Il bacio ~ 5
Continuammo quell'unione per un tempo indefinito: secondi, minuti, ore, poco importava. C'eravamo solo noi, spogliati di ogni timore e vergogna.
Eravamo lì a conoscerci e comprenderci, come due persone che vogliono instaurare qualcosa dovrebbero fare.
Quel bacio era stato da entrambi voluto e ci aveva consentito di fare quel passo in più per portarci a quella perfetta sintonia che stavamo cercando. Mentre le nostre labbra, di volta in volta, si univano, riflettevo su quanto fosse giusta la mia decisione di aver atteso. Ne era valsa la pena e non mi pentivo di niente.
Ancora distesi, lui sollevò la mano e cominciò ad accarezzarmi il volto. Spostò prima i capelli all'indietro in modo tale che non intralciassero il cammino che con la mano aveva intenzione di compiere. Partì dalla tempia e scese lentamente, soffermandosi su ogni mio dettaglio: dal sopracciglio, allo zigomo, per andare giù fino al mento che afferrò con le dita.
Nel fare quel semplice gesto mi accarezzò le labbra, non più con un atteggiamento di desiderio, ma come se quel tocco potesse segnare un possesso e gli rammentasse quanto tra di noi c'era stato. Sembrava quasi volesse ricordarsi che quelle labbra ormai erano sue, così come la mia testa e, oserei dire, anche il cuore. Gli appartenevo, mi apparteneva, ci appartenevamo.
«Mi dispiace tanto per la barca. Avevo programmato questa giornata da settimane e quella doveva essere la sorpresa finale», affermò Jeremiah, accarezzandomi un'ultima volta e stendendosi, poi, a pancia in su con le mani dietro la testa. Fissava il cielo, con uno sguardo perso come se stesse ricordando l'idea che si era fatto, nei giorni passati, della nostra ipotetica gita in barca.
Mi avvicinai a lui e poggiai la testa sul suo petto, guardando anche io nel vuoto mentre affermavo: «La giornata, come ti ho già detto, è stata perfetta lo stesso».
«Sì, lo so, però mi sarebbe piaciuto terminarla diversamente», concluse, dopo aver sbuffato. Rimanemmo per un po' in silenzio, fino a quando lui non intervenne: «E se...»
«Se cosa?» domandai, dinanzi al suo silenzio.
«E se tu la dipingessi? Mi farebbe tanto piacere avere un'opera tua e potresti raffigurare noi. Non ti piacerebbe?» mi chiese sollevandosi da terra e costringendomi a imitarlo. Da seduto, mi guardò negli occhi, in attesa di una risposta. Stava sorridendo, come se dentro di sé non vedesse l'ora di sentire un'affermazione da parte mia.
Non sapevo cosa dire, a rifletterci mi sarebbe piaciuto dipingere un quadro per lui e, certamente, raffigurare noi. In quel momento, però, pensai a tutto quello che sino a quel momento avevo riportato su tela, più nello specifico a tutte quelle scene che avevamo vissuto; era tutto reale e, così riportato, mi aiutava a rammentarlo. Creare ciò che Jeremiah mi domandava avrebbe significato snaturare quello che realmente era accaduto.
«Non lo so...» risposi, facendo una breve pausa, prima di proseguire: «Non sarebbe reale. Non siamo stati in barca, quel quadro ti mostrerebbe un evento non accaduto. Che senso ha?»
«Semplicemente raffigurerebbe ciò che avrei voluto fare per te. Se è un problema, non importa, continuerò a immaginare la scena e basta», terminò, stendendosi di nuovo a terra, come se ormai la conversazione fosse finita e non avesse senso continuare il discorso.
«Lo farò», affermai, ruotando gli occhi all'insù e poi distendendomi nuovamente a terra, vicino a lui.
Lui mi prese per il fianco e avvolgendomi in un caldo abbraccio mi avvicinò a sé. Chiusi gli occhi beandomi di quel contatto, che mi trasmetteva un senso di sicurezza e di conferma. In quel gesto così semplice e comune venivano racchiusi così tanti discorsi celati. C'era quella voglia di stare insieme: uniti, incastrati, come se fossimo due pezzi di un puzzle che combaciano alla perfezione. Nati in posti diversi, ma gli eventi della vita ci avevano portato a scontrarci; si può dire che fosse un segno del destino, o un progetto scritto da Dio. Ad ogni modo, il mio sentiero ormai si era intrecciato al suo e non avevo alcuna intenzione di lasciarlo andare. Lo strinsi forte a me, come se potessi trasmettergli quel mio pensiero e da come ricambiò il gesto capii che lo comprese alla perfezione.
«Ci tengo tanto a te, Daisy Sullivan. Voglio che tu lo sappia e che te ne ricordi qualunque cosa accada», asserì, dandomi un tenero bacio sui capelli.
«Vale lo stesso anche per me, Jeremiah», balbettai.
