prima che potessi cominciare a sentirmi male, desideravo solo che lei parlasse.
"Io..." iniziò, per poi scuotere la testa e riprendere con "Lui...".
"Ellen" la ammonii.
"Daisy, mi dispiace. Non volevo darti io questa notizia". Si coprì il volto, per nascondere in qualche modo quei singulti che avevano iniziato a scuotere tutto il suo corpo.
"È morto..." dichiarò, per poi confermare: "Al... Al è morto".
Non appena pronunciò quelle parole sbattei più volte le palpebre, sbigottita, quasi attendendo le conferma di ciò che le mie orecchie avevano appena udito. Guardando il suo volto pietrificato, compresi di non aver bisogno che ripetesse.
Mi coprii immediatamente la bocca con la mano e indietreggiai di qualche passo, fino ad andare a sbattere contro il corpo di mia madre. Lei mi strinse a sé e, tendendomi salda con una mano, cominciò a far scorrere l'altra sul mio braccio, con un ritmo lento, utile a cercare di rallentare il mio respiro accelerato e il battito galoppante.
"Perché? Quando? Come è successo?" chiesi, enunciando quella serie di domande l'una dietro l'altra e senza interessarmi minimamente del fatto che mio padre potesse scoprire che lo conoscevo; lui era l'ultimo dei miei problemi in quel momento.
"Daisy" disse, oltrepassando l'ingresso e camminando nella mia direzione. Allungò una mano nella mia direzione, ma poi la ritrasse, limitandosi a dire: "Si è ucciso. L'hanno trovato questa mattina impiccato ad una trave del Jazz Band Club".
Una fitta al cuore mi colpii appieno, lacerandomelo in tanti altri piccoli frammenti. Crollai a terra e un verso inumano mi uscii dalla bocca: un misto tra un pianto strozzato e un grido di rabbia.
"Perché?" domandai tremolante, mentre una cascata di lacrime scendeva copiosa dal mio volto. In quel momento lo rivedevo nella mia testa, mentre eravamo al locale o a casa sua. Era sempre stato un uomo così felice, a dispetto di tutto.
Pensai anche a Jeremiah e Charlie, immaginai come si sarebbero potuti sentire e desiderai solo di poterli abbracciare e confortare. Perché aveva fatto quel gesto?
"Ha perso tutti i suoi averi. Non aveva più niente".
E in quel momento capii: si era avverata la sorte che mio padre e i suoi colleghi avevano predetto. Al era morto e quelle piccole briciole di forza rimaste in me abbandonarono definitivamente il mio corpo, lasciandomi afferrare dal ciclone del dolore.
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