9 ~ 2*

Appena la porta sbatté alle loro spalle, Daisy rivolse la sua attenzione alla piccola e le disse: "E così siamo rimaste solo io e te".

Claire si limitò ad annuire e le si avvicinò per avvolgerla in un abbraccio. La donna non poté non sciogliersi con quel contatto così spontaneo e, in risposta, la strinse forte a sé.

"Ti va di andare a prendere Jason? Stiamo un po' al parco e poi torniamo tutti insieme a casa per mangiare e giocare, mentre aspettiamo la mamma."

"Sì! Sì!" cominciò a gridare la piccola e si staccò da quella stretta, mostrandole il volto gioioso.

La nonna le prese la mano e dicendo: "Andiamo a prepararci", la condusse su per le scale e poi nella sua cameretta, che una volta era la stanza di Jonathan. Aprendo la valigia, tirò fuori dei vestiti leggeri: un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt viola, il colore preferito di Claire.

Le tolse il pigiama e le mise addosso ciò che aveva scelto. Dopodiché la portò in bagno, la fece sedere su uno sgabello e cominciò a spazzolarle i capelli. "Sono lisci e morbidi come quelli della tua mamma", le disse facendoci scorrere le mani e ricordando quanto le piaceva prendersi cura della chioma della figlia. I capelli di Claire erano belli uguali, solo che il colore era biondo cenere, come quelli del padre; talmente lucenti da far invidia a chiunque.

Le fece lavare i denti e poi, dopo aver preso con sé le scarpe della bambina, le afferrò di nuovo la mano e la portò nella sua stanza. Una volta aperto l'armadio, si limitò a indossare il primo abito che trovò e poi infilò i piedi nel suo paio di calzature.

Sollevò da terra quelle di Claire e le chiese di sedersi sul letto, così che le gambe potessero essere un po' rialzate e lei riuscisse ad annodargliele più facilmente.

Non appena il suo piedino entrò dentro, raccolse i lacci e ripeté la stessa frase che diceva ad Amanda per insegnarle ad allacciarle. "Il coniglio ha due orecchie", iniziò formando le due asole.

"Gira intorno all'albero", continuò muovendo una delle due attorno all'altra e, infine, infilando l'asola nel buco, concluse con: "E va nella sua tana".

Claire rise non appena la nonna terminò di dire quelle frasi e lei in risposta si sollevò da terra per darle un bacio. "Coraggio, adesso andiamo da Jason."

Uscirono di casa e si incamminarono, mano nella mano, lungo il marciapiede della Contea. A quell'ora del mattino il caldo cominciava a farsi sentire prepotentemente e batteva sull'asfalto, facendo evaporare un leggero odore di catrame. Daisy si mise dal lato della strada e lasciò la piccola Claire dall'altra parte, così da riuscire a proteggerla da quell'olezzo e dai rischi che le macchine in circolazione avrebbero potuto causare.

Per fortuna il tragitto fu breve e la bambina passò tutto il tempo a saltellare e a canticchiare alcune melodie.

Non appena raggiunsero il luogo, individuarono facilmente Jason, il quale stava calciando la palla con Peter. Alzarono il braccio per farsi notare e poi Daisy gli indicò la zona gioco, come per fargli capire di poter continuare a giocare ancora un po' e che loro lo avrebbero atteso lì.

"Va bene!" rispose Jason urlando a squarciagola e il messaggio arrivò a destinazione forte e chiaro.

"Cosa preferisci fare? Camminare su quella costruzione, andare sull'altalena o..." Non fece in tempo a concludere la domanda che la piccola Claire cominciò a correre verso la rampa che l'avrebbe condotta in cima alla prima piattaforma di legno. Si aggrappò alla corda, situata nel suo centro, e si sollevò con una agilità tale che Daisy esclamò: "Bravissima", sebbene dentro di sé stesse pregando che non si facesse del male.

Un ponte era posizionato tra la prima base e la seconda e la bambina lo percorse correndo, facendo così risuonare le travi a ogni suo passo. Non appena arrivò alla parte sopraelevata, attirò l'attenzione di Daisy gridando: "Guardami, nonna! Guarda quanto sono in alto".

"La mia principessa", rispose lei sorridendole, mentre il cuore le si scaldava di amore. La seguiva dal basso con la testa leggermente sollevata, osservando ogni sua azione e pensando a quanto volesse bene a quella piccola.

