L'invito ~ 2

Salendo le scale senza emettere alcun suono o parola, entrammo in camera mia. Come di consueto, Ellen si andò a sedere sullo sgabello che avevo lasciato accanto al muro, vicino alla tela bianca, e si posizionò verso il punto in cui mi trovavo.

«Dove si trova?» domandò, mentre spostava lo sguardo per ogni angolo della camera. Vidi il suo interesse correre lungo le pareti, passando da quelle spoglie a quelle in cui erano esposti i miei due quadri migliori. Si trattava del medesimo paesaggio, preso dalla stessa angolazione, solo che avevo utilizzato colori differenti per rappresentarlo. Non vi erano dettagli che lo rendessero un posto speciale, o migliore di qualunque altro. Era solo un punto calmo, nel quale la forza della natura aveva deciso di prendersi una pausa creando un'oasi di benessere, tranquillità e serenità.

La scelta dei colori doveva raffigurare i diversi sentimenti che un paesaggio simile avrebbe potuto offrire: pace o senso di solitudine. Erano due facce della stessa medaglia, che osservavo tutte le volte in cui un pensiero mi turbava e ciò mi spingeva ad analizzarlo sotto ogni punto di vista per poter trarre la miglior conclusione.

Fissavo con lei la parete e quasi mi dimenticai del fatto che mi avesse chiesto dove si trovasse il quadro. Dopo aver scosso la testa, mi affrettai ad aprire l'anta dell'armadio e, dischiudendo un varco tra i miei abiti, tirai fuori la tela. L'avevo nascosta per paura che mio padre potesse vederla; non sarei stata in grado di rispondere alle domande che mi avrebbe sicuramente rivolto e sapere di avere un segreto rendeva la mia vita più elettrizzante.

«Che te ne pare?» le chiesi sollevandolo in modo tale da coprirmi il volto che, intanto, sentivo riscaldarsi. Con quel gesto evitai che potesse scorgere l'imbarazzo che albergava nel mio essere e, al tempo stesso, non volevo vedere la sua espressione per timore che potesse ridere di me.

«Daisy, è davvero meraviglioso!» esclamò, con una nota di stupore. Fu quella che mi spinse ad abbassare il quadro e guardarla, consentendomi così di osservarla e lasciarmi studiare. Aveva un luccichio negli occhi, quasi come se tutta la storia che si celava dietro al quadro potesse averla emozionata. Quello traspariva e speravo di non sbagliarmi, perché ciò che volevo era qualcuno che potesse capirmi e sostenermi.

«È Jeremiah comunque?» domandai senza ringraziarla, ma non ce n'era bisogno: il mio volto parlava da sé.

«Sì, è proprio Jay», rispose e io gioii al pensiero di aver finalmente dato un nome a quel ragazzo su cui avevo fantasticato tanto. Dinanzi al rossore presente sulle mie guance lei mi sorrise esibendo la sua dentatura non troppo perfetta.

«Che ne dici di accompagnarmi a casa? Abita proprio vicino a dove vivo io, magari avremo la fortuna di incontrarlo», propose emozionata. Sembrava su di giri all'idea della remota possibilità di un incontro e capii che Ellen era veramente un'amica. Non avrei potuto chiedere di meglio.

Visto che si conoscevano, un istante prima era comparsa in me la voglia di domandarle se sapeva in che modo avrei potuto trovarlo, o se magari lei potesse fare qualcosa per aiutarci ad avvicinarci. Il fatto che per prima avesse avanzato la proposta mi alleggerì dal peso di dover chiedere un favore.

Nel momento in cui mi fece quella domanda, però, tutte le certezze e la voglia di conoscerlo che albergavano in me, scomparvero e vennero rimpiazzate dal timore. Vi era paura del rifiuto, di me stessa, di lui, del futuro. Erano turbamenti talmente forti, che riuscirono a invadermi profondamente, spingendomi a sospirare un flebile «Non saprei».

D'istinto presi una ciocca di capelli e vi ci attorcigliai il dito, come per tenermi impegnate le mani che, innervosite, desideravano sfregarsi. Chinai la testa e guardai le punte dei piedi, cercando di ignorare lo sguardo di Ellen che sarebbe stato senz'altro di disapprovazione per il mio cambio repentino d'umore.