Non riuscendo a guardarlo negli occhi. Sentivo il cuore che batteva all'impazzata, compiva un triplo salto mortale bloccandomi il respiro e poi riprendeva la galoppata a più non posso. Capriole, farfalle, tempeste, un turbinio di emozioni: ecco cosa stava accadendo dentro me.
«Mi prometti che dopo aver conosciuto la mia vita, non te ne andrai da me?» mi domandò, tenendomi stretta, come se quello fosse un semplice interrogativo che non avrebbe dovuto avere risposta. A seguito di qualunque mia reazione, lui mi avrebbe trattenuta a sé impedendomi di fuggire.
Annuii, consapevole che stava per parlarmi della sua vita e, in quel momento, capii di non essere del tutto pronta a qualsiasi verità che fino ad allora mi aveva celato.
«Charlie e io siamo nati in Alabama, figli di Anne e Norman Spencer», cominciò, facendo scorrere su e giù per il mio braccio la mano. Fissava un punto nel cielo, mentre io con lo sguardo osservavo le calme acque del lago. In quel momento avevo paura di guardarlo, perciò mi limitai ad ascoltare ciò che mi stava rivelando.
«I miei genitori si erano sposati molto presto, a seguito di un matrimonio combinato e, purtroppo, non sono mai andati molto d'accordo. Avevano due caratteri decisamente troppo diversi: papà così dominante e arrogante, sottometteva mia madre a ogni sua volontà.
Io e mio fratello li sentivamo litigare spesso, ma ogni volta che andavamo da loro per vedere cosa stesse succedendo, ci dicevano che non era niente di che, ci riportavano nelle nostre camere e non ci rendevano mai partecipi dei loro scontri.» Fece un attimo di pausa, come se dentro di sé stesse ricordando tutte quelle scene di cui parlava; immaginai subito due bambini molto piccoli spaventati dinanzi alle urla, con la tristezza di essere incapaci di risolvere i conflitti tra i genitori.
«Penso che mio padre mettesse le mani addosso a mia madre, ma non l'ho mai visto compiere l'atto direttamente. Se ripenso al passato mi odio per aver chiuso gli occhi di fronte all'evidenza, per non aver agito quando la vedevo con qualche livido, o quando notavo che camminava male o faticava a muovere un braccio», disse, prima di tirare su con il naso, come se stesse cercando di trattenere delle lacrime.
«Jeremiah, mi dispiace», affermai inizialmente, facendogli scorrere la mano sul petto e stringendolo a me. «Non è colpa tua e se parlarne ti fa stare male non serve che continui.»
«No no, ho voglia di dirti tutto quanto», rispose, e dopo aver inspirato continuò: «Al è sempre stato vicino alla nostra famiglia, sempre presente nelle nostre vite: quando papà non c'era, infatti, veniva da noi e ci faceva compagnia, giocavamo e ci raccontava di tutte le avventure che aveva avuto. Abbiamo sempre ipotizzato che fosse innamorato di nostra mamma, ma, anche in questo caso, non ne abbiamo mai avuto la conferma. È stata la figura maschile più importante in tutta la mia vita, nonostante nostro padre non ci abbia mai fatto del male, fino al giorno in cui mamma è morta».
Respirai profondamente di fronte a quell'ammissione senza censura, così fredda e distaccata rispetto al resto del discorso e mi preparai a sentire la parte peggiore di quel racconto.
«Un pomeriggio io e Charlie stavamo giocando nella camera di mamma e papà e li sentimmo, come al solito, litigare, urlandosi contro. Papà accusava la mamma di essere una svergognata perché era andata a comprare del pane esibendo la caviglia. Diceva che il suo intento era quello di provocare gli uomini e questo non doveva accadere. Ricordo ancora lei che piangeva e provava a difendersi, ma lui non la voleva ascoltare. Continuava a intimarle di fare meno rumore, inizialmente, e poi di tacere per non insospettire nessuno; non voleva che qualcuno pensasse male di lui e lo immaginasse in un modo diverso rispetto a quell'immagine così importante che l'intera città si era costruita di lui.» Un brivido gli percorse la schiena e raggiunse anche me, mentre trattenevo il fiato pensando a quella povera donna.
«Mamma non si arrestava e lui allora la spinse a terra. Lei cadde e nel tentativo di rimanere in piedi si aggrappò alla prima cosa che riuscì ad afferrare: la tovaglia sulla quale erano posizionati piatti e bicchieri per il pranzo. Tutto precipitò a terra, rimbombando sonoramente nella sala, accompagnato dal tonfo del corpo quando toccò il pavimento e, poi, silenzio. Il suo pianto che si interruppe.»
Sentii le lacrime invadermi gli occhi e cercai con tutta me stessa di trattenermi. Dovevo rassicurare Jeremiah, essere al suo fianco; non potevo mostrarmi debole, non doveva farsi carico anche della tristezza che mi aveva investita.
«Mollammo i nostri giochi e prima di correre di là dissi a Charlie che qualunque cosa avremmo visto, sarebbe dovuto correre fuori e chiamare Al per chiedergli aiuto.» Sospirai, pensando al coraggio che quei due bambini avevano dovuto sfoderare in una situazione così difficile.
