La prima uscita ~ 3
Mentre ascoltavo, cominciai a riflettere sui suoni privi di armonia, ritmo e melodia. Per me loro erano facilmente associabili a due colori: il bianco e il nero. Il primo, quello così luminoso ma privo di tinte, racchiudeva in sé ogni colore. Il secondo, invece, rappresentava l'assenza di colore e di sfumature che, per definizione, era privo di luce.
Dipingendo cercavo sempre di evitare il loro utilizzo. Li sentivo come colori freddi, distanti, così lontani dal poter essere utilizzati per spiegare una sensazione o un'emozione.
Rappresentavano i due estremi: il tutto e il niente. Erano la vastità di colori nel mezzo, quelli da cogliere e usare.
Nel momento in cui le note si diffondevano per la sala, mi immaginai dinanzi a una tela mentre recuperavo tutti i colori del mondo e dipingevo un quadro, dove le tonalità che mi trasmettevano gioia predominavano. Una tela priva del bianco e del nero, ma ricca di emozioni.
«A cosa stai pensando?» mi sussurrò Jeremiah all'orecchio, facendomi sussultare dallo spavento.
«Associavo al suono un colore», risposi, consapevole che non mi avrebbe capito.
Mi guardò in volto, sollevando il sopracciglio destro, palesemente confuso. «Come si fa?» domandò, volgendo lo sguardo verso il palco e poi di nuovo a me.
Rimasi in silenzio, per qualche secondo, riflettendo su come avrei potuto spiegarlo.
«Prova a pensare a una determinata emozione, come la gioia, ad esempio. A che colore la assoceresti?» gli chiesi.
«Al giallo», rispose lui. Immaginavo che lo avrebbe detto, perché tutti assocerebbero i colori caldi a un'emozione piacevole.
«Posso domandarti come mai proprio questo colore?»
«Perché la gioia la collego a qualcosa di solare, allegro. Se penso a questa emozione, mi immagino il sole. Ecco perché il giallo», mi rispose, accennando un sorriso imbarazzato.
«Il bello dell'arte è che non bisogna proprio riprodurre la realtà, lo sai?» domandai in modo retorico, prendendo il bicchiere pieno di Coca Cola e mescolando con la cannuccia il contenuto. Cercavo di evitare il suo sguardo; avevo paura che potesse criticare quel mio modo di vedere l'arte.
«Spiegati meglio.»
«Se io di giorno sono triste e vedo nel sole qualcosa che mi riporta a un momento brutto, posso colorarlo di nero», gli risposi, sperando che riuscisse a seguire il mio ragionamento.
«Ma la gente non ti prenderebbe per pazza se colorassi il sole di nero?»
«È arte. L'artista non necessariamente deve raffigurare la realtà. Può decidere di riportare su tela un'emozione», replicai.
Guardai il suo volto corrugato, mentre attendevo una risposta alla mia affermazione.
«Se dovessi dipingere questa serata, che colori useresti?» mi domandò, guardandomi dritta negli occhi.
Con la luce della lampadina vicino a noi, riuscivo a cogliere il colore azzurro acceso della sua iride. Quell'iride dalle tonalità che richiamavano le limpide acque del Rock Pond, lago della Contea di Madison in cui mio padre mi portava ogni weekend da bambina.
«Userei l'azzurro», risposi, accennando un sorriso. Dall'espressione sorpresa che assunse il suo volto, capii che aveva colto il mio riferimento. In risposta mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, posando le labbra forse un po' più del necessario.
Quando si allontanò, sollevai la mano e con la punta delle dita mi toccai quella zona, che si stava velocemente riscaldando. Non sapevo se da quel lato, con la luce del locale, sarebbe stato in grado di vedere il mio rossore, perciò chinai la testa di scatto.
«Avresti voglia di dipingere in questo momento, vero?» disse lui, sorridendomi e nel farlo gli spuntarono nuovamente le due fossette.
Annuii, con le braccia alzate e i gomiti poggiati sul tavolo, mentre mi toccavo con fare nervoso le mani.
