La prima uscita ~ 1*

Maggio 1929

Le prime luci dell'alba erano per me la cosa più fastidiosa al mondo, eppure il mio nome proprio a loro faceva riferimento. Tentai di evitarle coprendomi il volto con il cuscino, ma i raggi sembravano essere in grado di filtrare ugualmente. Decisi allora di girarmi dalla parte opposta, volgendo lo sguardo al muro, e di tornare a tentare di addormentarmi.

Quella notte, vista l'eccitazione data dall'imminente uscita, non avevo chiuso occhio e lo stesso pareva accadere in quel momento. La mia mente tornava all'incontro con Jeremiah, a quegli sguardi e alle risate.

Immaginai a come sarebbe stata la serata, mi avrebbe baciata?

Continuai a rigirarmi per diversi minuti, ma avevo anche delle fitte allo stomaco per via dell'agitazione. Sapevo che c'era solo una cosa che sarebbe stata in grado di aiutarmi ad alleviare quella sensazione: la pittura.

Mi sollevai e andai a spalancare le finestre.

«Volevate entrare, raggi di sole? Coraggio, abbagliatemi!» esclamai innervosita. Erano loro la causa dei miei bruschi risvegli mattutini ed era in buona parte colpa loro se spesso ero di cattivo umore.

Senza curarmi del mio aspetto, anziché andare in bagno, corsi subito verso l'angolo della mia camera in cui c'erano tela e pennelli. Sistemai con attenzione tutto il mio materiale e, una volta seduta, cominciai a riflettere su quale potesse essere il soggetto del mio quadro. Guardando il vuoto, tra l'indice e il dito medio della mano, feci barcollare il pennello e senza alcuna idea precisa decisi di lasciare al mio spirito d'artista il compito di selezionare, da solo, cosa riprodurre su tela.

Afferrai la tavolozza e, tenendola ben salda, puntai il pennello verso i colori. La mia mano, senza esitazione, andò dritta verso il rosa.

Cominciai a dipingere e, presa dalla foga continuai per molto tempo, forse ore, senza mai interrompermi. Quella scena, quella del nostro incontro, era impressa nella mia mente in modo indelebile. Non mi aveva abbandonato un solo istante e in quel momento, riportarla su tela, mi fece sentire meglio. Era quasi come se quell'avvenimento sarebbe potuto rimanere nella storia per sempre. Era accaduto davvero e in quel momento, guardando il frutto del mio lavoro, potevo rammentarlo.

Ci disegnai l'uno dinanzi all'altra, impegnati a guardarci e studiarci. Entrambi avevamo delle espressioni divertite, ma allo stesso tempo un po' imbarazzate.

Sorrisi ammirando il risultato e arrossii pensando che, anche quello, sarebbe finito assieme all'altro nell'armadio, al riparo da occhi indiscreti. Erano lì solo per me.

~


Per la serata con Jeremiah cominciai a prepararmi presto, con cura e attenzione. Indossai un vestito dorato, dalle spalline sottili, che mi cadeva dritto fino alla coscia. Il dettaglio che più adoravo di quell'abito era la pioggia di frange che lo caratterizzava.

Contornai pesantemente di nero gli occhi, in modo da metterli in risalto, come era di moda, e pettinai i capelli lasciandoli tutti ondulati da un lato.

Spiegai a mamma e papà che sarei andata con Ellen a una serata di musica Jazz. Papà non era molto contento, ma non me lo impedì.

Ellen si era detta disposta a coprirmi e gliene fui infinitamente grata.

Decisi di arrivare poco dopo l'orario prestabilito perché non volevo rischiare di attendere e, forse, anche perché volevo farmi un po' desiderare.

Come avevo immaginato, Jeremiah era già là ad aspettarmi, vestito di tutto punto con una camicia bianca e i pantaloni neri con le bretelle. Era a dir poco bellissimo.

Mentre mi avvicinavo sorrisi e imbarazzata cercai di sviare il suo sguardo osservando quelle ampie strade che tanto mi erano familiari.

«Ciao, Daisy. Sei bellissima», disse lui mentre cominciavamo ad avanzare all'interno del locale.

«Grazie», risposi accennando un sorriso. Sentii il solito calore invadermi le guance e capii di essere arrossita. Imbarazzata lo precedetti, raggiungendo il nostro tavolo prima di lui.

