Le crisi ~ 2
«Cosa ti va di fare oggi?» gli domandai passandogli una mano tra i capelli.
«Un'idea ce l'avrei» rispose, avvicinandomi a sé per baciarmi ancora.
«Jeremiah, dai. Sii serio.» Risi e lui mi seguì, poggiando la mano sul mio ginocchio. Avevo le gambe sopra le sue e quel lieve contatto fece propagare un calore per tutto il mio corpo. Non prestava attenzione a quei cerchi che compiva con le mani, come se si trattasse di un'azione involontaria.
Il brivido per il vento, in quel momento, era stato sostituito da vampate, che mi fecero inevitabilmente arrossire.
«Non riesco a resisterti, mi dispiace» affermò ridendo dinanzi al mio volto ancora più rosso per via dell'imbarazzo che quella frase mi aveva provocato. Decise così di continuare a parlare, per aiutarmi. «Non lo so comunque. Potremmo andare un po' al lago, oppure al bar di Ellen o in studio da te. Per me è indifferente, sul serio. Mi basta solo che stiamo assieme» asserì scrollando le spalle.
«Andiamo al lago. Se non ti dispiace vorrei provare a dipingere il salice piangente, poi ovviamente staremo un po' assieme.» Aggiunsi quell'ultima parte, temendo che potesse dargli fastidio l'idea che spendessi un pomeriggio che avrei potuto trascorrere con lui per dipingere.
Ero già a conoscenza della risposta affermativa che mi avrebbe dato, ma preferivo comunque chiedere. Mi sembrava fosse un gesto di buona educazione ed era nella mia natura porre sempre domande simili, per accertarmi del volere dell'altro e assicurarmi che a lui sul serio andasse bene.
«Assolutamente! Ho proprio bisogno di stendermi sull'erba e riposarmi», fece una breve pausa e aggiunse ammiccando, «o guardarti».
«Jeremiah, piantala. Non farlo, lo sai che mi imbarazzo» affermai dandogli una pacca sulla spalla. Mi prese la mano e, dopo averla portata sopra il suo cuore, mi tirò a sé e mi baciò.
«Sul serio non riesci proprio a starmi lontano» lo canzonai e cominciammo a ridere nuovamente. Pensai a quanto fortunata fossi e a come non avrei mai potuto barattare una giornata con Jeremiah per qualunque altra cosa al mondo.
Poggiai la testa sulla sua spalla e mi lasciai abbracciare, ma quella quiete fu improvvisamente interrotta da un fruscio che proveniva dietro di noi. Ci allontanammo in fretta e io mi sedetti composta, sistemandomi al meglio il vestito. A seguire ci voltammo entrambi, cercando di capire da dove provenisse quel rumore, ma soprattutto di cosa di trattasse.
Strizzai gli occhi e scrutai con attenzione tra i cespugli, ma non riuscivo a vedere nessuno. Ad un tratto quel suono si ripeté. Proveniva dal lato destro e osservammo qualcosa, o qualcuno, muoversi tra le foglie, come se si fosse nascosto là dietro.
Jeremiah si alzò. «Stai qui» affermò allungando la mano nella mia direzione e sollevandola come per enfatizzare ciò che aveva appena detto.
«No, vengo a vedere anche io» sussurrai, incamminandomi quatta quatta verso quel punto dal quale continuavano a provenire fruscii.
«Anche se insistessi verresti comunque, giusto?» domandò a bassa voce ruotando gli occhi al cielo e piegando la mano che prima teneva sollevata, in modo tale che io potessi afferrarla.
Mi limitai a fare un cenno affermativo con la testa, e allora insieme ci dirigemmo verso quel punto dal quale proveniva il fruscio. Quando fummo vicini, a quel suono si mischiò un lieve guaito, come se ci fosse qualcuno dolorante. Era sempre più forte, man mano che ci avvicinavamo.
«Ma dici che è una persona?» chiesi a bassa voce anche io nel tentativo di non spaventare nessuno.
