Il bacio ~ 4
Quasi mi commossi quando udii quelle parole e rimasi impietrita, incerta su cosa dire e cosa fare.
«Ho preparato un'altra sorpresa, la migliore tra tutte, se proprio dobbiamo dirlo. Continuiamo il discorso lì, va bene?» domandò alzandosi in piedi e porgendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi.
Quando gliela strinsi lui tirò il braccio un po' troppo forte rispetto a quanto fosse necessario e appena fui in piedi, mi sbilanciai, finendo in avanti. D'istinto misi le braccia dinanzi a me, come per proteggermi da un'imminente caduta, e incontrai il suo petto. Appena le mani si posarono sollevai il volto e i nostri occhi si incrociarono per una frazione di secondo che parve un'eternità, ma immediatamente distolsi lo sguardo e riflettei su tutto ciò che stava accadendo quel giorno.
Non riuscivo a comprendere come mai fossi tornata a sentirmi in imbarazzo come le prime volte, come mai avessi così tanta voglia di dargli un bacio e perché tutto sembrava indirizzarci verso quella direzione. Se era un segno del destino, se quel giorno era veramente quello in cui ciò sarebbe accaduto, perché farmi attendere così tanto? Il sapore del desiderio e dell'attesa si stavano mischiando, lasciandomi quel retrogusto dolce amaro in bocca che non dava via di scampo.
Lo seguii mentre camminava lungo le rive in direzione del molo, che si stagliava sulle acque del lago e culminava con una barca a remi. Quando lo raggiungemmo, mi accorsi del fatto che era leggermente dissestato e le sue travi scricchiolavano a ogni passo. «Sei sicuro che questo coso ci regga?» domandai, mentre poggiavo solamente la punta dei piedi, consapevole che ciò non avrebbe cambiato nulla, ma farlo mi trasmetteva un senso di maggiore sicurezza.
«Sicurissimo. Vuoi tenermi la mano?»
La afferrai senza farmelo ripetere due volte e, nel frattempo, riflettei su quale potesse essere la sorpresa. Le alternative che si aprivano dinanzi a noi erano o un tuffo in acqua, o un giro in barca. Sperai con tutta me stessa nel giro in barca, situazione che si preannunciava decisamente romantica.
Arrivati davanti a essa Jeremiah salì per primo e, dopo aver spostato l'insieme di corde che si trovava nella parte centrale, mi porse la mano e disse: «Vieni qui, piccola Daisy. Ti aiuto io a entrarci». La afferrai e, tenendomi aggrappata alla sua spalla, mi apprestai a poggiarvi il primo piede.
Fu nel momento in cui quello lasciò il molo che mi accorsi che il fondo della barca si stava riempiendo velocemente d'acqua. Un piccolo fiotto vi entrava e Jeremiah, dopo esserne reso conto, fu così rapido che riuscì a saltare fuori e tornare sul molo.
«Maledizione!» imprecò, sporgendosi per osservare più da vicino il foro. «Non ci voleva! Avremmo dovuto fare questo giro in barca, io avrei remato mostrandoti quanto fossi bravo e tu mi avresti guardato beandomi dei tuoi discorsi...» iniziò a blaterare, senza fermarsi un attimo, muovendosi, nervoso, sul posto.
«Jeremiah, calmati!» esclamai.
«No, dannazione! Non ci voleva», continuò.
«Stai tranquillo. Il resto della giornata andrà bene lo stesso anche se la trascorreremo seduti qui o sdraiati sull'erba», dissi appoggiandogli entrambe le mani sulle sue spalle per fermarlo. Lo guardai sapendo che così si sarebbe tranquillizzato e, dopo aver espirato profondamente, si voltò verso la barca. Mi rilassai e, mentre la osservavo imbarcare acqua, lui le tirò un calcio.
Il colpo fu molto forte, tanto da spezzare una delle assi laterali. Ciò mi fece comprendere quanto quella imbarcazione fosse molto fragile e che sarebbe bastato un niente per romperla. Era inevitabile che, prima o poi, quello che era appena accaduto si sarebbe comunque verificato.
