5 ~ 2
Quando i piccoli tornarono con in mano quella massa di zucchero filato, più grande della loro testa, le due si scambiarono un'occhiata come per mettersi d'accordo sulla strada da prendere. Proseguirono con un passo lento, continuando a guardarsi intorno senza fretta, tutti vicini tra loro.
Jason tentò, invano, di fermarsi a ogni stand, ma Amanda continuò a ripetere che finché non avessero terminato di mangiare non avrebbero fatto niente.
«Jason, non vale ingurgitare tutto. Questa sera non la voglio sicuramente passare accanto a te in bagno», affermò con tono serio, emettendo un istante dopo una risata che non era stata in grado di contenere.
Ogni tanto strappava dei piccoli batuffoli dallo zucchero filato di Claire e li mangiava, pensando che per un giorno avrebbe potuto non seguire la ferrea dieta che si era imposta. Appena trovarono una panchina libera, tutti e quattro vi si sedettero. Da quel punto, immerso nel verde del parco lì presente, si scorgeva in tutta la sua maestosità la ruota panoramica. I bracci disposti a raggiera erano metallici, proprio come le seggiole che si trovavano alle loro estremità; la particolarità era insita nel fatto che una luce rossa riusciva a illuminare quella che giungeva in cima, quasi come se il colore dell'amore richiamasse il fatto che quello era il momento e il posto esatto nel quale i due innamorati, lì seduti, avrebbero potuto scambiarsi un bacio.
Daisy sorrise al ricordo della prima volta in cui Jeremiah la portò lì e intavolò una discussione proprio parlando di quello. «Sapete che da anni qui in città montano le giostre? Anche quando io ero giovane, era usanza fare un giro al Luna Park per inaugurare l'inizio dell'estate e per salutarla quando stava per sopraggiungere l'autunno.»
«Ma la ruota panoramica non è un po' troppo moderna per i tuoi tempi, nonna?» domandò Jason, mentre con la lingua andava a pulire gli ultimi residui di zucchero filato rimasti sul bastoncino di legno.
Daisy rise, anziché sentirsi offesa e rispose: «No, credo che la prima fosse stata costruita addirittura prima dell'inizio del secolo». Fece una pausa e sollevò il dito prima che Jason potesse ribattere: «No, non sono così vecchia».
Tutti e tre, in risposta, scoppiarono in una fragorosa risata.
«Ci sei mai venuta con il nonno?» domandò la piccola Claire, con le manine sotto le cosce, mentre dondolava in avanti e indietro le gambe.
«Moltissime volte e la parte più bella era quando mi portava sulla ruota panoramica» rispose Daisy, sorridendole. Aggiunse poco dopo: «Il primo anno che venimmo qui insieme, come prima giostra andammo proprio lì. Ricordo che c'era una fila interminabile e io non sapevo pazientare; continuavo a insistere sul fatto che saremmo potuti tornare più tardi, o che tanto ci sarebbe sicuramente stata l'anno successivo». Si massaggiò la fronte e cercò di nascondere una risata.
«Dai, Jeremiah» iniziai tirandolo per un braccio. «Andiamo da un'altra parte, la coda è troppo lunga e io devo tornare a casa presto.»
Lui sbuffando, mi afferrò e mi riportò accanto a lui. «Stai ferma» ordinò.
In tutta risposta incrociai le braccia al petto e cominciai a battere il piede, sospirando rumorosamente. Desideravo che comprendesse la mia irritazione, e per infastidirlo ancora di più cominciai a guardarmi in giro e a osservare tutte le altre giostre, o sorridere a quei volti familiari che incrociavo con lo sguardo.
Dopo un'interminabile attesa finalmente toccò a noi, salimmo e ci posizionammo sulle seggiole. Io mi misi nel lato più lontano, con il braccio poggiato sul bordo, mentre reggevo la testa.