La sua vita erano ormai i suoi nipoti e averli lontani la distruggeva. Per un attimo pensò a quanto velocemente fossero cresciuti i suoi due figli e fissando Claire si ricordò di come, fino a ieri, riusciva a tenerla in braccio tanto era piccola.

Stava diventando sempre più grande, così come Jason e come i suoi figli in passato. L'idea di continuare a vederli solo per un mese d'estate la faceva star male e l'unico pensiero che le risuonava nella testa era che avrebbe voluto esserci quando Claire avrebbe perso il suo primo dentino, quando Jason avrebbe vinto un premio per il basket, o quando entrambi sarebbero andati al loro ballo scolastico.

Invece lei era in quella città, a chilometri di distanza, e poteva godersi solo un mese in loro compagnia. Chissà per quanto ancora, pensò, domandandosi se con il passare degli anni non si sarebbero stancati di farle visita.

Averli lì nella Contea di Madison sarebbe stato sicuramente più facile, perché l'idea di trasferirsi ad Atlanta non era, per lei, contemplabile.

Ovviamente la speranza che tra Amanda e Caleb potesse rinascere quell'amore giovanile non la abbandonava. Dentro di sé, desiderò ancora che il rivederlo potesse dare alla figlia un motivo per non andarsene con tanta facilità.

Le grida della piccola Claire la ridestarono dai suoi pensieri. Era ferma, seduta sulla cima dello scivolo, prova a scendere giù.

Dandosi una spinta, la pendenza la portò a percorrere quella breve lunghezza in tutta velocità. Arrivata a terra Daisy le corse incontro e si complimentò con lei. "Sei stata bravissima, tesoro!"

Claire le sorrise, come se fosse fiera di ciò che aveva fatto ed entusiasta delle belle parole appena ricevute. Non appena quel momento di gloria cessò, riprese a guardarsi attorno come per cercare di scegliere con cosa avrebbe potuto divertirsi.

"Mi spingi sull'altalena?" le domandò la bambina, intrecciando immediatamente le dita con le sue e trascinandola verso quella zona del parco. La nonna la seguì e appena la piccola si sedette, le disse: "Reggiti forte, mi raccomando", timorosa che potesse cadere.

Daisy afferrò la catena che reggeva la seggiola e cominciò a farla dondolare, mentre Claire si dava lo slancio con le gambe.

"Più forte, nonna!"

Udendo quelle parole, staccò le mani da quel punto e le spostò dietro alla schiena della bambina, così da poterla spingere con più foga, facendole raggiungere un'altezza maggiore.

Claire cominciò a ridere e un "Sì", accompagnato da altre esclamazioni di gioia, le uscì dalla bocca.

Daisy continuò a spingerla divertendosi con lei ma, con il passare dei minuti, quell'emozione cominciò ad attenuarsi perché un ricordo stava bussando prepotentemente alla sua porta, chiedendo di essere rivissuto e la nonna non poté non accoglierlo.

"Ti ho detto di no. Mamma, lasciami stare!" esclamò il ragazzino alla mia destra, mentre la donna gli sistemava la coppola sulla testa. Le prese la mano e gliela allontanò dalla faccia, accennando una smorfia di fastidio per tutte quelle attenzioni che gli stava rivolgendo.

"Sistemati almeno la sciarpa che con questo freddo rischi di prenderti un brutto raffreddore", sussurrò lei. Allungò la mano e la ritirò il secondo seguente, in reazione all'occhiata glaciale che le rivolse il figlio.

Sogghignai per quella sua reazione e, prima che si accorgessero che li stavo spiando, girai lo sguardo verso i miei genitori. In quel momento stavano fissando nella stessa direzione, con fare impaziente, in attesa che il mio treno sopraggiungesse.

Io non avevo il coraggio di far loro compagnia in quell'azione, perciò distrarmi con ciò che mi circondava era ormai diventato il mio passatempo preferito in quegli interminabili attimi.

Avevo assistito all'addio tra due innamorati, al saluto di quei genitori che mandavano i figli a stare altrove, al pianto di chi leggeva una lettera e probabilmente pensava che non avrebbe rivisto per un po' il mittente. Quella stazione aveva risvegliato il mio occhio curioso, attento ai dettagli e alle sfumature di ciò che mi circondava. Mi rendevo conto che tutti, come me, erano in partenza: verso un luogo ben definito, un'avventura o un nuovo inizio.

Percepii la vita di chiunque scorrere davanti ai miei occhi e mi domandai se anche la mia stesse procedendo. La risposta era assolutamente affermativa: stavo per iniziare una nuova esperienza; imposta e non voluta, ma sperai che potesse comunque aiutarmi a crescere e magari permettermi di comprendermi meglio.

