Le crisi ~ 1


Ottobre 1929

Immobile.

Fissavo, ferma, quella macchiolina nera che contrastava con il soffitto bianco candido. Stava lì, con il suo contorno poco definito, così piccola che non l'avrei neanche notata se non mi fossi messa supina a cercare un punto sul quale concentrare la mia attenzione.

Tentavo di trovare la forza di alzarmi dal letto, ma i mille pensieri che mi scorrevano nella mente mi attanagliavano costringendomi a fermarmi, a fermarli.

Ronzavano nella mia testa e, scontrandosi tra loro, creavano un brusio senza eguali. Volevo farli tacere, ma non riuscivo a domarli.

Mi bloccai, di conseguenza, e cominciai a osservare il vuoto dinanzi a me. Inizialmente presi a guardare il nulla, senza prestare attenzione a un dettaglio specifico. Speravo solo di riuscire a mettermi comoda, rilassarmi e far sì che si mettessero in fila indiana e si presentassero diligentemente uno alla volta.

Li avrei affrontati, dovevo farlo, ma avevo bisogno che loro collaborassero con me. Avevo sempre odiato la confusione e le situazioni fuori controllo, quindi quando qualcosa non andava secondo i piani l'unica cosa che mi restava era non farmi prendere dal panico e tentare di trovare una soluzione.

Il primo pensiero che affiorò era quello che sapevo mi tormentava maggiormente: l'esprimermi. Era arrivato per primo e riuscivo solamente a pensare che dopo aver affrontato quello, il resto sarebbe stato una passeggiata.

Quella parola significava tutto e niente. Ero brava a esprimermi, quello era poco ma sicuro. Ciò che mi turbava era il fatto che non fossi in grado di farlo con le parole.

Con in mano un pennello o una matita e dinanzi a me una superficie completamente pulita sarei stata in grado di svuotarmi, di liberarmi da qualunque tormento e riportare tutto ciò che sentivo o provavo. Il problema era: se qualcuno non capisce la mia arte, come può comprendere ciò che sento?

E se qualcuno è all'oscuro dei miei quadri, come può conoscere ciò che accade lontano dai suoi occhi?

Jeremiah e io uscivamo ormai da molti mesi, ma ancora non eravamo stati in grado di fare quel passo in più e dichiarare cosa provavamo l'uno per l'altra. Ad un certo punto pensai che non fosse necessario, perché ritenevo il tutto evidente e quindi una conferma verbale sarebbe stata inutile. Poi, però, cominciavo a credere che forse per lui quella certezza non ci fosse e quindi mi domandavo quali potessero essere le parole giuste per intavolare la discussione e dichiarargli quello che provavo.

E poi c'era mio padre... Erano passati mesi e io non avevo ancora trovato le forze per presentargli Jeremiah. Sentivo che non lo avrebbe approvato e odiavo ammetterlo, però il non dirglielo era un modo per continuare a vivere la mia vita senza sentirmi alcuna costrizione addosso.

Dopo averglielo rivelato sicuramente sarei stata sottoposta a qualunque tipo di restrizione con il tentativo di tutelarmi e ciò non era quello che volevo. Nessuno in città ne aveva fatto parola con lui e quello mi rassicurava, ma al tempo stesso mi faceva capire quanto gli abitanti della Contea fossero intimoriti da lui o disinteressati alla nostra famiglia, cosa che con le altre accadeva assai di rado.

Dovevo esprimermi, dire quanto sentivo a Jeremiah e presentarlo a mio padre.

Dovevo farlo, il problema era quello di cercare di comprendere quale sarebbe stato il modo migliore.

Continuai a fissare la macchia, quasi con la speranza che quella mi desse una risposta. Era stata una valida aiutante nel riordinare i pensieri e sperai che anche in quell'occasione potesse darmi una mano.

Nessuna idea, però, arrivò.

