Le crisi ~ 6
In un primo istante non seppi cosa rispondere, ma fortunatamente riuscii a farmi venire in mente una scusa in fretta: "Avevo sentito delle voci provenire dal salotto e, allora, prima di scendere ho preferito darmi una sistemata".
Conclusi quella frase, lisciando il vestito e, subito dopo, aprii le braccia, come a mostrarle che ero pronta per apparire in ordine dinanzi agli ospiti.
"Daisy..." cominciò lei, lasciando per un attimo quella frase in sospeso. "Dimmi la verità, per favore".
"Non sto mentendo" dissi, riflettendo sul fatto che avevo appena detto un'altra menzogna. Mi chiesi come avesse fatto a capirlo, ma la preoccupazione lasciò, all'istante, lo spazio a un piccolo calore che si irradiava nel mio petto. Mi resi conto del fatto che mi aveva compresa, come sempre, senza alcun bisogno di parole.
"Piccola mia" iniziò, scostandomi una ciocca di capelli dal volto, "cosa stavi facendo?".
In quel frangente mi venne naturale deglutire con forza, come se potessi zittire così tutto quel vortice di emozioni che si stava impossessando di me. Avevo voglia di confidarle tutto, ma non sapevo se farlo, sarebbe stata una scelta saggia. Era cambiata negli ultimi giorni e temevo che una mia rivelazione non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
La confusione riempiva la mia mente, alternandosi a quella continua indecisione. Ciò mi fece crollare sul letto e mi spinse a coprirmi il capo con le mani. Volevo evitare che potesse vedere il mio stato, perché avrebbe capito che qualcosa non andava, ma il mio corpo non riuscì a reggere la sfida: lacrime cominciarono a sgorgarmi dagli occhi.
Strinsi forte i palmi sul volto, come se con quel gesto potessi ricacciarle dentro, o almeno non farmi sentire, trattenendo i ripetuti singulti.
Lei si avvicinò e, accarezzandomi la testa, mi sussurrò di stare tranquilla e che assieme avremmo trovato il modo per superare quel momento. Le sue parole mi confortarono così tanto e mi portarono a sentirmi, per un attimo, meno sola.
Qualcuno era con me lì, ad ascoltarmi e darmi sostegno.
Fu a seguito di quella realizzazione che le parole mi uscirono spontanee e, per la prima volta, dopo tanto tempo, non mi pentii di ciò che dichiarai.
"Perché non mi sei stata accanto in questi giorni, mamma?".
Quando le posi quella domanda, dal suo sguardo trapelò un senso di colpa talmente evidente che quasi mi fece male. Al tempo stesso, però, mi sembrò quasi come se il mio cuore stesse tornando a ricomporsi, accogliendo quel pezzo che, per un attimo, temevo di aver perso, ma che in realtà non mi aveva mai abbandonata. "Avevo bisogno di te" le dissi, con una voce flebile, cercando di farle capire quanto mi fosse mancata la sua presenza costante.
"Volevo che riflettessi sulla tua mancanza. Probabilmente hai ragione e ho sbagliato a non starti accanto, ma l'averti ripetuto più volte cosa avresti dovuto fare e il fatto di non essere mai stata ascoltata, mi ha spinta a desiderare che tu capissi il tuo errore" rispose, passandomi una mano sulla schiena e consentendomi di appoggiarmi a lei. Volevo un contatto che mi infondesse protezione, desideravo poter udire il battito del suo cuore e sentirmi così parte di lei, da non aver più timori.
"L'ho capito" dichiarai, per poi ribadirlo poco dopo: "Ho compreso talmente tanto di aver sbagliato che, ora come ora, vorrei poter tornare indietro e cambiare le cose" affermai, guardandola negli occhi, mentre sentivo i miei bagnarsi di ulteriori lacrime, che minacciavano di spuntare fuori da un momento all'altro.
Ero così stanca di quella situazione e mi mancava talmente tanto la mia vita passata, al punto di arrivare ad aggrapparmi a ogni briciolo di speranza che mi avrebbe consentito di poterla riavere indietro.
