Le crisi ~ 5
Ottobre 1929
Resistere sembrava l'unica soluzione, in quelle giornate ormai sempre più difficili.
Il sole continuava a sorgere e a tramontare senza che io riuscissi a concludere qualcosa e ogni giorno si rivelava più monotono del precedente. Ormai svolgevo sempre le stesse attività: ciondolare per i corridoi, immersa nei miei pensieri, e aiutare nelle faccende domestiche.
Non avevo nient'altro che potesse aiutarmi a occupare quelle mattinate, così noiose e ripetitive, e nemmeno mia mamma era in grado di aiutarmi, di tenermi compagnia o di offrirmi quel conforto di cui necessitavo più che mai.
L'avevo sempre considerata una mia amica ma, in quel momento, sembrava come se tra di noi si fosse posta una linea separatoria, una barriera invalicabile che non ci consentiva di tornare ad essere un tutt'uno come un tempo.
Non capivo se la causa fosse l'influsso che mio padre aveva esercitato sulle sue decisioni, o se si trattasse di semplice delusione, cosa che da un lato speravo. In quel secondo caso, d'altronde, non avrei potuto darle torto: molto spesso mi aveva chiesto di rivelare a mio padre cosa stesse accadendo nella mia vita e quanto importante, per me, fosse Jeremiah. Sebbene io le avessi sempre promesso che lo avrei fatto, alla fine non ero mai riuscita a trovare il coraggio per tener fede a quell'accordo.
Anche lei non era più presente nella mia vita come prima e ciò mi distruggeva, perché sembrava che pian piano, dal mio petto, piccoli frammenti si stessero staccando, cadendo precipitosamente a terra. Mi stavano abbandonando, uno dopo l'altro, e non riuscivo a trovare il modo per riempire quel vuoto che lasciavano.
Più e più volte mi ero ritrovata a pensare a quanto mi sarebbe piaciuto poter tornare indietro nel tempo e cambiare le cose, ma la vita non concedeva seconde occasioni. Purtroppo, però, il prezzo che stavo pagando era troppo oneroso per me e saldare il debito costava più di quanto potessi immaginare.
Passavo ore distesa supina sul letto, continuando a guardare la solita macchia che spiccava sul bianco soffitto. Era lì, per me, quando i pensieri mi si accavallavano nella mente e dovevo calmarmi cercando di ordinarli.
In quelle autunnali giornate, era rimasta la mia unica compagna e confidente.
La salutavo ogni volta che i fastidiosi raggi del sole penetravano dalla finestra, poi la osservavo e fingevo che fosse un'amica alla quale poter confidare i miei più intimi dialoghi interiori.
Non avevo altro modo per esprimere ciò che vivevo e nessuno a cui rivelare ciò che sentivo. C'eravamo io e la macchia, all'interno delle spoglie pareti, senza alcuna via di fuga.
Sporco e disordine non li avevo mai tollerati, sebbene quando dipingessi facessero da padroni per la maggior parte del tempo. La confusione che veniva a crearsi, l'avevo sempre associata a ciò che c'era nella mia testa e che buttavo su tela o carta.
Quando c'era disordine, quindi, significava che mi stavo esprimendo. Per la restante parte del tempo, però, pulizia ed equilibrio dovevano regnare.
Il contrasto tra il mio animo e l'esterno doveva essere netto: l'uragano che investiva il mio essere risiedeva in me stessa o in ciò che creavo, mentre la calma, simboleggiava l'idea che da fuori dovevo dare, o semplicemente quello di cui volevo essere circondata per non vivere in una situazione di perenne caos.
Ad ogni modo, quella macchia era rimasta sempre lì e non riuscivo a contemplare l'idea di rimuoverla o coprirla. La fissavo, nel suo essere frastagliata, e trascorrevo ore intere immersa nei miei pensieri, con la falsa consapevolezza che non stavo sprecando il mio tempo perché in realtà mi stavo confidando con qualcuno.
Anche quella mattinata mi ero svegliata con la noia che mi pervadeva, ma a destarmi fu il grande baccano che proveniva dal piano inferiore. Qualcosa si stava muovendo e la mia indole curiosa prese il sopravvento, facendomi sollevare di scatto dal letto. Un giramento di testa mi accolse, come potevo immaginare, non appena mi alzai e poggiai entrambi i piedi a terra.
Barcollando uscii dalla stanza e non passai neanche a darmi una rinfrescata al bagno, perché il brusio di voci che proveniva dal piano inferiore mi incuriosì a tal punto da rendermi sveglia in un baleno.
Scesi piano le scale, cercando di non farmi sentire da nessuno ed evitando così che potessero interrompersi per la mia presenza. Man mano che mi avvicinavo, mi rendevo conto che, a tuonare l'una contro l'altra, erano possenti voci maschili. Erano forti, ma alcune di loro sembravano colme di panico, tanto da incespicare a tratti nel discorso.
Ne riconobbi tre, tra le quali vi era anche quella di mio padre, che esordì: "Fermi tutti. Adesso fate un attimo di silenzio; dobbiamo cercare di arrivare ad una conclusione alla svelta". Mi poggiai con la schiena sulla parete e l'orecchio diretto verso la porta dell'ingresso del salotto.