Pensai che sarei potuta andare a trovare Ellen, ma poi accantonai quel capriccio riflettendo sul fatto che era arrivato il momento di prendere ancora più in mano le redini della mia vita e trovare una soluzione da sola.

Mi sollevai dal letto distogliendo pian piano l'attenzione sulla macchia e andai ad aprire la finestra. Nonostante l'autunno appena iniziato, il clima continuava a essere caldo e gli alberi non davano accenno di voler iniziare a cambiare colore e di prepararsi all'inverno.

Dopo essermi stiracchiata decisi di prepararmi per andare a trovare Jeremiah. Il modo migliore per dichiarargli ciò che provavo era avendolo davanti, fare congetture lontana da lui non mi avrebbe portata a niente.

Mi vestii, feci colazione e presi subito la bici. Sapevo che Jeremiah in quel momento si trovava al Jazz Band Club, in quanto era intento ad aiutare Al nel terminare i lavori di ristrutturazione e miglioramento del locale.

Pedalavo lungo le strade ciottolate, con il vento che mi solleticava il viso e mi portava indietro i capelli lasciandomelo scoperto. Percepivo il suo tocco leggiadro, che lento si posava sulla mia pelle.

Procedevo con calma, lasciandomi cullare dalla beatitudine che mi circondava. La gonna ogni tanto si sollevava un po' permettendo di scoprire un altro lembo di pelle, talmente pallido per la mancanza di esposizione al sole.

Raggiunsi nell'arco di breve tempo il bar e mi diressi, dopo aver parcheggiato la bici, subito sul retro, consapevole che avrei trovato lì Jeremiah, Al e probabilmente anche Charlie.

Come il vento seguivo la traiettoria libera e aggiravo ciò che intralciava il mio cammino, scavalcavo gli ostacoli e ruotavo attorno alle persone e a quelle ultime pile di materiali accatastati.

"Raggio di sole!" gridò Jeremiah.

Appena voltai la testa, mi accorsi che stava venendo nella mia direzione. Quando mi raggiunse mi abbracciò e, sollevandomi da terra, mi fece arretrare di qualche passo, in modo tale da portarmi in uno spazio buio lontano da occhi indiscreti.

Posò immediatamente le sue calde labbra sulle mie. Io, in risposta, chiusi gli occhi e mugolai non appena la sua lingua mi dischiuse le labbra.

Lui mi prese il volto fra le mani e fece scorrere il pollice sulla mia guancia accaldata. Era una carezza lieve, ma vigorosa al tempo stesso.

Mi lasciai trasportare e riflettei su quanto sarebbe stato bello continuare così per ore, in quel luogo che in quel momento era solo nostro. Con tutta la forza di volontà che riuscii a recuperare, però, mi staccai da lui e l'unica cosa che riuscii a dire fu: «Ciao».

Afferrandomi la mano, mi portò fuori da quel piccolo angolo buio e quando fummo alla luce gli sorrisi. Guardandolo notai che aveva il viso arrossato e non potei non sollevare ulteriormente gli angoli della bocca.

Andammo da Al e Charlie, ma non li salutai ad alta voce perché il primo era intento a impartire ordini su una nuova cornice da posizionare in mezzo a tutte quelle che già adornavano la parete dietro il bancone. Era decisamente ingombrante e la trovavo alquanto fuori luogo nel locale, ma forse il mio pensiero era dovuto al fatto che avevo conosciuto il Jazz Band Club in un modo, mi ci ero affezionata e vederlo trasformato mi rattristava.

«Stai scherzando, Al? Cos'è questa schifezza?» domandò Jeremiah, interrompendo gli ordini di Al.

Il vecchio non rispose fino a quando non terminò. «Cos'ha che non va?»

«Di che materiale è? Sembra una di quelle cornici molto costose.»

«Non capisco dove sia il problema, Jay» ribatté, voltandosi ad ammirare il locale oramai sistemato.