«Daisy!» esclamò, sollevandosi e avvicinandosi a me. «Oggi speravi di vederlo. Cos'è cambiato ora?»

Riuscì a incalzarmi, beccando il tasto giusto: quello che mostrava l'insicurezza che tanto volevo sconfiggere.

Deglutii e, dopo aver ispirato, mi feci forza. «Hai ragione. Ti accompagnerò a casa.»

Sperai, mentre uscivamo dalla porta e ci incamminavamo lungo le strade della Contea, che quella piccola briciola di coraggio che ero riuscita a trovare, potesse servirmi.

La passeggiata fu veloce, era una città molto piccola e le nostre case non distavani molto l'una dall'altra. Mentre muovevo le gambe, la mia testa continuava a vagare immaginando ogni possibile sviluppo di quel movimentato pomeriggio, ma soprattutto mi domandai come mai non lo avessi mai visto prima. Decisi di non chiederlo direttamente ad Ellen, così da poter porre la domanda a Jeremiah se mai ci fossimo parlati.

Arrivati davanti alla sua piccola ma curata abitazione la ringraziai. Lo feci in maniera sentita, perché era il minimo che potessi fare per una persona come lei. «Non ho fatto niente, Daisy», rispose, ma il solo essermi amica era di per sé un motivo per cui valesse la pena ringraziare.

«Fammi sapere se succede qualcosa, mi raccomando», disse, facendo un occhiolino. Risi di quel gesto così tipico da Ellen che non mi sarei mai sognata di replicare.

«Certamente. Potremmo anche rivederci uno di questi giorni», proposi, sapendo che uscire e stare in compagnia era ciò che le serviva. Necessitava di un'amica e io volevo esserlo per lei, così come lei lo era per me.

«Sarebbe davvero fantastico», concluse e, dopo averle sorriso, la salutai con la mano e mi voltai. Sentivo dentro di me un'esplosione di gioia, un piccolo calore che, propagandosi, mi faceva sentire amata e non sola.

Nel viaggio di ritorno, ammiravo le case scolorite che si stagliavano lungo la via, i vari negozi e le vetrine colorate che anche all'andata mi ero soffermata a guardare. Era una città così statica che ormai mi pareva di ricordare ogni suo dettaglio a memoria, ma il mio occhio attento riconosceva subito ogni sfumatura o tratto diverso: l'abito esposto nella bottega dinanzi a me, più leggero e adatto al cambio di stagione, ad esempio, aveva sostituito quello che c'era precedentemente.

Guardavo e studiavo, cercando di non pensare al fatto che Jeremiah, ormai, non l'avrei trovato. Fu nel momento in cui quel pensiero balenò nella mia mente, però, che lo vidi. Mi bloccai: lui era proprio lì, di fronte a me.

Credetti in un primo momento che fosse uno scherzo della mia mente, un miraggio creato solo per cercare di accontentarmi. Sbattei più volte le palpebre e quasi mi venne la tentazione di darmi un pizzicotto, come per svegliarmi da un sogno.

Lui continuava a rimanere lì e capii che la fortuna mi aveva appena baciata. Gli sorrisi appena i nostri occhi si incrociarono, ma in quell'attimo esatto compresi quanto stupido fosse stato il mio gesto. Pensai a come potesse prendersi gioco di me per quel cenno rivoltogli senza nemmeno conoscerlo, allora mi voltai di fretta e accelerai il passo in modo tale da dirigermi sull'altro lato della strada nel tentativo di evitarlo. Con lo sguardo puntato verso il basso e le braccia incrociate camminavo, ma sentivo al tempo stesso un respiro affannoso e falcate pesanti dietro di me, come se stesse correndo per seguirmi.

«Ehi, aspetta!» esclamò. Girando la testa e sollevandola, incrociai lo sguardo e i nostri occhi si incatenarono gli uni agli altri. Non riuscivo a distogliere la mia attenzione da quei due lapislazzuli, così profondi da mozzarmi il respiro.