Mi sarebbe mancato tutto ciò a cui ero abituata, ma quello non era un addio. Partivo per tornare, di quello ne ero certa. Sperai solo che la persona che sarebbe rincasata, potesse risultare una versione migliore di quanto io, in quel momento, fossi.

Il rumore della campana che suonò mi scosse e, d'istinto, feci un passo indietro sulla banchina, nonostante fossi già ben lontana dalle rotaie.

Lo sbuffo di vapore della locomotiva segnò il suo arrivo e una leggera brezza ci colpì, causandomi un sollevamento del vestito, che prontamente limitai fermandomi la gonna con entrambe le mani.

Raccolsi con me i miei bagagli. "Eccolo qui", dissi cercando di sviare il loro sguardo. Ero triste e non volevo darlo a vedere, perciò cominciai a fissare coloro che già stavano salendo sulle carrozze.

"Fai buon viaggio, tesoro", affermò mia madre. Mio padre si limitò ad annuire e io non seppi cosa rispondere. Dissi un semplice "Vi scriverò ogni tanto", consapevole che quella promessa sarebbe stata dura da mantenere.

Mi strinsi nel cappotto e, con calma, mi incamminai verso la porta per accedere alla carrozza. Prima di me c'erano altre persone e quell'attesa mi stava uccidendo.

Erano passati mesi dalla conferma della partenza e ormai l'avevo accettata, ma il dover aspettare così tanto mi faceva dubitare di ogni singola certezza che credevo di avere. Mi domandai cosa sarebbe accaduto se mi fossi voltata e avessi iniziato a supplicare i miei di non farmi partire e, come mossa da forze esterne, girai la testa verso di loro.

Avevano lo sguardo posato su di me e mamma mi sorrise, come se potesse bastare quello a infondermi il coraggio per ignorare ogni mia esitazione e salire a bordo. Papà fu inespressivo anche in quell'attimo e ciò mi dispiacque, perché desideravo che almeno in quell'istante fosse triste per il fatto che sarei stata lontana da lui per un bel po'.

"Signorina, prego", affermò l'uomo dietro di me. Scossi la testa e mi accorsi che dinanzi, oramai, non avevo più nessuno.

Trassi un profondo respiro e feci un passo in avanti. Montai sulla carrozza e capii che ogni mio briciolo di speranza era appena stato spazzato via dalla consapevolezza di quel destino scritto.

Avanzai con calma e mi sedetti in direzione di marcia, così da non dover procedere al contrario e rischiare di sentirmi male. I tre posti intorno a me erano vuoti e decisi di togliermi il cappotto e posarlo sul sedile accanto al mio, così da avere meno disturbo possibile.

Avevo scelto il posto accanto al finestrino per poter veder scorrere sotto ai miei occhi le città e i campi che avremmo passato. Sarebbe stato bello fantasticare su quel luogo o quell'altro, ammirare zone nuove e magari sognare di visitare quei posti un giorno.

Osservai fuori per vedere quante persone ancora dovessero salire a bordo. I miei genitori erano sempre fermi sulla banchina e mi stavano guardando.

Non seppi per quale motivo, ma quella scena mi diede un leggero conforto. Sarebbero rimasti lì fino all'ultimo istante prima della mia partenza e, sorridendo a entrambi, sollevai la mano per poterli salutare un'altra volta.

Girai poi la testa in posizione dritta rispetto alla marcia, nonostante con la coda dell'occhio mi venisse naturale continuare a guardare ciò che accadeva fuori. Poggiai allora la testa sul finestrino e trassi un profondo sospiro, supplicandomi di essere forte e di iniziare quel viaggio con tutti quei buoni propositi che mi ero costruita nelle settimane precedenti.

Fu quando raggiunsi quella consapevolezza che una piccola macchia marrone attirò la mia attenzione. "Redford", affermai, coprendomi poi la bocca all'istante per aver pronunciato quella parola ad alta voce.

Mi raddrizzai sulla sedia e osservai con attenzione quel cane che pareva proprio il piccolo cane di Sant'Umberto che avevamo trovato sul retro del Jazz Band Club.

Mi chiesi se quello fosse realmente lui e se nei paraggi ci fosse anche Jeremiah. Cominciai a scrutare la zona, esaminando tutti i volti coperti da sciarpe e cappelli, sicura che l'avrei comunque riconosciuto tra di loro.