I lavori erano iniziati da parecchie settimane e Al mi aveva rivelato che sperava terminassero i primi giorni di ottobre, e così fu. Era l'inizio del mese e il bar era pressoché nuovo, purtroppo con fin troppe distanti da ciò che lo caratterizzavano in passato.

«Il problema, vecchio mio, è che hai fatto fuori tutto il tuo patrimonio per sistemare un locale che non aveva niente che non andava. Non capisco tutti questi eccessi. Cosa credi di dimostrare mettendo una cornice che vale più di tutti i vestiti che indossi?» domandò Jeremiah. Solo guardandolo capivo che si stava innervosendo molto e come potevo dargli torto.

«Ti ho già ripetuto mille volte che tutti i soldi che ho investito stanno fruttando parecchio» disse con tono scocciato. Poi si voltò nella mia direzione e mi fece un ampio sorriso, così contagioso che non potei non ricambiare.

Probabilmente, guardandomi, sperava che io potessi tirare fuori un nuovo argomento di cui parlare. La verità, però, era che speravo che Jeremiah fosse in grado di far ragionare Al e fargli comprendere quanto quelle sue scelte fossero errate e rischiose.

«Quanto hai investito per poterti permettere anche questo?»

«Tutto quello che avevo naturalmente. Il bar non mi dà così tanti soldi. Se c'è un modo più semplice per averli, che problema c'è se approfitto?» domandò Al, mentre si allontanava dal centro del locale e ci accompagnava in un luogo più appartato, lontano da quel marasma.

Mentre camminavo mi guardai attorno e l'occhio mi cadde nel punto sul quale si sarebbe dovuto trovare il tavolo del primo appuntamento che io e Jeremiah avevamo avuto. Al suo posto, però, non c'era più niente. Al aveva deciso di buttare giù tutta quella parte rialzata e creare un unico livello per far apparire il locale più ampio.

Aveva commissionato anche la creazione di un'area nuova, la quale avrebbe dovuto essere esclusiva per eventi particolari. Pensai che il tutto gli dovesse essere costato una fortuna e mi chiesi se tutti i soldi fossero realmente venuti da semplici investimenti.

«Ti ricordi cos'è successo i primi giorni di settembre, Al?». Dinanzi alla mancata risposta Jeremiah continuò il discorso. «Una flessione. Non può crescere per sempre, ci sono alcuni che affermano che prima o poi avverrà un crollo.»

Ascoltavo i loro discorsi interessata, ma non sapevo come poter intervenire. La borsa era l'ultimo dei miei interessi, mi limitavo a udire qualche discorso che mio padre faceva a tavola. Il suo modo di approcciarsi, però, era così differente da quello di Al. Non potevo definirlo prudente, ma sapevo che in quegli ultimi mesi prestava molta più attenzione all'andamento dei titoli.

«Dopo quel giorno ha ripreso a crescere, Jay!» esclamò Al, sempre più nervoso. Sembrava non voler minimamente stare a sentire Jeremiah e ciò mi dispiacque parecchio.

«Non è vero. È irregolare, e solo questo dovrebbe farti capire che le tue scelte sono estremamente rischiose.»

«Non mi interessa! Jay, non investi e non sai cosa voglia dire farlo. Ho parlato con persone esperte e mi hanno consigliato di acquistare titoli. In questo periodo ce ne sono molti a poco prezzo» ribatté il vecchio.

«Perché sono a poco prezzo?» intervenni io, curiosa di capire come mai. Nonostante non ci capissi molto, ero comunque interessata a comprendere il meccanismo di quel mercato invisibile. Sapevo solo che si scambiavano titoli che potevano riguardare beni fisici, ma si vendeva e si comprava ciò che rappresentava un dato valore.

«Non lo so e non mi interessa» rispose Al. Allora guardai Jeremiah per capire meglio. «Non lo so nemmeno io, forse perché c'è qualcuno che li vende a poco solo per farli acquistare.»

«Ma quindi qualcuno decide i prezzi dei titoli?» chiesi ancora nel tentativo di comprendere.