Guardavo in lontananza la città, meravigliandomi di come pian piano diventasse sempre più buia. Si spegneva come se il centro della vita fosse dove eravamo noi e tutto il resto stesse dormendo, in attesa del nuovo giorno che tra un po' di ore sarebbe cominciato.
«Smettila di fare l'imbronciata e vieni qui», affermò, afferrandomi per le cosce e avvicinandomi a sé. Non appena fummo terribilmente vicini, con il braccio mi avvolse le spalle e mi portò ancora più a contatto. Sentivo il calore che emanava e tutto d'un tratto la rabbia mi passò, lasciando spazio all'imbarazzo, all'affetto e alla voglia di abbracciarlo. Mi lasciai andare, rilassandomi, e poggiai la testa sulla sua spalla, mentre lui mi accarezzava un braccio.
Osservammo in silenzio il paesaggio che si stagliava di fronte a noi e, poi, ammirammo le stelle facendo scorrere il nostro sguardo su quelle costellazioni di cui nessuno dei due conosceva il nome.
Quando stavamo per raggiungere la cima, lui parlò: «Sappi che soffro dannatamente di vertigini, ma ho voluto farti un regalo».
«Regalo?» domandai incuriosita.
Non feci in tempo a sentire la risposta, che all'improvviso la ruota si bloccò e cominciò a dondolare, mossa dal vento settembrino.
«Jeremiah, aiuto! Si è fermata. Come facciamo a scendere?» cominciai a farfugliare, nervosa.
«Guarda giù, il ragazzo ti sta facendo un segno. Sembra quasi un pollice verso l'alto. Dici che vuol dire che è tutto ok?» continuai. «Oddio, tu non puoi neanche guardare giù perché soffri di vertigini. Tranquillo, Jeremiah, ci sono qui io», affermai, prendendogli la mano e stringendogliela.
Lui cominciò a ridere. «Coraggio, Daisy. Non farmi perdere questa occasione che mi è costata più di quanto io possa permettermi: baciami e scendiamo da questa giostra infernale».
«Baciare? Com...» non feci in tempo a terminare la domanda che la bocca di Jeremiah piombò sulla mia. Un calore partì da quelle labbra socchiuse e la tenerezza della carezza che fecero sulle mie mi sciolse il cuore. Non fu un bacio profondo, come quelli che ci eravamo scambiati al Rock Pond, ma si limitò a bagnarmi il labbro inferiore e poi, poggiando la mano sulla guancia esposta all'esterno, si allontanò guardandomi dritta negli occhi. «Sei importante, Daisy.»
Appena pronunciò quelle parole mi sciolsi, lo abbracciai forte e sorrisi.
L'espressione innamorata era presente sul volto di Daisy anche quando finì di raccontare la scena.
«Ha chiesto di far fermare la giostra per te, in modo tale da poterti baciare in cima?» domandò Amanda, spalancando gli occhi. La madre annuì e sorrise nuovamente al ricordo.
«Quindi se salgo sulla ruota panoramica con Claire, poi devo baciarla?» chiese Jason, mentre guardava sua sorella. Prima ancora che le due donne rispondessero, fece una faccia disgustata e disse: «Che schifo. Io non voglio baciare una femmina».
«Ti ricrederai, ometto», rispose Amanda, sollevandosi dalla panchina e passandogli una mano tra i capelli spettinandoglieli tutti.
«Coraggio, andiamo a prenderci un hot dog. C'è quel chiosco laggiù che mi chiama da dieci minuti», affermò la madre, afferrando Claire per la mano. «Voi due fate a metà, visto che avete già mangiato!» ordinò, incamminandosi.
Arrivati ne presero tre e i due fratelli, stranamente, riuscirono a dividerselo in maniera equa, nonostante fosse evidente il tentativo di Jason di strapparsene un pezzo più grande. Fu l'occhiata di Amanda a convincerlo a non portare a termine ciò che stava architettando.
«Mamma, posso andare sugli autoscontri?» domandò Jason, vedendo vari bambini della sua età divertirsi. Lei acconsentì, ma alla richiesta di Claire di andare con lui disse: «No, tesoro. Non è un gioco per te».