Volevo cercare di comprendere quale fosse la causa di così tanta agitazione e perciò feci il minimo rumore possibile, tentando al tempo stesso di non farmi vedere.
"Hai ragione. Harold, fai il punto della situazione e poi cerchiamo di capire come agire" rispose Walter, un caro amico di mio padre, che veniva spesso a cena da noi il fine settimana. Era stato anche lui un abile investitore ed era il proprietario di una delle più importanti fabbriche dell'intera Alabama.
Una sera gli avevo chiesto informazioni su come funzionasse il lavoro, da lui e in tutte le industrie del Paese, ma soprattutto gli domandai come riuscissero a produrre così tanti beni gli uni uguali agli altri. La sua risposta era stata breve: avevano le catene di montaggio.
L'economia americana aveva conosciuto anni di opulenza proprio grazie a esse e alla quantità esorbitante di prodotti che, così, riuscivano a offrire, vendendoli ad un prezzo più basso e rendendoli abbordabili a tutti i possibili acquirenti.
"I prezzi di molte azioni stanno crollando precipitosamente" disse, facendo una pausa. Lo immaginai mentre attendeva un cenno affermativo dai suoi due compagni. "Ci stanno spingendo ad acquistarli, proprio perché sono a un costo così ridotto".
"Dobbiamo assolutamente vendere le quote in nostro possesso" concluse il terzo, di cui non conoscevo il nome. La voce mi sembrava di averla udita qualche volta, ma non riuscivo ad associarla ad alcun volto nella mia mente.
"Concordo! Comprarle ora sarebbe un rischio troppo alto. Avevano annunciato molte volte che l'economia non sarebbe potuta crescere a dismisura, quindi è meglio correre ai ripari immediatamente, evitando così che un crack ci faccia perdere tutto" affermò mio padre. Dal suo tono di voce trapelava talmente tanto spavento, che a me venne naturale chiedermi cosa sarebbe accaduto se non avessero fatto ciò che avevano appena deciso.
Non ne sapevo niente di borse e azioni, se non per i discorsi che c'erano stati con Jeremiah e Al, qualche giorno prima al Jazz Band Club. Fu in quel preciso istante che mi ricordai dell'alterco avvenuto e di come Al insistesse a voler fare ciò che mio padre e i suoi colleghi asserivano di dover evitare: acquistare azioni ormai svendute.
Mi preoccupai all'istante e cominciai a respirare faticosamente per l'ansia delle possibili conseguenze a cui sarebbe potuto andare incontro. Dovevo trovare il modo di avvisare lui o Jeremiah, così da fargli vendere le sue quote, proprio come avrebbe agito mio padre.
Lui era un investitore, un uomo abile con la borsa o con i metodi per guadagnare di più e non perdere nulla. Se traspariva timore dalla sua voce, ciò stava a significare che qualcosa di drammatico sarebbe potuto accadere, quindi dovevo assolutamente trovare il modo per uscire di casa.
Passare per la porta principale sarebbe stato impossibile perché mi avrebbero sicuramente vista e l'unica stanza, al piano terra, dalla quale sarei potuta scappare tramite la finestra, era il bagno. Decisi che sarei evasa così, poi sarei corsa a prendere la mia bicicletta e, una volta raggiunta la strada principale, avrei pedalato verso la casa di Al.
L'idea di tentare di parlare con mio padre mi terrorizzava, specie perché non riuscivo a trovare il coraggio per rivelargli il motivo per il quale dovevo andarmene e cosa, di conseguenza, mi preoccupasse così tanto.
Corsi in fretta verso la mia stanza, come se risparmiare qualche minuto potesse fare la differenza. Indossai un vestito bianco, con alcune rose rosse disegnate e mi pettinai i capelli, cercando di districare i nodi e dargli una parvenza ordinata.
Mentre stavo per accingermi ad attraversare la porta della mia camera, sentii dei passi alle mie spalle. "Cosa stai facendo?" disse mia madre, appoggiata sullo stipite che mi guardava da capo a piedi.
Nota dell'autrice
Questo capitolo è breve perché ho dovuto dividerlo in due parti, data la sua eccessiva lunghezza. Tra qualche giorno pubblicherò il seguito e spero che, nel complesso, possiate apprezzarlo. :)
Approfitto per dirvi che ho dovuto cambiare il nome del bambino del capitolo precedente. Inizialmente avevo scritto Mason, ma non mi ero resa conto del fatto che Mason avrebbe giocato con Jason. *inserire facepalm*
Così ho sostituito il nome con Peter.
Visto che ci sono, vi racconto anche una piccola curiosità. Mi sono resa conto, con la stesura di questo capitolo, che non avevo mai dato un nome al padre di Daisy.
Ho fatto una ricerca su Internet, ho trovato una serie di nomi interessanti e, tra tutti, quello che mi aveva colpito di più era Norman. Il destino ha voluto che io mi rileggessi uno dei miei vecchi capitoli, portandomi così a realizzare che Norman era anche il nome che avevo dato al papà di Jeremiah, così l'ho sostituito con il secondo della lista: Arthur.
Il giorno seguente ho letto che Arthur era il signore con il Cane di Sant'Umberto nell'orfanotrofio, quindi eccoci qui con Harold.
Con la speranza di non aver mai chiamato nessuno Harold, mi congedo e ci rivediamo tra pochissimi giorni con il prossimo capitolo. :')
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