«No. I prezzi li decidiamo noi che acquistiamo, diciamo. Mi hanno spiegato che più chiedi un determinato titolo, più il suo prezzo aumenta» rispose Al, quasi come nel tentativo di dimostrare a Jeremiah che sapeva di cosa stava parlando.
«E allora non ha senso che compri titoli con un prezzo basso, no? Se non li acquista nessuno magari c'è un motivo» ribattei e fui sostenuta da Jeremiah che disse: «Esattamente. Almeno qualcuno che ragiona in questo gruppo c'è».

«Sentite, non mi interessa niente di tutte queste vostre supposizioni. So solo che voglio continuare a fare questo e voi siete liberi di ignorarmi.»

Non ci diede neanche il tempo di replicare che si allontanò da noi e si diresse a passo svelto verso l'uscita del locale. Sbatté rumorosamente la porta dietro sé e quel gesto fu la conclusione del dibattito che non era stato in grado di sostenere.

«Dobbiamo farlo ragionare. È troppo avventato» disse Jeremiah guardando Charlie e poi me, mentre si faceva scorrere una mano tra i capelli. Gesto che non faceva altro che sottolineare la sua evidente preoccupazione.

Lo raggiunsi e, appoggiandomi al suo fianco, mi feci abbracciare, quasi come per dargli un sostegno in quel momento.

Purtroppo era evidente che Al non aveva alcuna intenzione di tornare indietro sui suoi passi e noi non eravamo certo degli esperti in materia; non conoscevamo le dinamiche di quella sorta di gioco d'azzardo e ciò faceva sì che lui non ci desse retta.

L'unica cosa da fare era attendere e sperare che le previsioni di Jeremiah non si avverassero.

Mi baciò sulla testa e disse: «Che dici, raggio di sole, andiamo un po' fuori?». Annuii e gli presi la mano.

Salutammo Charlie, che in quell'occasione non aveva mai detto niente e mi chiesi se qualcosa lo stesse turbando. Era sempre stato un ragazzo taciturno, ma quel giorno non mi aveva neanche salutato e non era intervenuto nemmeno una volta durante l'alterco con Al.

Andammo nel retro del Jazz Band Club, caratterizzato da un'ampia landa incolta e stopposa. Erano stati posti dei massi in alcuni punti lungo un sentiero, per permettere a chiunque vi transitasse di accomodarsi.

Raggiungemmo il primo, ci sedemmo e mi voltai in modo tale da poggiare le gambe sopra le sue così da riuscire ad avere il busto rivolto nella sua direzione. In quel momento sentii che il vento si faceva più forte e un brivido mi percorse.

«Hai freddo?» mi domandò Jeremiah non appena se ne accorse.

«No. È stata solo colpa della folata» risposi facendo scorrere una mano tra i capelli, in modo tale da portarli tutti da un lato.

Inspirammo profondamente più e più volte, godendoci la pace e la tranquillità di quel momento e di quel luogo. Il fatto che anche a lui piacesse trascorrere qualche ora immerso nella natura, me lo faceva amare sempre di più.

Ellen mi diceva sempre che erano gli opposti ad attrarsi, ma guardando Jeremiah mi domandavo quanto effettivamente fossimo distanti. Lo reputavo diverso da me, ma non troppo. Era quella parte del puzzle che si incastrava perfettamente alla mia, quel pezzo che mi mancava per sentirmi intera.

Non eravamo opposti, ci completavamo.

Nel pensare quelle cose lo guardai e rivolgendogli un sorriso mi avvicinai a lui. Comprese subito che il mio intento era quello di baciarlo e non si oppose, lasciandomi assaporare quelle labbra che fin troppo spesso ormai mi mancavano.

«Vorrei che la mia sorte fosse baciarti per tutte le ore del giorno, sai?» mi disse alternando le parole a lievi tocchi sulla mia bocca. Sorridemmo e continuammo per un tempo indefinito, beandoci di quel frangente solo nostro.

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