Le tre allora si misero sul bordo e lo guardarono divertirsi a più non posso, mentre con tutta maestria si destreggiava tra le auto, sterzando prima da un lato e poi dall'altro nel tentativo di colpire quante più auto possibili. Daisy, tra sé e sé, si complimentò con lui e pensò che fosse davvero il più bravo lì in mezzo a quella massa. Non lo credeva solamente perché stava parlando del nipote, anzi; quel pensiero era davvero sincero. Gettava occhiate ovunque, cercando il suo bersaglio e schivando coloro che tentavano di colpirlo, ruotava il volante con tutta la forza che aveva e di continuo colpiva tutti gli obiettivi.
Quando terminò il giro e le macchine si bloccarono, alcuni ragazzini corsero a fargli i complimenti e a chiedergli dove avesse imparato.
«È un dono», rispose semplicemente, mentre si accordava con loro per uscire qualche pomeriggio. Daisy non poté non gioire, dinanzi al suo nipotino che faceva amicizia con i bambini della Contea. Si ritrovò a pensare a quanto fosse bello vedere come per loro fosse così semplice conoscersi, senza alcuna pretesa o presunzione.
Credette che, per Jason, dovesse essere difficile trascorrere un'estate intera con la nonna, quindi era più che contenta se riusciva a passare qualche pomeriggio con ragazzini della sua età. Magari avere un gruppetto con cui si trovava bene, avrebbe fatto sì che sarebbe tornato più volentieri e più spesso qui a trovarla.
Quando Jason si avvicinò, gonfiò il petto e cominciò a camminare orgoglioso. «Avete visto quanto sono stato bravo?»
«Sì, ometto», rispose Amanda. «Ora avanza, che vediamo quanto sei forte nella Casa degli orrori.»
«La casa degli orrori? Ma io non ci voglio entrare lì, mamma», disse Claire, abbassando di qualche tono la voce e avvicinandosi a lei, come se fosse spaventata.
«Vedi, mamma. Claire non vuole entrarci, quindi andiamo in qualche altra giostra», affermò Jason avanzando e guardandosi intorno, come se stesse cercando di capire dove si trovasse la casa.
«Certo», cominciò Amanda, «Claire non vuole entrarci. Certo», concluse, annuendo e cercando di trattenere una risata.
«Io non ho paura!» gridò, accelerando. «Dai, andiamo. Portami nella casa degli orrori, perché io non ho paura.» Ribadì il concetto, proprio come aveva fatto la madre precedentemente.
«Guardate che la casa è davvero terrificante», intervenne Daisy, cercando di dissuadere Jason dal tentativo di mostrare la sua mascolinità. Era rimasta traumatizzata da quel giro e di sicuro lo sarebbe stato anche Jason visto che si vedeva quanto fosse già impaurito al solo pensiero di metterci piede.
«Ci sei stata?» domandò Claire, staccandosi dalla mano della mamma e afferrando quella della nonna.
«Se volete vi dico cosa c'è al suo interno, così avrete una storia da raccontare», rispose Daisy, mentre cercava in giro un posto nel quale appoggiarsi. Videro i tavoli di un bar e, dopo aver ordinato due Coca-Cola e due Thè alla pesca, si accomodarono curiosi di scoprire cosa la Casa degli orrori contenesse.
«Ragazzi, si va in due! Quante volte ve lo devo ripetere?!?» tuonò il signore che si apprestava a far entrare noi ragazzi in coda dentro la Casa degli orrori.
«Meno male che sono necessarie due persone!» esclamò Jeremiah, mentre ci posizionavamo più avanti, segno che anche quella fila si stava riducendo. Per fortuna il numero di persone in coda era decisamente inferiore rispetto alla ruota panoramica, anche se, a dirla tutta, avrei preferito un'altra attrazione. Avevamo solo quattro coppie davanti e pensai che c'era ancora una minuscola possibilità di fuga. Magari un cortocircuito, un guasto o un infortunio.