«A me sembra un animale, in realtà» sussurrò Jeremiah. Non appena giungemmo davanti al cespuglio, scostammo le foglie e ciò che comparve dinanzi ai nostri occhi fu un piccolo cane dalle orecchie marrone scuro quasi più grandi di tutto il suo corpicino.
Era accucciato, ma notammo subito che la zampetta posteriore destra era messa male. Jeremiah si chinò e lo sollevò, portandoselo al petto. Il cagnolino non si oppose, anzi si lasciò prendere e cullare senza fare resistenza.
«Ciao, piccoletto» gli disse.
Mi avvicinai per accarezzargli la testolina e lui se lo lasciò fare. «Secondo te ha capito che non vogliamo fargli del male?» domandai.
«Probabile. Ma così cucciolo, penso sia portato a fidarsi di chiunque» affermò e dopo si guardò attorno.
«Cosa stai osservando?»
«Guardavo se ce n'erano altri in giro, o se magari c'era la mamma» rispose e appena disse quelle parole mi resi conto di quanto ovvio fosse il tutto. Avrei dovuto pensarci prima, ma ero troppo impegnata a fissare quel piccolo concentrato di dolcezza.
Lo osservai con attenzione e notai subito il contrasto nel suo manto: zampe e muso erano di un marroncino chiaro, mentre la restante parte era molto più scura. Il pelo era corto e decisamente liscio al tatto, quasi come se qualcuno si fosse preso cura di lui sino a quel momento.
«Secondo te ha la zampetta rotta?» domandai scrutandola meglio e fu in quel frangente che mi accorsi che c'era un taglio abbastanza profondo. Feci per avvicinare la mano e lui si dimenò, emettendo un lieve guaito.
Jeremiah, sempre tenendolo in braccio, lo spostò lievemente per osservare quel punto e si accorse anche lui della ferita. «Portiamolo a casa» affermò.
Entrai al Jazz Band Club e mi diressi dietro al bancone. Presi una buona quantità di stracci che Al adoperava per asciugare i bicchieri e, una volta raggiunta la bici, li poggiai all'interno del cestello. Creai una sorta di cuccia e Jeremiah ci posizionò sopra il cagnolino, coprendolo con altri stracci. Temevamo potesse soffrire per le buche della strada visto che ci saremmo mossi in bicicletta e non volevamo correre rischi. Eravamo così impreparati per quanto riguardava gli animali che ci comportavamo con una cura quasi maniacale, tentando di non fare nulla che potesse nuocere alla sua salute.
«Jeremiah, vuoi guidare tu la mia bici?» domandai. Avevo il terrore di poter fare qualcosa di sbagliato e non volevo rischiare che cadesse.
«Sì, certo» rispose e così ci invertimmo. Dovetti abbassare il sellino della sua al minimo, visto che ero decisamente molto più bassa rispetto a lui.
Cominciammo a pedalare e correvamo a una velocità notevole, decisamente maggiore rispetto a tutte le altre volte in cui avevamo fatto dei semplici giri in bicicletta. Non comprendevo il perché di quella fretta, ma mi adeguai alla decisione di Jeremiah e lo seguii in scia. Arrivati all'incrocio che ci avrebbe condotti a casa di Al, lui non svoltò nella sua via, ma proseguì dritto. Fu in quel momento che compresi che si stava dirigendo altrove, probabilmente a casa sua.
Al sol pensiero il mio cuore cominciò a battere forte. Nessuno dei due era stato mai a casa dell'altro e l'idea mi elettrizzava, ma allo stesso tempo intimoriva. Naturalmente l'obiettivo era quello di curare il cane, ma stavo comunque andando nel luogo nel quale viveva. Da sempre ritenevo la camera di qualcuno o la casa, in determinati casi, l'estensione della persona; era quel posto nel quale chiunque poteva esprimersi: colore o neutralità, ordine o disordine, pulizia o sporcizia. La dimora rispecchiava la persona, a mio parere, e vederla mi fece pensare che avrei potuto conoscere ancora meglio Jeremiah, ma la mia mente vagava anche verso l'idea che, rinchiusi tra quelle mura, non ci saremmo dovuti preoccupare di essere visti da qualcuno e, nel momento in cui pensai a ciò, cominciarono a prudermi le mani per l'agitazione.