Il mio respiro si fece man mano più affannoso, come se il mio corpo mi spromasse a una disperata ricerca. Sentii risuonare la campana che annunciava la partenza e, di colpo, sgranai gli occhi.

"No!" dissi ancora, incurante che qualcuno potesse pensare che fossi pazza a parlare da sola.

Continuai a guardare verso il cane e nella zona lì adiacente, ma di Jeremiah non c'era traccia. Ascoltai il battito del mio cuore e mi resi conto di come stesse galoppando in maniera forsennata.

Pensai che avesse chiesto a Ellen quando sarei partita, forse per darmi un saluto. Dimenticai all'istante tutto ciò che era accaduto al funerale di Al: la lite, la rissa e le promesse non mantenute; volevo solo rivederlo per un'ultima volta.

A un certo punto, però, sentii la porta sbattere con forza e capii che il treno era in procinto di partire. "No", sibilai, fino a quando non sentii il rumore del movimento sulle rotaie e vidi la scena davanti a me mutare prospettiva a ogni passo.

Stavamo avanzando e quando il treno superò il cane capii che la mia speranza di poter rivedere Jeremiah si era appena esaurita.

Chiusi gli occhi, cercando di trattenere delle possibili lacrime e spostai la testa verso l'alto, sempre con lo stesso intento. Emisi un profondo respiro, mentre cercavo di calmarmi e di far tornare ogni mia funzione alla normalità.

"Mi scusi, è libero questo posto?" sentii chiedere. Spalancai gli occhi e osservai il ragazzo, domandandomi se si stesse rivolgendo a me.

Il suo sguardo era posato sul mio volto, perciò risposi: "Sì, certo", notando come stesse indicando il posto davanti al mio.

"Ottimo!" ribatté, aggiustando il bagaglio e abbandonando sciarpa e guanti sul sedile. Lo vidi mentre si toglieva il cappotto e mi imitava, occupando il posto accanto al suo con tutto ciò che avrebbe potuto recargli fastidio.

"È molto freddo per essere la prima settimana di dicembre, non trova?" chiese, sfregandosi le mani tra di loro e avanzando verso il punto nel quale si sarebbe seduto.

"Abbastanza", risposi accennando un sorriso. Non ero una persona molto incline alle chiacchiere, specie con un perfetto estraneo e mantenere una conversazione mi era davvero difficile.

Lui non aggiunse altro e si girò di lato, per poter sfilare dalla tasca interna del suo cappotto un piccolo libricino. Visto di profilo, non potei non far caso al naso pronunciato che in quell'angolazione spiccava ancor di più.

Nel complesso realizzai che aveva comunque dei bei tratti: marcati e adulti.

"Abituarmi ad avere il naso ghiacciato e dovermi coprire per bene è sempre una sofferenza. Amo così tanto le stagioni calde che il mio corpo si rifiuta, ogni anno, di accettare l'arrivo dell'inverno", continuò per poi specchiarsi sul vetro della carrozza e aggiustarsi i biondi capelli.

Sorrisi per quella scena, perché era la prima volta che mi capitava di vedere un ragazzo fare un'azione simile. Per fortuna lui non se ne accorse e ringraziai mentalmente di non aver fatto una figuraccia.

"La primavera è sicuramente la stagione più bella", affermai, per poi continuare con: "Gli alberi sono in fiore e tutto si tinge di una moltitudine di colori. Il mondo riprende vita quando comincia lei".

"Ha assolutamente ragione, ma sono uno che fa poco caso alla natura e alle tinte di fiori, alberi, prati e quant'altro."

Non risposi a quell'affermazione e spostai lo sguardo fuori dal finestrino, verso quelle terre che io, invece, non riuscivo a non ammirare.

"Tutto il contrario di lei, a quanto vedo", aggiunse sogghignando.

"Già."

"Ha lo sguardo triste, se posso permettermi", affermò spostando la testa, così da poter incrociare i miei occhi.

Mi passai la mano sul volto e mi limitai a dire: "Ho solamente perso le occasioni e le speranze". Non era certo mia intenzione parlare di me stessa a uno sconosciuto incontrato su un vagone del treno e perciò rimasi vaga dinanzi a quelle sue constatazioni.

"Mi dia pure del tu", aggiunsi quando lui non replicò alla mia frase.

"Anche tu."

Per qualche minuto nessuno dei due disse altro, ma lo osservai mentre con una penna appuntava qualcosa su quel libricino che aveva tra le mani. Sembrava sgualcito, un po' come il taccuino sul quale disegnavo qualche bozza quando mi balenava in mente un'idea.