Decise di prendere la cima che la teneva legata, la slegò e la barca lentamente si allontanò dal molo. Lui le diede una vigorosa spinta per far sì che accelerasse il passo. Una volta imbarcata tanta acqua non fu più in grado di galleggiare e sprofondò, creando un piccolo vortice di risucchio.
Entrambi ci guardammo e, tramite un cenno d'assenso, decidemmo di sederci al termine del molo. Rimuovemmo le scarpe in modo tale che i nostri piedi potessero toccare l'azzurra superficie levigata del lago e io cominciai a far oscillare le gambe così da smuovere l'acqua e vedere le pieghe che si creavano con un semplice tocco.
«Mi dispiace veramente tanto, Daisy. Sta andando tutto in modo diverso rispetto ai piani; credimi quando ti dico che volevo realmente parlarti di me, ma avrei preferito farlo in barca», affermò con i gomiti appoggiati sulle cosce e con le mani che tenevano la testa chinata.
«Così da impedirmi di fuggire di fronte alle rivelazioni?» domandai ironicamente sperando di tirarlo su di morale.
«Anche», ribatté accompagnando quella parola con una risata. «Ora come ora, non saprei neanche da dove iniziare o cosa dirti.»
«Jeremiah, non voglio forzarti. L'ho già fatto prima e direi che è stato sufficiente», risposi continuando a muovere i piedi ed evitando il suo sguardo.
Lui voltò la testa verso l'orizzonte e si perse nei suoi pensieri, mentre io rimanevo lì a osservarlo e a riflettere su di lui, su di me, su di noi, su quanto sarebbe stato bello vivere la nostra vita con semplicità, senza problemi o ricordi che tormentavano quell'equilibrio che ci auspicavamo di raggiungere. Decisi nuovamente di sviare il discorso pensando e sperando che una situazione meno forzata gli avrebbe consentito di lasciarsi andare e confidarsi con me.
«Jeremiah», sussurrai, quasi come se stessi ponendo una domanda, intimorita di destarlo da quel momento di riflessione interiore che stava vivendo.
«Si?» replicò sollevando una gamba e piegandola davanti a sé, mentre l'altra continuava a ciondolare sfiorando la superficie del lago.
«Devo presentarti ai miei genitori.» Mi limitai a fare quella affermazione. Andava fatto, non potevo porre una domanda. Probabilmente facendola lui avrebbe cercato una scusa per evitare quello spiacevole incontro che io stessa non volevo si verificasse.
«Va bene», rispose sorridendomi.
Mi sarei immaginata di tutto, fuorché una simile reazione. Dalla mia espressione accigliata, vidi il suo volto cambiare. «Che ti succede? Ti vergogni di me?» domandò indietreggiando leggermente, offeso della mia reazione.
«Io... No, ovvio che no. Solo che pensavo al fatto che mio padre...» iniziai, ma mi bloccai. Dovevo riflettere prima di agire o parlare in una simile situazione; una qualunque parola sbagliata avrebbe potuto fraintendere ciò che intendevo.
«Tuo padre non mi approverebbe? Questo ti preoccupa, Daisy?» domandò, ma proseguì, prima ancora che io riuscissi a dire altro. «So com'è tuo padre e so come è la tua famiglia, ma credo che conoscendomi capirebbe che sono un ragazzo molto attivo, che non ha paura di sporcarsi le mani. Sono mesi che ormai lavoro per lui e non gli ho mai causato problemi», asserì, spostandosi in avanti per occupare la posizione in cui si trovava precedentemente.
«Credimi se ti dico che temo più di te quel giorno, ma il momento sarebbe dovuto arrivare. Non posso continuare a uscire con te senza aver mai parlato con i tuoi genitori», affermò passandosi una mano tra i capelli.
Annuii e non continuai il discorso. Credetti che avrei dovuto insistere, invece tutto era stato molto più facile di quanto io temessi. Più riflettevo su ciò e più capivo quanto Jeremiah tenesse a me.
Mi sollevai in piedi e decisi di incamminarmi verso la coperta. Tenni le scarpe con la mano destra, e dopo aver percorso la maggior parte del molo, dondolando le braccia in sincronia con i miei passi, voltai solamente la testa mantenendo il busto in direzione frontale. Jeremiah aveva lo sguardo fisso su di me, quasi come se fosse incantato.