«Già, per fortuna...» risposi ironicamente.
«Avanti il prossimo!» gridò l'uomo. Dopo aver emesso un suono rauco e aver urlato parole così semplici capii che più mi avvicinavo a lui, più la voglia di andarmene aumentava.
«Jeremiah, possiamo provare un'altra giostra?» chiesi. «Non è che io abbia così tanta voglia di terrorizzarmi e ti considero già sufficientemente forte, da non esigere alcuna altra prova», mi lamentai, voltandomi per andarmene.
«Coraggio, Daisy Sullivan. Non avere paura. Mi hanno detto che alla fine esci ridendo da case come queste, data la loro banalità», rispose, premendomi la mano sulla schiena e costringendomi così a muovermi.
Quando fu il nostro turno ci legarono entrambi in vita con una corda e ci dissero di non cercare di sciogliere il nodo, in quanto il gioco consisteva proprio nel non separarsi. Pensai che si trattasse di una sorta di partita sulla fiducia e sul seguire l'altro mentre indicava la via. Ci spiegarono che il percorso era completamente al buio e che, di tanto in tanto, avremmo trovato qualche indicazione che ci avrebbe orientati.
«Jeremiah, siamo ancora in tempo per andarcene», ribattei, mentre gli afferravo la mano e avanzavo tenendomi sempre più vicina a lui.
Si sentivano delle urla provenire in lontanza, che rimbombavano per tutta la casa come un eco che si propagava. Intorno a noi vi era il buio più totale, tanto che non riuscivo nemmeno a scorgere il volto di Jeramiah.
La superficie su cui poggiavamo i piedi era completamente levigata, in modo tale che nessuno rischiasse di inciampare e ferirsi, ma alle pareti vi erano increspature quasi come se ci trovassimo all'interno di una grotta.
D'un tratto uno scrosciare d'acqua improvviso interruppe quel silenzio che solo i nostri respiri stavano tentando di coprire.
Emisi un urlo e saltai, stringendo ancor di più la mano di Jeremiah. Lui mi avvicinò a sé sussurrando: «Non è niente, continua a camminare».
Sembrava sull'attenti, quasi come se volesse scorgere un rumore prima ancora che qualcosa cercasse di farci prendere paura. Quando qualcuno azionò una motosega, lo sentii irrigidirsi. Voltai la testa, nel tentativo di comprendere da dove quel suono provenisse.
Il cuore mi martellava nel petto, il respiro accelerava e la tensione saliva alle stelle.
Sentii la motosega sempre più vicina e una folata spostò i miei capelli, come se qualcuno mi fosse appena passato accanto e mi avesse superata.
Rabbrividii e affermai: «Due sono andati, spero manchi poco». D'un tratto si sentì il rumore di una miccia che si accendeva e la parete intera prese fuoco, mostrando come quella fosse interamente percorsa da centinaia di ragni.
Saltai, gridando e sperai con tutta me stessa che fossero finti.
«Credo che quello fosse il segnale», disse Jeremiah, e ciò ci fu confermato da una seconda luce che si illuminò sulla parete opposta quasi come se ci stesse tracciando il sentiero.
«La prossima giostra la scelgo io. Guai a te se ti azzardi a proporne un'altra», affermai, con uno sguardo serio. Rendendomi conto solo dopo qualche secondo del fatto che non sarebbe stato in grado di vedermi.
«Con la ruota panoramica alla fine è andata bene», ribatté, emettendo una lieve risata.
«Taci! Che mi sono spaventata appena ha cominciato a traballare», replicai, afferrando la corda, quasi come se avessi percepito un pericolo imminente.
Non mi ero sbagliata: sentii dei passi tutti intorno. Provenivano da ogni direzione; producevano un leggero suono calpestando il terreno a ritmo, quasi si trattasse di una marcia silenziosa.