Pensai che in collegio non me lo avrebbero negato e in camera avrei potuto dare sfogo alla mia fantasia senza problemi. Accennai un sorriso appena lo realizzai e subito il ragazzo se ne accorse.

"Stai sorridendo. Un pensiero felice, immagino."

"Sì, una bella constatazione", ribattei, non sapendo cos'altro dire e continuando la mia politica del non parlare a sproposito di ciò che mi turbava con uno sconosciuto.

Quei propositi andarono in frantumi pochissimi secondi dopo, nell'attimo esatto in cui lui disse: "Comunque io mi chiamo Oliver."

Dopo averlo informato del fatto che il mio nome era Daisy, intavolò una nuova conversazione e, da lì, parlammo per tutta la durata del viaggio. Mi raccontò di come la sua passione fossero le stelle e i calcoli, e di come stesse cercando di coniugare quelle due cose attraverso gli studi universitari.

Era tornato ad Hunstville per la festa del Ringraziamento, così da stare un po' con la sua famiglia, prima che le lezioni ricominciassero.

Aveva cinque anni più di me, ma ci trovammo comunque bene a parlare. Gli spiegai che ero diretta al collegio e che il mio sguardo triste era dovuto al fatto che sulla banchina speravo di vedere una persona a me molto cara.

Confidarmi con un perfetto estraneo fu un'esperienza nuova, ma mi fece sentire meglio perché mi sentii quasi svuotata da ogni peso che gravava sul mio stomaco.

Oliver era un buon ascoltatore, molto diretto e sempre dalla risposta pronta. Mi fece trascorrere quelle poche ore in un modo veramente piacevole, a tal punto che quasi mi dispiacque doverlo salutare non appena il treno arrivò alla mia fermata.

"Arrivederci", ci dicemmo. Nessuno dei due sapeva se ci saremmo mai rivisti, ma era bello poterlo affermare, soprattutto quando mi augurò buona fortuna per tutto. Con quella frase ero quasi certa di aver conosciuto una persona dall'animo buono.

Accolsi quelle sue parole con gioia e il cuore mi si scaldò, perché era proprio ciò che avevo bisogno di sentire. Scesi dal treno e cercai il cartello recante il mio nome con un sorriso sulle labbra e la forza di chi sapeva che sarebbe uscita vincitrice anche quella volta.

Ad aspettarmi c'erano due signori, un autista e il mio accompagnatore, che mi condussero verso una macchina, con la quale saremmo andati al collegio. 

All'ingresso dell'imponente struttura, invece, trovai ad attendermi il rettore, il quale, facendomi avanzare verso il centro dell'ampio e pulito atrio, mi salutò affermando: "Benvenuta, signorina Sullivan. Questa sarà la sua casa per i prossimi tre anni".

Nota dell'autrice

Buona domenica a tutti, cari lettori!

Mi scuso infinitamente per la lunghezza di questo capitolo. Nei miei piani doveva essere di circa 1500 parole, ma io mi perdo nei discorsi e sono arrivata a 3200. 

PERDONATEMI! 🙈

Ci tengo a scrivere questa nota autrice intanto per ringraziare tutti coloro che continuano a leggermi. Senza di voi probabilmente avrei già mollato da un pezzo, quindi grazie davvero di cuore.

In secondo luogo, mi scuso se aggiorno ogni morte del papa (come si suol dire). Purtroppo gli esami universitari e la gestione della campagna WP_Advisor mi portano via fin troppo tempo e mettermi a scrivere mi risulta quasi impossibile!

Concludo dicendovi che con questo capitolo termina Eternity.

Il sequel riprenderà con un bel salto temporale. Di quanto non ve lo dirò, ma Daisy ha ancora un bel po' di quadri importanti da raccontare e per vostra (s)fortuna riguardano eventi tra loro leggermente distanti. 

Mi fermo qui che altrimenti sarei in grado di anticipare tutta la storia.

Detto questo, siete soddisfatti di questa seconda parte del romanzo? Speravate in qualcos'altro e siete rimasti delusi? 

Oliver come vi è sembrato come personaggio? Vi aspettavate qualcosa di simile?

Insomma, vi ho posto un bel po' di domande in questa eterna nota autrice. Commentate con le vostre riflessioni, che sono proprio curiosa di sapere cosa ne pensate.

Grazie ancora per tutto. Un bacio <3

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