Il Miller's era un locale non molto grande che trasmetteva un'idea di tranquillità e intimità. Le travi di legno caratteristiche del soffitto erano dello stesso colore dei tavoli, coperti tutti da tovaglie bianche.

Le finestre che si affacciavano sulla strada erano ampie come tutta la parete e immaginai che durante le ore mattutine la sala fosse ampiamente illuminata. A far luce in quel momento era il grande lampadario appeso al soffitto, forse troppo sfarzoso per un ambiente così casalingo.

«Ti piace?» mi domandò Jeremiah vedendo che mi stavo guardando in giro.

«È molto bello e accogliente. Hai scelto bene» risposi. Aggiunsi poi: «Oltretutto mi piace questo tavolo isolato così quando si riempirà saremo in grado di sentirci, nonostante il chiasso».

Lui annuì, d'accordo con quanto avevo affermato.

«Come mai non ci siamo mai incontrati prima, Jeremiah?» domandai incuriosita. Ero certa che un volto così bello non lo avrei assolutamente scordato e la Contea di Madison non era abitata da moltissime persone. Bene o male, infatti, ci conoscevamo tutti.

«Mi sono trasferito da poco con mio fratello», disse lui.

Non riuscii ad indagare oltre perché fummo interrotti dal cameriere che venne a domandarci se avessimo scelto cosa gradivamo. Ordinammo con calma, chiedendo al signore che ci offriva dei consigli per riuscire a scegliere il piatto migliore. Una volta terminato riprendemmo da dove ci eravamo interrotti.

«Dove vivevi prima?» gli domandai sperando di non sembrare troppo invadente.

«Vivevamo entrambi in un orfanotrofio in una cittadina del Tennessee, al confine con lo Stato dell'Alabama», rispose. Ovviamente la parola orfanotrofio mi colpii, appena la pronunciò, ma non volli indagare. Era un discorso personale e se aveva voglia di parlarne, l'iniziativa sarebbe dovuta partire da lui.

«Capisco», mi limitai a dire.

«Come mai siete venuti proprio nella Contea di Madison?» domandai, mentre mi accingevo a bere un sorso dal bicchiere che il cameriere ci aveva appena portato.

«Ho saputo che c'era una piantagione di cotone che offriva lavoro. Penso che tu la conosca visto che il tuo cognome è Sullivan», asserì Jeremiah, inclinando leggermente la testa da un lato, mentre con le mani continuava a toccare con fare nervoso il tovagliolo, forse impaurito per tutte le domande.

Pensai che la soluzione migliore, a quel punto, fosse quella di parlare tanto di me per far sì che lui potesse sciogliersi e sentirsi più a suo agio.

«Sì, è la piantagione di mio padre. Adesso sta quasi ultimando uno stabilimento per l'industria tessile, che consentirà a più persone di lavorare», dissi, fiera del fatto che molte persone, grazie a lui, sarebbero state in grado di portare a casa del denaro per la famiglia.

«Lo sta costruendo qui in zona?» mi domandò Jeremiah.

Quella domanda mi colse alla sprovvista. Non riuscivo a capire se gli interessasse davvero o se stesse cercando di portare avanti quella conversazione perché altrimenti non avrebbe saputo di cos'altro parlare.

Preferii credere nella prima ipotesi e immaginai quanto fosse duro piantare e raccogliere cotone nei campi. Cercai di associare la sua curiosità, quindi, alla voglia di lavorare in condizioni migliori. Purtroppo, però, non mi interessavo molto delle attività di mio padre. Vedevo in tutto ciò che faceva un modo per ottenere maggior denaro e, di conseguenza, non avevo mai approfondito l'argomento. Tutto quello che sapevo, lo conoscevo perché ascoltavo i discorsi che i miei genitori facevano a tavola, mentre mangiavamo.

«Non lo so, mi dispiace», risposi volgendo lo sguardo altrove, sperando di scorgere il cameriere con i nostri piatti e riuscire, così, a trovare il modo di parlare di altro. Quella conversazione si stava facendo sempre più imbarazzante ed entrambi sembravamo non essere in grado di trovare nuovi argomenti.

Sperai dentro di me che la situazione cambiasse. Nessun ragazzo mi aveva mai colpito come Jeremiah, ma quell'imbarazzo mi faceva capire che forse la colpa era da associare a me e non agli altri. Probabilmente ero una persona noiosa, con la quale nessuno era in grado di trovare punti in comune.