"Risolveremo tutto, tesoro. Te lo prometto" affermò, carezzandomi un'altra volta la testa e cercando di tranquillizzarmi ancora, così come solo lei era in grado di fare.
Restammo in silenzio per qualche secondo, in attesa che io mi calmassi e fu lei, con un tono di voce molto dolce, a esordire per prima: "Ora dimmi cosa stavi facendo". Mi diede un bacio sulla fronte, come se mi stesse chiedendo di fidarmi di lei, e allora io mi lasciai andare.
Per molto tempo mi ascoltò in silenzio, mentre io procedevo a raccontarle chi fosse Al, quello che avevo sentito dire da papà e dai suoi amici e quale fosse il rischio che volevo evitare.
Lei non proferì parola per tutta la durata del discorso e, non appena lo terminai, attesi. Avevo uno sguardo colmo di aspettativa, pari a quella di coloro che si rivelano con il desiderio che altri possano dar loro una mano. Era ciò di cui avevo bisogno e pregai con tutta me stessa che lei potesse essermi d'aiuto.
"Li ho sentiti anche io parlare molto animatamente prima e se questo Al, di cui mi parli, ha davvero investito tutto quello che aveva, dovresti proprio dirglielo" affermò.
"Sì, ma come faccio? Papà non mi fa uscire di casa. È già tanto che io riesca anche solo ad avvicinarmi alla finestra" risposi, sperando dentro di me che lei stessa potesse suggerirmi di fuggire.
"Potresti provare a parlargli, tesoro" iniziò, fermandosi solo per spostarmi la solita ciocca di capelli dal volto. "Se gli riveli tutto quanto, è probabile che lui ti capisca e ti conceda di andare ad avvisarlo".
L'ingenuità di quelle sue parole mi stupì e mi chiesi che cosa sapesse lei di ciò che era avvenuto qualche giorno prima nella mia camera. Papà non aveva capito e mai l'avrebbe fatto, quello era poco ma sicuro.
Era stato categorico: non avrei dovuto più rivedere nessuno di loro. Un discorso nel quale gli avrei confidato i rischi che correva Al, annettendo l'aver origliato una sua conversazione privata, certamente non lo avrebbe intenerito.
"Non capirebbe mai" mi limitai a dire. Purtroppo non avevo alcuna voglia di spingerla a schierarsi con me o con lui, perciò non aggiunsi nient'altro che avrebbe potuto giovare alla mia causa.
"Sono convinta che non rimarrai chiusa in questa casa a lungo. Dagli prova di aver capito e vedrai che potrai uscire, così da dirglielo" affermò, per poi sollevarsi dal letto. La conversazione era conclusa, ma io non avevo sentito ciò che avrei voluto e le mie parole sembravano essersi bloccate in gola, impedendomi di convincerla a cercare un'altra soluzione.
"Torno giù in cucina, Daisy. Cerca di stare tranquilla e attendi qualche giorno. Tutto si risolverà, te lo prometto" aggiunse, passandomi una mano sullo zigomo e scendendo fino al mento.
Non risposi e mi limitai a guardarla mentre oltrepassava la porta e svoltava l'angolo. Appena udii i suoi passi, scendere pian piano le scale, sussurrai un flebile "Mi dispiace".
Sollevandomi dal letto, mi lisciai il vestito e indossai anche una giacchetta per coprirmi dal vento autunnale che, ormai, aveva prepotentemente cominciato a invadere le strade della Contea. A passo felpato scesi i gradini cercando di evitare che scricchiolassero ad ogni mio tocco e, una volta raggiunta la base, imboccai il corridoio nella direzione opposta a quella dell'entrata.
Mi intrufolai nel bagno, con un senso di agitazione, mista ad adrenalina, che scorreva nelle mie vene pulsando velocemente e portandomi ad una temperatura più alta del normale. Chiusi la porta alle mie spalle, girando la chiave nella toppa, e mi poggiai con la schiena sulla liscia superficie di legno.