«Quando arrivammo in sala da pranzo, trovammo la mamma immobile, per terra. Accanto alla sua testa, tra i tanti pezzi del servizio da tavola frantumati, vi era del sangue. Cominciammo a scuoterla e a chiederle di svegliarsi, ma ogni nostro tentativo fu vano.»
Singhiozzò, per poi riprendere: «Feci un cenno a Charlie e lui si alzò di scatto. Papà capì subito le sue intenzioni e lo afferrò. Ricordo ancora Charlie che tentava di dimenarsi per fuggire, mentre io lo imploravo di lasciarci stare e di non farci del male. Lui non ci diede retta; tra le mani in quel momento aveva un coccio di un piatto rotto, non capivo per quale motivo, se per caso o con la volontà di fare del male a qualcuno, e nel tentativo di fermare la fuga di Charlie, lo ferì alla gamba».
«Zoppica per questo motivo?» domandai, maledendomi un istante dopo per aver interrotto il suo discorso.
«Sì, con quel taglio gli recise un nervo», ammise, mentre mi afferrò la mano e incrociando le mie dita alle sue se la portò al petto.
«In quel momento presi la decisione più difficile della mia vita, ma avevo paura. Ero piccolo e speravo che compiendo ciò che avevo ordinato a Charlie ci avrei salvati. Mi alzai di scatto e corsi fuori di casa, papà non riuscì a fermarmi. Andai da Al e, dopo avergli raccontato tutto brevemente, gli chiesi di aiutarci; lui ordinò al vicino di chiamare lo sceriffo della nostra contea e andò verso casa per aiutare Charlie.
Purtroppo mio fratello era svenuto e io ero dovuto rimanere fuori casa, quindi non seppi mai e mai vorrò venire a conoscenza di cosa accadde o si dissero all'interno, ma una cosa era certa: la cicatrice che vedi sul volto di Al gliela causò mio padre e non c'è giorno in cui io non mi detesti per aver fatto sì che ciò si verificasse», concluse, stringendomi forte a sé.
«Tu non hai fatto niente di male e non pensare che Al ti odi per quella deturpazione. Vi ama molto ed è stato così coraggioso da parte sua entrare nella casa per salvare tuo fratello dalle ire di tuo padre», risposi, accarezzandogli la testa e asciugandogli quelle lacrime che stava cercando in tutti i modi di coprire, affondando la testa nell'incavo del mio collo.
Rimanemmo in quella posizione, in silenzio, per moltissimo tempo. Jeremiah che mi stringeva a sé e io che cercavo gli fargli sentire la mia vicinanza, accarezzandolo.
«Vuoi sapere cosa accadde dopo?»
«Solo se te la senti», affermai.
«Lo arrestarono, su di lui pesavano le accuse di omicidio e tentato omicidio. La corte gli inflisse la pena di morte e venne giustiziato nel giro di breve tempo», asserì, con la voce ferma, che non faceva trapelare alcun tipo di emozione: né rabbia, né tristezza o vendetta. Pensai che quei ricordi lo tormentassero già a sufficienza e la forza con cui ammise la conclusione fu solo una difesa, la voglia di non provare alcun tipo di sentimento per colui che fece del male alle tre persone più care della sua vita.
«Al, in quegli anni, non poteva occuparsi di noi, così come gli altri nostri familiari. Fummo portati in un orfanotrofio, in attesa che qualcuno ci adottasse ma ciò non accadde mai perché noi volevamo stare insieme e nessuno desiderava due ragazzini di cui uno zoppo.»
«Jeremiah, io...» iniziai e poi mi interruppi, pensando che ogni mia parola sarebbe stata inutile. Potevo dispiacermi, ma chissà quante volte si era già sentito dire ciò, perciò mi fermai, in attesa che lui proseguisse.
«Al si mise subito all'opera per cercare di crearsi un lavoro stabile, in modo tale da poterci prendere con sé. Si trasferì dallo zio che gestiva il Jazz Band Club e cominciò a lavorare per lui; cambiò radicalmente la sua vita, impegnandosi a fondo con l'unico obiettivo di aiutarci e non appena il suo parente morì prese le redini del bar. Quando l'attività fu ben avviata si informò per un lavoro qui nelle vicinanze che potesse fare al mio caso e la prima cosa che trovò fu l'impiego presso il campo di tuo padre. Non aveva soldi a sufficienza per potersi permettere di mantenerci, ma solo pochi per garantirci un livello minimo di sussistenza», concluse.
«È un uomo meraviglioso», affermai, incapace di aggiungere altro.
«Assolutamente e non c'è giorno in cui non ringrazio Dio di avermelo fatto incontrare. Senza Al, la mia vita e quella di Charlie non avrebbe senso», rispose, facendomi scorrere una mano tra i capelli e aggiungendo: «Ti prego, Daisy, non andartene mai dalla mia vita».
«Mai», promisi.
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