«Allora...» iniziò lui, cercando di richiamare la mia attenzione, «da quanto tempo dipingi?» mi domandò, accennando anche un sorriso, quasi sicuramente correlato all'espressione gioiosa che doveva aver assunto il mio volto.

C'erano degli argomenti dei quali non mi stancavo mai di parlare e uno tra questi, anzi forse proprio il primo, era senza ombra di dubbio l'arte.

«Ho sempre avuto la passione per il disegno. Mio nonno era un artista e quando era in vita adoravo andare a casa sua, per osservarlo mentre rappresentava vari dettagli del giardino. Passavo ore e ore accanto a lui a imparare le tecniche per stendere il colore e sfumare» iniziai a spiegare, ma lui mi interruppe per domandarmi: «Come mai dipingeva sempre il giardino?»

«Se la passione di mio nonno era dipingere, quella di mia nonna, invece, era il giardinaggio. Per poter stare il più possibile vicini, continuando a dedicarsi alle loro passioni, mentre mia nonna curava il giardino, mio nonno ritraeva o lei o i fiori che piantava», spiegai, sorridendo al pensiero di quel compromesso che avevano trovato che consentiva loro di stare assieme, non rinunciando, però, a ciò che amavano fare.

«Fammi indovinare, i suoi fiori preferiti erano le margherite?» domandò Jeremiah, accennando una risata.

«No, i suoi fiori preferiti erano le magnolie e le dalie, infatti, mia mamma si chiama Dahlia e mia zia Magnolia», spiegai, sorridendo all'idea che i nostri tre nomi facessero tutti riferimento a un fiore.

Il cameriere, nel frattempo, arrivò portandoci ciò che avevamo ordinato. Interrompemmo la conversazione per assaggiare le pietanze ed entrambi non trovammo le parole per descrivere quanto tutto quello fosse delizioso. Assaporavamo ogni boccone lentamente, chiudendo gli occhi per degustare meglio quell'esplosione di sapori.

Il primo a riprendere il discorso fu lui. «Comunque volevo farti i complimenti per il quadro che hai fatto per il Cotton Bar», disse, mentre si accingeva a bere un sorso di Coca-Cola. Prima che potessi ringraziarlo, aggiunse: «Mi piacerebbe, un giorno, vedere altre tue opere».

Improvvisamente il boccone di carne che stavo masticando, quasi mi andò di traverso. Cominciai a tossire e sentii un calore invadermi le guance e il volto andarmi in fiamme.

Girai la testa dalla parte opposta alla sua, nel tentativo di non farmi vedere, ma lui spaventato mi raggiunse e si posizionò, accucciato, dinanzi a me. Aveva una mano poggiata sul mio braccio e teneva lo sguardo fisso nel mio.

«Stai bene? Vuoi un bicchiere d'acqua?» mi domandò evidentemente terrorizzato dalla mia reazione.

«È tutto a posto», risposi, rimettendomi a sedere normalmente. In tutta la mia vita avevo dipinto moltissimi quadri, ma quella domanda mi spaventò, perché, in quel momento, pensai subito alle opere che avevo fatto su di lui e il pensiero di come avrebbe potuto reagire dopo averli visti mi turbò.

Mi limitai ad annuire e, scusandomi, mi diressi verso il bagno a rinfrescarmi e sistemarmi il trucco. Appena arrivai davanti al lavandino, appoggiai entrambe le mani sul bordo bianco e respirai profondamente. Non era successo niente di grave, ma temevo che sarebbe potuto scappare, intimorito dal fatto che avessi ideato due quadri su di lui.

Prima di uscire mi incipriai il naso e ripassai il nero attorno agli occhi.

Dopo essermi richiusa la porta alle spalle, notai che aveva già pagato il conto e capii che dovevamo dirigerci verso il locale in cui avremmo ascoltato musica jazz e sperai, con tutto il cuore, che tutto sarebbe andato per il meglio.


Nota dell'autrice
L'immagine che vedete in alto è un regalo che la dolcissima aboutjune ha voluto farmi.
Non smetterò mai di ringraziarti, Marti. È veramente bellissimo e io... non so davvero che dire. Mi hai lasciato senza parole!
Grazie ancora ❤

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