Capitolo 4

Da quella sera, la mia mente era controllata, dominata da due capi-fazione, Darcey, che aveva una folta schiera di fanti e cavalieri, e Lauren, munita di un vasto corpo di temibili soldati fantasma. Le due fazioni erano costantemente in lotta nel vasto terreno incolto della mia mente. 

Era l'ultimo giorno di lavoro prima delle ferie natalizie, ero davanti la scrivania, guardando il computer di fronte a me. Avrei dovuto essere sollevato per l'imminente arrivo delle ferie, ma non riuscivo a trarne alcuna soddisfazione.

Il giorno seguente Darcey mi propose di andare a vedere un film al cinema. Io accettai, decretando così la vittoria dell'esercito di Darcey, anche se ancora sarebbe stato prematuro annunciare l'esito della guerra - Lauren stava già preparando un contrattacco inarrestabile. 

Scelto il film, prendemmo posto nella sala, nei posti centrali. Mi stupì che entrambi fummo concordi su quale film scegliere, non che ci fossero chissà quali opzioni, tra comici, sentimentali e cinefumetti. Era un film horror, un classico slasher in cui l'omicida massacrava un gruppo di adolescenti idioti con i modi più vari. Alla fine un disgraziato, l'ultimo sopravvissuto, riusciva ad uccidere l'assassino con una martellata sulle tempie, le cervella sparse lungo il pavimento.

Erano circa le sette del pomeriggio quando uscimmo dalla sala, piuttosto soddisfatti. Era una giornata piovosa, noi due procedevamo sul marciapiede, nessuno dei due aveva un ombrello con sé, le gocce precipitavano leggere sulle nostre teste.

Discutendo dei pregi e i difetti del film, giungemmo nuovamente davanti a quella porta dove le nostre membra, per pochi attimi, si erano congiunte. A tale reminiscenza, alcuni cavalieri del corpo di Darcey eliminarono numerosi soldati fantasma, ma il contrattacco di Lauren era già stato pianificato per le ore successive, mentre nel frattempo entrambi gli schieramenti spingevano e facevano palpitare il mio cranio.

Entrammo nel suo appartamento, piccolo ed essenziale, con pochi mobili d'arredo e una piccola creatura che si muoveva zampettando nelle diverse stanze. 

< Ecco la mia molto umile dimora, e quel maltese in fondo al corridoio si chiama Walter >. 

Mi mostrò con evidente fierezza la sua lunga collezione di dischi musicali, da cd a vinili, ed io ne rimasi meravigliato. Aveva di tutto, dal rock classico al jazz, dalla musica classica al metal, e molti di quegli artisti io non li avevo mai sentiti nominare. Accanto alla collezione teneva una chitarra acustica. Sapeva suonare "discretamente" a detta sua, e io la invitai a farmi sentire qualcosa.

Tutta contenta imbracciò la chitarra e si sedette su uno sgabello, io feci altrettanto. Riprodusse "No Shade in the Shadow of the Cross" di Sufjan Stevens. Il suo fingerstyle non era perfetto e spesso stonava, ma in compenso aveva una voce niente male, e dava una grande enfasi al testo melanconico della canzone. Le chiesi perché avesse scelto proprio quella traccia.

< Come ti ho già accennato, di recente è morta mia madre > la sua voce era calma e decisa, ma non aveva più il suo solito sguardo guizzante, puntava gli occhi verso i miei piedi < Questa canzone mi fa pensare a lei, a come il nostro rapporto, così conflittuale, potesse cambiare, con il tempo. Ma lei è morta, e adesso non posso far altro che guardare la sua tomba > stava abbassando il tono della voce e flebilmente concluse < Il tempo è un omicida, e prima o poi, inevitabilmente, ti porterà via qualsiasi cosa. Ti renderà suo schiavo e tu, come una bestia da soma, dovrai ineluttabilmente obbedire al tuo padrone >.

Mai avrei potuto immaginare quanto quelle parole sarebbero risultate profetiche, quanto il tempo avrebbe rappresentato la chiave della condanna dell'umanità e della sofferenza di un uomo impotente dinanzi allo scivolare dei granuli di sabbia sul fondo della clessidra.

I suoi occhi color nocciola brillavano nella piccola stanza bianca del suo appartamento e cercavano conforto negli scuri occhi di un uomo che tentava invano di reprimere le lacrime e le sue ciglia erano ormai umide. L'uomo dagli occhi scuri la stava traendo a sé per poterla confortare, in qualche modo, e per poter confortare anche se stesso.

Rimanemmo incollati l'uno all'altra per un tempo indefinito, e quando ci separammo ci sentivamo purificati, liberi dai nostri demoni, dai nostri affanni.

Ci spostammo in cucina, una piccola stanza con un piano cottura, frigorifero ampio e un tavolo da pranzo in legno con quattro sedie adiacenti ai rispettivi lati. Molto minimale. Iniziammo a cucinare, insieme, mentre uno dei dischi della collezione riproduceva dello smooth jazz.