Avevo il respiro affannoso e la testa cominciò a girarmi. Fu un attimo, non me ne accorsi neanche, ma la bici sbandò e io caddi a terra.
«Daisy!» urlò Jeremiah poco dopo. Probabilmente aveva sentito il tonfo e si era subito interrotto, girandosi e raggiungendomi.
Appena mi fu accanto, mi tese una mano per aiutarmi ad alzarmi, mentre con l'altra manteneva salda la bicicletta in modo tale da non sbilanciarla e rischiare, così, di far cadere il cane. Quando fui in piedi notai subito di essermi sbucciata sia il gomito sia il ginocchio destro e in quell'istante mi premeva sulla lingua un'imprecazione che necessitava di essere sputata fuori.
Mi trattenni e guardai il volto di Jeremiah. «Quanto manca a casa tua?» gli domandai, osservando tutto intorno e ammirando quel quartiere nel quale ero stata molto spesso visto che ci viveva Ellen.
«È proprio quella casa là in fondo, dopo quella gialla» rispose indicando un punto con il dito. Si trattava veramente di un breve tratto e, rimontando in sella alla bici, strizzai gli occhi e mi morsi il labbro inferiore con la speranza di non emettere alcun suono che testimoniasse quando quella ferita mi bruciasse.
Stavamo andando a casa sua per curare il cane e quel mio essere così impacciata e timorosa non fece altro che causare ulteriori danni. In quel momento Jeremiah avrebbe dovuto occuparsi di entrambi e mi dispiacque moltissimo di avergli sobbarcato un altro peso.
Avanzai piano e una volta arrivati davanti alla sua piccola dimora mi diede in braccio il cane e andò a sistemare le nostre bici. Tenevo quel piccoletto tra le mani a coppa, quasi come se potessi creare per lui una cuccia che gli infondesse sicurezza e senso di protezione.
«Ciao, piccolo Red. Ti piace come nome Red?» sussurrai, avvicinando la faccia al suo nasino umido. Non appena lo feci tirò fuori la linguetta e mi diede un bacio sulla guancia.
«Qualcuno ti sta facendo delle avance, Daisy. Mi devo forse preoccupare?» domandò. Un secondo dopo aggiunse: «Vuoi forse sostituirmi?».
Risi di quella battuta e gli dissi: «Mi ha appena conosciuto e già mi bacia. Questo è quello che si definisce amore a prima vista».
«Anche il nostro lo è stato. Dal primo momento in cui ti ho vista ho capito che ti avrei voluta nella mia vita.» Fece quella ammissione in un momento così improvviso, tanto che rimasi spiazzata dinanzi a tutta quella sincerità. Ero consapevole di avergli suscitato un interesse dopo quei primi sguardi che ci eravamo scambiati al Cotton Bar, ma quella confessione mi scaldò il cuore.
Gli sorrisi e Jeremiah mi si avvicinò per darmi un bacio sulla fronte. «Coraggio, entriamo dentro. Dovete essere entrambi medicati.»
Mi poggiò una mano sulla schiena e mi fece avanzare lentamente verso la porta di legno. Non vi era alcun gradino da fare: il vialetto colmo di ghiaia ci indirizzava proprio all'ingresso e appena varcai la soglia sentii il profumo di Jeremiah invadermi le narici.
Quella casa sapeva di lui e guardandomi attorno notai quanto quello stile semplice lo rispecchiasse alla perfezione. I pezzi di mobilio che riempivano la casa erano evidentemente intagliati da mani non del tutto esperte e la mia mente corse subito verso lo sgabello che aveva costruito per me. Immaginai che li avesse fabbricati da solo e non appena misi il cagnolino sul vecchio divano, poggiato alla bianca parete, feci scorrere la mano su quel tavolo dalle linee lievemente ondulate.
«L'hai fatto tu?» domandai mentre con il dito percorrevo i cerchi del legno. Mio padre mi raccontava che quei cerchi rispecchiavano gli anni degli alberi e da piccola era mia abitudine contarli per scoprire a quale età fosse stato tagliato.