«Perché non lo fai? Non hai con te qualcosa per disegnare? Di solito gli artisti non si portano sempre via un quaderno e una matita?»
Mi pose quelle domande, una di seguito all'altra, senza lasciarmi mai il tempo per replicare.
«Di solito non faccio schizzi preparatori, mi limito a dipingere su tela la scena che è impressa nella mia mente», mi limitai a dire, celandogli che in realtà avevo un taccuino pieno zeppo di dettagli o scene che riportavo ovunque mi trovassi quando mi balenavano per la mente.
«Strano, Ellen mi ha detto esattamente il contrario.» Sbuffò e voltò la testa, quasi come se si fosse offeso.
«Hai chiesto a Ellen di me?»
Fu la prima cosa che pensai e mi uscii in modo talmente naturale che quasi mi venne da coprirmi la bocca, come se con quel gesto potessi ritirare quanto avevo appena chiesto.
«Può essere», mi rispose ridendo dinanzi alla mia incredulità. Non riuscivo a concepire l'idea che potesse aver chiesto alla mia amica informazioni su di me. Il solo pensarci mi faceva credere che Jeremiah fosse seriamente intenzionato a conoscermi o, meglio ancora, a comprendere i miei gusti e le mie passioni, quasi come se gli importasse voler fare colpo su di me.
«Cos'altro hai voluto sapere e cosa ti ha detto lei?»
«Prima rispondimi tu. Perché non disegni qualcosa nel tuo taccuino?» mi chiese girando un po' la testa per guardarmi dritto negli occhi.
«Perché sono qui con te, a un appuntamento, e non mi sembra il momento adatto per mettermi a disegnare», risposi, con un tono di ovvietà, ai limiti dello scontroso, che per un momento temetti di averlo offeso.
«Io vorrei guardarti disegnare e, nel frattempo, ci sarà la musica a tenermi compagnia», affermò.
Sapevo che non avrei potuto vincere quella discussione e così, dopo aver emesso un sonoro sbuffo, aprii la borsetta e tirai fuori il mio taccuino, tutto rovinato ai lati e un po' piegato perché eccessivamente maneggiato. Me lo avvicinai al petto e lo sfogliai veloce, alla ricerca di una pagina pulita, con la speranza che lui non riuscisse a vedere i miei schizzi.
Presi la matita e cominciai a osservare il palco. La mia attenzione si rivolse a Emmanuel, il musicista più basso. In quel momento si stava esibendo in una strabiliante performance con il sassofono dalla cui estremità, la campana, venivano emessi suoni dolci, sentimentali e pieni di vibrato.
Lo osservai con attenzione. Era in piedi con il collarino agganciato al sassofono che gli consentiva di tenere lo strumento appeso al collo. Il pollice della mano destra era inserito nel gancio creato appositamente per mantenere salda la presa durante la performance.
Iniziai il mio schizzo partendo dalla raffigurazione delle mani, che con intensità premevano i tasti. Salii poi ritraendo il suo braccio, parallelo al corpo dello strumento. Infine raggiunsi il collo di entrambe le figure e disegnai le loro estremità: la bocca che soffiava con forza e ritmo nel becco, bloccandosi a tratti per riprendere l'aria in modo da fare, poi, una soffiata più vigorosa.
Ultimato lo schizzo di Emmanuel, raffigurato in posizione laterale, immaginai che nel buco creatosi a destra ci saremmo potuti stare tranquillamente in un tavolino noi due, intenti ad ascoltare o a chiacchierare. A casa avrei riportato su tela la scena, per conservare in eterno un altro ricordo.
Non avevo mai guardato Jeremiah per tutto il tempo in cui stavo disegnando. Non sapevo se mi avesse osservato o, peggio ancora, se stesse ridendo di me. Quando alzai la testa e la voltai verso di lui, mi avvicinò la mano al viso e sistemò una ciocca dietro l'orecchio. Quel gesto così dolce mi scaldò il cuore e lo accompagnò con la frase: «Sei bellissima».
Arrossii, ma non risposi. Mi limitai a poggiare la matita sul tavolo e ad attendere che continuasse lui il discorso.