«Ciao», disse lui chinandosi e poggiando le mani sulle cosce mentre tentava di prendere fiato. Mi sembrava una reazione esagerata per quel tragitto così breve, ma probabilmente era più distante di quanto avessi immaginato e aveva corso più forte di quello che avevo ipotizzato. Ammirandolo, il mio sguardo cadde sui suoi jeans leggermente sgualciti, con una toppa sul lato destro. Erano forse un po' troppo larghi e corti per lui, ma a vederlo così era ugualmente affascinante.

In attesa di una mia risposta, alzò il braccio e si grattò la nuca. Non riuscivo a parlare incantata com'ero ad ammirarlo e a osservare quel lembo di pelle abbronzata, sopra la cinta, che con quel movimento aveva scoperto.

Emise un suono pari ad un «ehm» mentre si guardava intorno nervosamente, attendendo una mia risposta.

«Ciao», dissi, forse in maniera un po' troppo fredda, ma in quel momento non mi venne altro da aggiungere per il timore di iniziare a balbettare.

«Come mai scappi sempre da me?» mi chiese, spiazzandomi. Senza troppi giri di parole aveva posto una domanda che mi aveva messo in difficoltà, più di quanto già non fossi. Ero così imbarazzata e l'aggiunta del ricordo della mia fuga dal locale non fece altro che peggiorare la situazione.

«Hai ragione» mi limitai a constatare. Sin da piccola avevo sempre avuto la tendenza ad andarmene dinanzi alle situazioni scomode, cosa che avrei voluto fare anche in quel preciso istante.

«Come ti chiami, ragazza che fugge sempre dopo avermi sorriso?» chiese, sollevando gli angoli della bocca. Non vi era una nota di offesa nella sua domanda, ma solo una spunta di dolcezza.

Il solito calore mi fece arrossire. «Daisy, Daisy Sullivan», dissi, tossendo per schiarirmi la voce che non sapevo per quale assurdo motivo mi fosse andata via.

«Daisy...» ripeté e dopo una breve pausa aggiunse: «Bel nome. Mi piace». Era stata la medesima reazione che avevo avuto io dopo aver scoperto il suo nome e fantasticai sul fatto che in quei giorni mi avesse pensata, magari interrogandosi su chi fossi.

Quel pensiero sembrò infondermi coraggio e il silenzio venne sostituito da un parlare a raffica. «Grazie, è un termine che non coincide solo con il fiore margherita, ma ha un significato più profondo. I miei genitore me l'hanno...» cominciai, interrompendomi bruscamente e riflettendo su tutta quella serie di informazioni inutili che stavo rivelando ad un perfetto estraneo.

«Perché ti sei interrotta?» mi domandò, chinando la testa per guardarmi dritta negli occhi. Era molto più alto di me e sembrava quasi che mi stesse invitando a fissarlo per comprendere qualcosa, magari rassicurazione. Lo vidi mentre sollevava la mano e la avvicinava al mio viso, ma il mio spalancare gli occhi gliela fece ritrarre di colpo.

Non capii il perché della mia reazione, ma mentalmente mi maledissi per aver perso la possibilità di un probabile lieve contatto.

«Io...» fu l'unica cosa che riuscii a dire, di nuovo.

«Mi stavi spiegando il motivo per il quale i tuoi genitori ti avevano dato quel nome. Sono curioso, continua», mi esortò, incentivandomi a proseguire il discorso che avevo iniziato.

«Giusto» affermai, scuotendo la testa. «Daisy è l'unione delle parole day e eye, e si riferisce a quel fiore che apre i petali alle prime luci del mattino. Sono stata chiamata così perché sono nata all'alba, come le margherite che si dischiudono ai primi raggi del sole», conclusi.

«Daisy», ripeté. «Io sono Jeremiah Spencer. Ma gli amici mi chiamano Jay e dietro al mio nome penso che non ci sia alcun significato.»

Risi della sua battuta e, al tempo stesso, annuii per la sua presentazione, cercando di nascondere il fatto che fossi già a conoscenza di quelle informazioni.

«Che cosa stavi facendo in giro a quest'ora?» mi domandò lui, forse nel tentativo di iniziare una conversazione.

«Ho accompagnato la mia amica Ellen a casa e stavo tornando verso la mia», risposi. Dissi il nome di Ellen, consapevole dal fatto che sapesse chi fosse.