Tentai di fare dei respiri profondi, così da placare il battito del mio cuore e provare ad alleggerire la tensione, che stava divenendo sempre più alta. Nella mente mi scorrevano le immagini delle possibili conseguenze alle quali sarei potuta andare incontro, a seguito del mio gesto. Pensavo a come mio padre si sarebbe arrabbiato e all'infinità di tempo che avrei dovuto trascorrere nella mia stanza, se solo mi avesse scoperta.
Tutti quei timori, però, venivano soppiantati da quelle voci nella mia testa che mi suggerivano di avvertire Al, o quelle che mi ricordavano che scappando avrei rivisto Jeremiah. La mia metà mi mancava come mai avrei immaginato e solo l'idea di potermi stringere a lui ancora una volta o di rivelargli che lo amavo, mi spingevano a voler intraprendere la strada della fuga più che mai.
Raccolsi l'aria a pieni polmoni, raggiunsi la finestra e la aprii. Mi sporsi fuori per osservare bene la situazione e cercare di comprendere se il percorso che, dal retro, avrei dovuto fare per raggiungere la strada fosse nascosto e sicuro.
Una volta assicuratami di ciò, mi sollevai con entrambe le braccia così da riuscire a sedermi sul davanzale. Raggiunta quella posizione, mi girai completamente e svuotai la mia mente da ogni singola preoccupazione. Non potevo permettermi che prendessero il sopravvento; avevo un solo obiettivo e quella era l'unica occasione per farcela.
Sgusciai fuori dalla finestra e caddi sul prato, ormai più fangoso che ricoperto d'erba. Era cosparso in buona parte dalle foglie cadute dagli alberi e dovetti fare attenzione a calpestarle piano, in modo tale che uno scricchiolio non potesse destare sospetti.
Dubitavo che un simile rumore avrebbe potuto essere la causa dell'eventuale scoperta della mia fuga, ma era sempre meglio fare attenzione per evitare ogni possibile conseguenza. Mi diressi verso il retro della casa, continuando a guardarmi intorno con la speranza che nessuno mi stesse osservando. Non appena raggiunsi la bicicletta rossa, sentii un po' della tensione accumulata, abbandonare il mio corpo.
Pensai che buona parte del lavoro era stato fatto e mi sentii un po' sollevata; in quel momento non mi restava altro che percorrere quel tratto fino alla strada e sarei finalmente riuscita ad andarmene. Afferrai il manubrio e montai in sella, ma appena lo feci mi accorsi di quanto le mie mani fossero sudate e scivolassero sui tubi rivestiti di gomma. Le asciugai sul vestito e cominciai a impormi di rimanere calma, perché mancava talmente poco, che a fermare la mia corsa non sarebbero dovute essere le mie emozioni incontrollate.
Ripresi il manubrio tra le mani, poggiai il piede sul pedale e, dandomi una leggera spinta, partii alla volta della strada. Corsi a più non posso, con la speranza che la fretta mi avrebbe consentito di oltrepassare la casa senza essere vista. Con un moto forsennato, proseguivo nella mia volata, presa dall'adrenalina che era tornata a circolare nelle mie vene.
Era la prima volta che così tante emozioni si alternavano dentro di me, che mi sentii quasi frastornata per i repentini cambiamenti.
Quando superai la dimora, svoltai l'angolo per proseguire lungo il vialetto che mi avrebbe condotta nella strada principale, ma la mia fuga fu interrotta all'istante. Davanti all'ingresso c'era chi non avrebbe dovuto esserci: mio padre.
Era lì a salutare Walter e l'altro signore. Nel momento in cui mi vide, scorsi sul suo volto un'espressione colma di rabbia e delusione, ma la mascherò subito nell'istante in cui Walter mi salutò ed esclamò: "Daisy, dove scappi? Vieni qui e fatti salutare".