«Dammi qua che voglio vederlo meglio», dichiarò allungando la mano. Gli passai il mio taccuino pregando che non si mettesse a sfogliarlo. Era un oggetto molto personale e non me la sentivo di dare alle persone la possibilità di guardare cosa vi raffiguravo.
«È meraviglioso!»
«È solo uno schizzo, non è niente di che», affermai alzando le spalle e sorridendo.
Lui cominciò a studiarlo meglio e, come avevo temuto, prese a girare le pagine.
«Jeremiah, no!» Gridai allungando il braccio per tentare di afferrare l'oggetto che teneva saldamente tra le mani. All'improvviso, lo impugnò solo con la mano sinistra, quella a me più lontana, e allungò il braccio verso l'esterno continuando a girare con il pollice le pagine.
«Sono bellissimi! Lasciameli guardare solo un secondo.»
«No! Ridammelo immediatamente.»
Mi alzai e, nel tentativo di sporgermi per recuperarlo, gli finii praticamente seduta sopra. Quando me ne accorsi, mi raggelai. Non sapevo cosa fare e mi sentivo come bloccata.
Il respiro di entrambi cominciò ad accelerare.
Voltammo tutti e due il capo e finimmo per guardarci dritti negli occhi. Jeremiah fu il primo a interrompere quel contatto, posando il suo sguardo sulle mie labbra dischiuse che, come le sue, emettevano un fiato caldo.
Sembrava come se il tempo si fosse fermato. C'eravamo solo io e lui in quel momento, nessun'altra persona, nessun suono; solamente i nostri respiri sincronizzati che, come il nostro sguardo, si fondevano assieme.
Vidi il suo petto iniziare ad alzarsi e abbassarsi più in fretta del normale, in un modo perfettamente accordato con il turbinio delle emozioni. D'un tratto, sentii il taccuino cadergli dalle mani e quel leggero suono fu sufficiente per riportarmi alla realtà.
Mi alzai di scatto e, dopo aver sistemato il vestito lisciandolo con le mani, andai a recuperare l'oggetto dal suolo.
Appena mi sedetti, Jeremiah tossì e dichiarò: «È veramente fatto bene comunque».
«Grazie», mi limitai a rispondere.
Restammo in silenzio per qualche altro minuto, fino a quando il concerto terminò. Nel momento in cui i musicisti si posizionarono tutti e cinque vicini, in mezzo al palco, e fecero l'inchino, un boato attraversò la sala. Il pubblico applaudiva dinanzi a un così bello spettacolo.
«Mi dispiace per prima. Non volevo mancarti di rispetto e spero che tu possa perdonarmi», dichiarò con voce flebile.
«Tranquillo. È tutto sistemato», risposi accennando un sorriso. Quello che più mi tormentava era il pensiero di quelle emozioni che in un momento così piccolo era riuscito a scatenarmi. Mi sentivo ancora scombussolata per ciò che avevo percepito e per la fretta con cui tutto stava evolvendo.
«Ti va di andare a salutare gli altri prima di andarcene?»
«Certamente», gli risposi sollevandomi e afferrando la mano che mi aveva, in quel momento, porto.
Nota dell'autrice
Vorrei ringraziare tutti coloro che mi stanno seguendo e vorrei anche scusarmi con voi per il fatto che aggiorno molto raramente.
Questo appunto, però, mi serve per dirvi che avevo in mente di concludere questo appuntamento con questo capitolo, ma sapete come funziona... Uno inizia a scrivere, poi arrivano mille idee e si finisce per parlare d'altro. In conclusione vi annuncio che ci sarà un'altra e spero, ultima parte, di questo eterno capitolo. >.<
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. I #Jaisy (ringrazio agathabrioches per questo nome) torneranno presto.
••
Aggiungo in questa nota autrice che "Eternity - Un amore senza fine" sta partecipando al concorso indetto da nuovitalenti.
Si tratta di un concorso che mira a far emergere le storie e farle conoscere a tutti.
Avete tempo fino al 1° Ottobre per iscrivervi e ve lo consiglio fortemente.
Un bacio ❤️
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