«Allora? Vieni?» domandai sorridendogli e arrossendo di fronte alla sua espressione.
In risposta si alzò, mi raggiunse e insieme andammo a distenderci sulla coperta. Ci mettemmo supini, io con la testa poggiata sul suo braccio steso, che ammiravamo il cielo azzurro, con qualche nuvola qua e là. Fu il primo a parlare affermando, con il dito puntato in alto: «Guarda quella».
«Quella cosa?» domandai.
«La nuvola. Quella lì sembra una casa», rispose. Entrambi la seguimmo con lo sguardo, mentre quella ci passava sopra la testa.
«Una casa?» chiesi sollevando la testa per fargli vedere il mio sorriso divertito.
«Mi stai forse dicendo che da bambina non hai mai dato una forma alle nuvole?»
Sorrisi nuovamente senza rispondere. Quale bambino al mondo non l'aveva mai fatto?
Nel momento in cui tornai alla posizione di partenza, lui fece scorrere la mano lungo il mio braccio, provocandomi dei piccoli brividi. La mia reazione naturale fu quella di avvicinarmi e stringermi a lui.
«Quella sembra uno scoiattolo», affermai, seguendo il suo gioco.
«Ma per niente! Io direi più un cane.»
Trovavo quello scambio di battute veramente tenero e non riuscivo a non cercare di scovare la forma più bizzarra per poter sapere cosa lui pensasse. «Quella sembra una forma astratta, come se due oggetti si stessero fondendo l'uno con l'altro. Due nuvole amanti, talmente affini da voler diventare un'unica cosa», asserii. Appena pronunciai quelle parole sentii i suoi muscoli contrarsi e improvvisamente bloccò la mano che si muoveva ancora lungo il mio braccio.
D'istinto posai quella a lui più lontana sul suo petto, proprio nel punto in cui si trovava il cuore, che batteva a un ritmo forte, pari al mio. Il corpo seguì la mia mano e mi sollevai in modo tale da guardarlo in volto.
«Jeremiah...» dissi, emettendo un suono che sembrava quasi un sospiro. Tenendomi bloccata la mano sul cuore, mi fece sollevare, in modo tale che entrambi fossimo seduti, l'uno attaccato all'altra.
Spostò una ciocca di capelli dal mio volto e fece scorrere il pollice lungo lo zigomo e giù fino al mento. Posò lo sguardo sulla bocca e, lentamente, premette il dito sul labbro inferiore, continuando a guardare solo lì, come se quello fosse un oggetto del desiderio.
Ci guardammo, poi, negli occhi e l'attrazione che provammo fu talmente forte che sarebbe stato più facile allontanare due calamite che noi. Le sue labbra si posarono sulle mie, dolcemente e senza fretta. Fu un veloce bacio a stampo, un lieve accenno per saziare quella curiosità; dopodiché si allontanò tenendo, però, la presa sul mio mento e mi guardò negli occhi come se mi stesse chiedendo il consenso per proseguire.
Annuii e le posò di nuovo. Dopo un primo momento, le mie labbra si dischiusero con un attimo di esitazione, mentre la sua lingua cercava, impaziente, la mia.
Continuammo a baciarci, senza più riuscire a staccarci, per un tempo che parve eterno. Niente fu volgare o troppo spinto, Jeremiah aveva talmente tanto rispetto per me che si capiva quanto stesse cercando di non fare la mossa sbagliata.
Quando il bacio si interruppe, lui accostò la sua fronte alla mia, i nostri sguardi incatenati, e disse: «Attendevo da così tanto tempo questo momento ed è stato addirittura più bello delle aspettative».
Annuii, ancora incapace di parlare, troppo agitata da quel turbinio di emozioni che avevo vissuto e che si stavano ancora protraendo. Avvicinai nuovamente le mie labbra alle sue sentendo già che mi mancava quel contatto.
Una volta distesi, lui supino e io a pancia in giù con le mani che reggevano la testa, ci guardammo. Lui accennò un sorriso, riempiendo quel momento di silenzio come se avesse appena pronunciato le parole perfette.
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