Bloccata, decisi di comportarmi normalmente, ma non appena scesi dalla bicicletta e la poggiai a terra, mi accorsi di quanto le mie mani stessero tremando. Sentivo lo spavento insinuarsi dentro di me e l'unica cosa che riuscii a fare per mascherarlo era tenere lo sguardo verso il basso, anche perché ero incapace di guardare mio padre negli occhi, spaventata di ciò che sarebbe accaduto una volta che se ne fossero andati.
Appena li raggiunsi, papà esibì il più finto dei sorrisi e guardando l'uomo disse: "Clint, ti presento mia figlia Daisy".
"Buongiorno" mi limitai a sussurrare, mentre con le dita sfregavo nervosamente la manica della giacca che avevo addosso. In quel momento mi accorsi che il signore barbuto al quale ero appena stata presentata aveva detto qualcosa, ma io non riuscii a percepire alcuna parola. L'unico suono che ero in grado di cogliere era quello del battito forsennato del mio cuore. Galoppava svelto e rimbombava ovunque come se il mio corpo fosse divenuto un involucro vuoto, nel quale quella potente pompa poteva mostrare tutta la sua forza, echeggiando ripetutamente e invadendo ogni spazio vacuo.
Risuonava nelle mie vene, nella mia testa, nel mio petto ed era talmente invasivo da coprire qualunque altro rumore. Mi sentivo così inglobata all'interno di quella bolla, che mi assalì, ancor di più, un senso di preoccupazione.
Sollevai la testa, con gli occhi spalancati, e mi accorsi che ero in grado di vedere le loro bocche muoversi, ma quella agitazione si era talmente impossessata di me, da non permettermi di udire altro, se non il suono della mia paura. Quando mio padre mi poggiò la mano sulla spalla, come se tentasse di risvegliarmi da uno stato di trance, sobbalzai all'indietro.
Percepii il mio respiro farsi più forte e veloce. L'aria fuoriusciva dalle mie narici così in fretta, da farle allargare e restringere in un modo quasi innaturale. Lo guardai negli occhi e, finalmente, riuscii a sentire le sue parole. "Daisy, rientra a casa e vai in camera. Saluto Clint e Walter, poi ti raggiungo".
Mi limitai ad annuire e deglutii con forza. Aprii la bocca e pronunciai un semplice "Arrivederci", per poi girarmi e correre verso la mia stanza. Superai le varie porte alla svelta e mi domandai come le mie gambe, così tremolanti, fossero riuscite a reggere una tale corsa. Fu, però, l'arrivo dinanzi al mio letto, e il seguente crollo, a farmi ritrarre quella questione. Avevo avuto il calo lì dove avrei dovuto essere e quando toccai il materasso un vorticoso insieme di pensieri cominciò a permeare nella mia mente.
In quel momento ebbi paura, perché avevo sbagliato ancora e non sapevo cosa aspettarmi. Cominciai a pensare a Jeremiah, ad Al e di nuovo a tutti i miei quadri, che non sapevo quale fine avessero fatto.
Cosa sto combinando? pensai, ma i miei discorsi interiori vennero interrotti dal suo ingresso nella stanza. Seduta sul letto, mi spinsi ancor più verso il cuscino, come a frapporre altra distanza tra me e lui.
"Sei scappata!" esclamò come se stesse ancora realizzando quello che avevo fatto. Prima che potessi aggiungere qualcosa, disse: "La tua insubordinazione mi lascia sempre più interdetto, Daisy".
Chinai la testa perché aveva ragione e contraddirlo o scusarmi sarebbe stato alquanto stupido. Non facevo altro che compiere errori su errori, peggiorando solo la situazione.
"Evidentemente ho sbagliato qualcosa con te e un'educazione come quella che ti ho dato non è sufficiente per ragazzine così disobbedienti". Fece una breve pausa e poi emise una delle peggiori sentenze che mai avrebbe potuto dare, portandomi a desiderare che la bolla di agitazione tornasse a coprirmi, impedendomi di sentire quelle semplici parole: "Andrai in collegio. Questo è quanto".
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top