«Ti va di fare la strada assieme a me, Daisy?» mi chiese.

Quella domanda mi spiazzò e, sebbene dentro di me l'idea mi piacesse, pensai a tutte le conseguenze che quella simile scelta avrebbe potuto avere, primo tra tutti la disapprovazione di mio padre.

«Ehm... Io veramente...» Cominciai a farfugliare nel vano tentativo di riuscire a trovare una scusa o un modo gentile per rifiutare. Jeremiah era un bel ragazzo ed era anche molto affascinante, ma non avrei mai potuto farmi accompagnare a casa da lui. Non lo conoscevo e non ero in grado di capire se avesse o meno cattive intenzioni.

«Non ho brutte idee», disse lui, rispondendo a ciò che mi passava per la mente, quasi come se fosse riuscito a leggermi nel pensiero.

«Non è il caso che mi accompagni a casa, Jeremiah», dichiarai. Non ero riuscita a trovare altre parole per dirlo e sperai con tutta me stessa che quella schiettezza non fosse stata deleteria per un possibile nuovo incontro.

«Va bene, non insisterò», concluse. Da un lato quella affermazione mi rattristò perché sembrava quasi che avesse ceduto sin da subito, ma al tempo stesso mi rassicurò. Aveva acconsentito a una mia richiesta, rispettando la mia volontà.

«Accetta, però, di uscire con me nei prossimi giorni.» Appena udii quella frase il mio cuore perse un battito e poi iniziò a correre all'impazzata. Mi aveva addirittura proposto un appuntamento e quasi stentavo a crederci, al punto che dalla bocca, senza neanche accorgermene, uscii un «Davvero?»

«Sì, Daisy. Allora, esci con me?» domandò di nuovo e il desiderio che avevo avuto poco tempo prima di darmi un pizzicotto tornò a impossessarsi di me. Jeremiah sembrava sul serio intenzionato a conoscermi e riflettei su quanto tutto quel mio immaginare si stesse realizzando.

«Dove vorresti andare?» gli domandai, curiosa di scoprire cosa gli fosse venuto in mente.

«Stavo pensando che potremmo andare a cena fuori al Miller's e poi, magari, in un locale in cui suonano musica Jazz», disse, con la mano sotto il mento quasi come se dentro di sé stesse vagliando altre possibili alternative.

«Ti piace il Jazz?» gli chiesi prima ancora di accettare. Il mio essere curioso era prevalso ancora una volta, poiché il jazz era una musica che mi affascinava parecchio e il solo pensiero che anche lui potesse apprezzarla, mi fece desiderare ancora di più di conoscerlo.

«Lo amo.» Con quelle due parole il mio cuore si sciolse e pensai che rifiutare sarebbe stata una pessima decisione, perciò risposi: «Per me il piano è perfetto».

Vidi il suo volto illuminarsi non appena pronunciai quella frase.

«Ti va bene vederci nel weekend?»

Annuii sorridendo.

«È fantastico! Verso che ora ti passo a prendere?» Quella domanda mi bloccò e la mia espressione cambiò da felice a impassibile. Jeremiah sarebbe dovuto venirmi a prendere a casa, ma mio padre non mi avrebbe mai consentito di uscire con lui, quindi in quel momento mi trovai davvero in difficoltà.

Pensai a cosa sarebbe accaduto se gli avessi tenuto nascosta quell'uscita, a cosa avrebbero pensato le persone e alle possibili conseguenze che una futura scoperta avrebbe comportato. Cercai di trovare una soluzione, ma non mi venne in mente nulla, perciò decisi di correre il rischio. Ne valeva la pena; non potevo perdere quell'appuntamento, soprattutto in quel momento in cui sembrava io avessi trovato un po' di coraggio.

«Ti va bene se ci vediamo direttamente al Miller's alle otto di sera?» Era una domanda alla quale non volevo replicasse, in realtà.

«Ma...» iniziò e dentro di me sapevo dove voleva andare a parare. C'erano dei modi da rispettare, ma dal mio sguardo capì di doversi interrompere lì. Si limitò per fortuna ad annuire e io lo salutai. «A presto, Jeremiah.»

«A presto, Daisy.»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top