Jeremiah si limitò ad annuire e io non aggiunsi altro. «Vai a sederti sul divano e a tenere d'occhio il piccolo cane. Io intanto vado a prendere dell'acqua e delle bende».
Lo ascoltai e mi posizionai accanto a quella palla di pelo che avevo chiamato Red. Non capii come mai la mia mente mi avesse portato a dargli quel nome visto che di rosso non c'era nulla, ma guardandolo pensai che fosse quello a lui più adatto.
«E allora, piccolo Red, fatti vedere un po'» dissi, prendendolo tra le mani e sollevandolo in alto con le zampette posteriori a penzoloni. C'era un bel taglio, ma non era nulla che una fasciatura e tanto amore avrebbero potuto risolvere. Me lo poggiai in grembo e cominciai ad accarezzargli la testolina, mentre lui la piegava per tentare di leccarmi la mano. Ridevo per il solletico che quel gesto mi provocava e per le piccole zampe che zompettavano sopra di me. Alzando la gonna notai che la sbucciatura sul mio ginocchio era veramente superficiale, così come quella sul gomito e tirai un sospiro di sollievo perché al sol pensiero di essermi fatta molto male temetti che mio padre mi avrebbe potuto sequestrare la bicicletta.
Chinai la testa all'indietro e mi fermai a osservare il soffitto. Non c'erano macchie e le pareti splendevano, proprio come se fossero state tinteggiate di recente. Era un vero peccato che la finestra fosse così piccola, visto che in caso contrario avrebbe potuto rendere la casa decisamente più luminosa.
Jeremiah arrivò dopo qualche minuto, forse anche troppi, e si chinò di fronte al divano, con uno straccio umido in una mano e una benda nell'altra. «Dove hai preso quella benda?» domandai osservandola per bene, aveva un non so che di familiare.
«Una mia maglietta» ammise.
«Potevi prendere gli stracci nel cestello della bici!» esclamai, dispiaciuta e arrabbiata per il fatto che avesse strappato un pezzo della sua maglia.
«Avrei potuto, se solo non fossero stati pieni di pipì».
Dopo quella frase spalancai gli occhi e mi voltai verso il cane. «Red» mi limitai a dire cantilenando.
«Red?» domandò Jeremiah con un'espressione accigliata.
«Non ti piace? Secondo me ha il musetto da Red.»
Lo vidi osservare il cane, quasi come se mentalmente stesse cercando di associare il nome a lui. Dopo qualche istante, il piccoletto che nonostante la zampetta ferita sembrava incapace di stare fermo si incamminò verso Jeremiah, permettendogli di guardarlo dritto in volto.
«Io lo chiamerei Ford, come le macchine. Red non mi sembra adatto a lui. Insomma, guardalo» disse indicandolo, per poi aggiungere: «È tutto marrone».
«Lo so che è tutto marrone, ma lo sai bene che io associo a tutto un colore e lui mi richiama tanto il rosso. Non so nello specifico come mai, ma gli si addice. Perché dovresti chiamarlo come una macchina?» chiesi, incapace di comprendere perché volesse dargli quel nome.
«Perché non avrò mai i soldi a sufficienza per potermi permettere una macchina, quindi poter chiamare il cane Ford mi illuderebbe di averla». Rise dopo aver detto quella frase e si grattò il mento, dal qualche spuntava un lieve accenno di barba.
«Ti prego, dimmi che non hai detto quello che ho appena sentito» ammisi, mettendomi una mano dinanzi alla faccia per coprire una risata e l'espressione di incredulità.
«Hai sentito più che bene» rispose esibendo tutti i denti.
«E se lo chiamassimo Redford?» domandò con un tono di voce che faceva presupporre una forte emozione. Guardandolo in volto vidi il suo sguardo illuminarsi e un ampio sorriso invadergli la faccia.
Cominciai a ripetere quel nome più e più volte e dopo aver spostato la mia attenzione su quel cane, non potei non annuire. «Redford. È perfetto.»
Curiosità
Ho sempre sognato di chiamare un cane Redford e non potevo non usare questo nome nella storia.
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