Ci bloccammo, appena ci rendemmo conto che i passi erano sempre più vicini. Avanzavano verso di noi e ci sentivamo come topi in una gabbia, incapaci di trovare una via di fuga in ogni angolo dal quale tentavamo di evadere.
«Jeremiah, che facciamo?» domandai poggiandomi sul suo petto e attendendo che mi stringesse, quasi come se tra le sue braccia, potessi sentirmi più al sicuro.
Mi avvolse e disse: «Attendiamo di vedere cosa succede. Ricorda, Daisy, non ti farebbero mai del male».
I passi erano sempre di più. Sempre più vicini.
Li sentivamo. Ne eravamo circondati e ci stringemmo sempre più in quella morsa soffocante.
Tutto d'un tratto luce.
Il buio scomparve e una luce illuminò la sala, mostrandoci ciò che ci stava attorno: specchi. C'erano in ogni dove, superfici che ci ritraevano da tutte le angolazioni possibili.
Ci guardammo intorno, nel tentativo di andarcene, ma tra i vari riflessi scorgere la via di fuga era un'impresa.
Il suono di un vetro che andava in frantumi fu ciò che ci convinse che quella era la direzione giusta, e non per scelta volontaria, ma perché credevamo che quello potesse essere un segnale.
Avanzammo e una risata fragorosa rimbombò, ad un certo punto, in tutta la sala. La nostra figura sugli specchi venne sostituita da una gigantesca bocca aperta, quasi si trattasse di uno schermo del cinema che trasmetteva di continuo la stessa immagine. Non mi capacitavo di come fosse potuto accadere. Sembrava uno specchio, prima c'eravamo noi e in quel momento quella.
Una fauce che si spalancava, mostrando solamente la cavità oscura e un'ugola in lontananza. Continuava a comparire. Rimbombava. Non se ne andava.
Suonava nella mia mente, fino a sovrapporsi alle urla. Le mie urla.
«Daisy, stai calma. Ora ce ne andiamo. È tutto finito.» Non mi accorsi di stare piangendo, fino a quando la voce calma di Jeremiah non mi riportò alla realtà.
«Portami fuori da qui», risposi, tirando su con il naso e asciugandomi le lacrime.
Per fortuna l'uscita era dietro l'angolo e appena Jeremiah la trovò, mi prese la mano e mi trascinò fuori. Mi aggrappai a lui e mi lasciai accompagnare a una panchina, lontana dalla calca di gente. Lo abbracciai e lo strinsi forte, rimanendo così per moltissimo tempo.
Quel ricordo ancora terrorizzava Daisy, infatti un brivido le attraversò la schiena non appena rammentò nuovamente la bocca aperta che emetteva quella risata terrificante.
«Io non ci voglio entrare», esclamò Claire, nascondendosi sotto il braccio della madre.
Jason non disse nulla e Amanda non chiese, per paura che il figlio, nel tentativo di mostrare quanto fosse forte e coraggioso, decidesse di entrarci ugualmente. Si limitò a passargli una mano tra i capelli e sorridergli, mentre al tempo stesso faceva sedere Claire in braccio a sé e si faceva abbracciare.
Daisy si guardò attorno e, come molto spesso accadeva durante la serata, sorrise a volti noti. La popolazione della Contea era notevolmente aumentata a partire dagli anni cinquanta, a seguito della costruzione del Redstone Arsenal, ma c'erano ancora alcune persone che, come lei, non avevano alcuna intenzione di andarsene.
Jeremiah era lì, come poteva anche solo Amanda chiederle di andarsene, togliendole la possibilità di fargli visita ogni giorno?
Curiosità
Alle elementari sono entrata per la prima volta in una Casa degli orrori, molto simile a questa descritta. Sono rimasta traumatizzata da quell'esperienza, tanto che l'unico ricordo che ho sono io che piango e supplico l'ultimo uomo che doveva spaventarci di lasciarci andare.
Inutile dirvi che dopo quella volta non sono più entrata in una Casa degli orrori.
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