< Passami il sale > ordinava Darcey < no, no quello è lo zucchero, passami l'altro contenitore >.
< Cazzo... Ho confuso la cannella con il peperoncino > dicevo io disperato.

Io non sono mai stato un gran cuoco - Lauren mi mandava vigorosamente a quel paese ogni qual volta mi proponessi di cucinare qualcosa che fosse diverso da una semplice pasta o insalata, ma in compenso ero bravissimo a stirare senza lasciare alcuna piega, abilità che lei invidiava con fervore - e Darcey era forse peggiore del sottoscritto, e come ci si potesse aspettare da due cuochi tanto maldestri, alla fine demmo quel disgusto in pasto alla pattumiera, che lo divorò con gran piacere - neanche Walter avrebbe osato toccare quell'insano piatto.

Alla fine ordinammo una pizza. 

Finimmo di cenare che erano le nove, e Darcey mi disse che aveva qualcosa da mostrarmi, così mi condusse sulla sua auto.

Fuori aveva ormai smesso di piovere, e la sua piccola auto verde si fermò nei pressi di un parco. Era illuminato da alcuni lampioni e faretti color ocra, ma molti angoli rimanevano scoperti dai raggi luminosi, creando sinistri contrasti tra luce e ombra. Il parco era circondato da un muretto in pietra di circa un metro, e il portale apriva il sentiero principale, che conduceva ad una statua marmorea raffigurante un trono, sul quale vi erano in rilievo numerosi nomi. Darcey mi raccontò di come lei era solita recarsi in quel parco durante l'infanzia.

< A volte con le mie amiche d'infanzia facevo una "prova di coraggio". Quando era già buio, entravamo a turno, da sole, all'interno di questo parco, e dovevamo fare il giro dell'intero perimetro, riuscendo così a superare le nostre paure. Tutti i ragazzini hanno paura del buio. Inoltre il parco, fino a, credo, dieci anni fa, era molto meno illuminato >.
< Ci sei mai riuscita? Io farei fatica a venirci da solo anche adesso che ho più di trent'anni >.
< La prima volta non sono effettivamente riuscita nemmeno a girare l'angolo, che sono subito corsa verso l'ingresso. Ma dalla seconda volta in poi c'è l'ho fatta >.
< Dovevi essere molto coraggiosa >.

Svoltammo a destra e dopo un paio di scalini giungemmo ad uno spiazzo coperto di sabbia con uno scivolo e due altalene, sulle quali ci sedemmo. Non mi capacitavo sul come quell'altalena ancora umida potesse cullare un uomo di più di trent'anni come il sottoscritto, e quel leggero movimento oscillatorio insieme al cigolio della trave sopra di noi calmava le mie inquietudini.

Talvolta, quando portavo Tyler al parco, ci sedevamo entrambi sulle altalene ed io gli raccontavo una barzelletta, spesso inventata al momento. Bastava veramente poco per farlo ridere, e a pensarci bene, le mie "barzellette" erano particolarmente infime e ridicole, ma a Tyler piacevano tanto.

< Ti dispiace se ti racconto una barzelletta? >.
< Tu, che racconti una barzelletta? Va bene, sono proprio curiosa >.

Le descrissi le vicende di Pino, una pianta che lavorava nella ciurma dei pirati più famosi tra gli alberi, che però spesso veniva deriso da Rocco, l'albero maestro, a capo della ciurma - mi scusai per il gioco di parole.

Non ricordo i dettagli, ma ricordo che al termine della narrazione, io e Darcey eravamo vicinissimi, e ora ci stavamo baciando. Cinsi le mie mani attorno al suo collo e finalmente sciolsi quegli scuri capelli che sempre teneva raccolti. Appena sciolte, le sue ciocche si riversarono dolcemente lungo il collo e le spalle, coprendole per un momento il viso. Spostò le fronde di capelli che aveva davanti agli occhi, se le portò dietro le orecchie e mi sorrise.

Sentii un boato nella mia testa, Lauren stava puntando un'arma da fuoco verso di me, un bossolo cadde a terra, lasciando una traccia curvilinea sulla rena. Altro boato, altro bossolo sulla sabbia, e in pochi attimi il caricatore era vuoto. Io mi reggevo ancora in piedi a fatica, era tutto nero, riuscivo a distinguere la figura di Lauren, mentre ricaricava l'arma, e dall'oscurità emerse Tyler, anche egli con una pistola in mano, il volto contratto dall'ira. Mirò con il collimatore verso il mio petto, ed iniziò a sparare, mentre anche la madre, avendo ormai ricaricato, si aggiunse al figlio, come se non bastasse. Caddi a terra.

Aprii gli occhi, Darcey era ancora tra le mie braccia. La spinsi via, e mi voltai. Mia moglie, mio figlio, erano morti da pochi mesi. Perché stavo facendo questo a loro, a coloro che amavo più di ogni altra cosa? Nelle mie vene scorreva sangue, che pulsava talmente velocemente che il mio corpo sarebbe esploso a momenti. Mi scusai e me ne andai da solo, lasciando Darcey sull'altalena.

Quella fu l'ultima volta che la vidi.

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