Capitolo 14: Optageon


Aspettai la Cacciatrice fino a tarda notte, osservando le stelle, mentre mormoravo fra me e me delle canzoni che avevo sentito in città. Non conoscevo la lingua della dimensione F, non a fondo quanto Etienne. In genere ai visitatori veniva impiantato nelle orecchie un piccolo dispositivo di traduzione, privilegio che a me il medico si era rifiutato di concedere.

"Ma Etienne... mi sembra di essere in una boccia. Non capisco un tubo di quello che succede. Non posso nemmeno guardare la TV! Come farò senza TV?"

"Non se ne parla. Vuoi imparare la lingua delle dimensioni F? Dovrai farlo nella maniera tradizionale. Dopotutto ha le origini nell'inglese arcaico che parlavi tu nella tua casetta delle dimensioni A."

"Ma è completamente diversa. E' come se stessi cercando di imparare a parlare la lingua in cui è stato scritto Beowulf. Davvero vuoi condannarmi a imparare l'Old English?"

"In realtà quello delle dimensioni F viene chiamato il Phi-Angl, non fare tanto il difficile."

Etienne sosteneva che portare quei chip nelle orecchie ci avrebbe resi facilmente individuabili, qualora fosse accaduto qualcosa di spiacevole, e solo ora mi rendevo conto di quanto avesse avuto ragione. Se avessi avuto quei piccoli nei meccanici nelle orecchie, avrei potuto mettere a rischio la libertà e le vite di tutti coloro che erano qui di passaggio... anch'essi rigorosamente senza identità.

E così mi ero ritrovato condannato a restare nella mia boccia. Col tempo ero riuscito a imparare alcuni vocaboli, anche se il mio modo di parlare suscitava l'ilarità dei presenti. Una volta avevo chiesto a una signora se aveva un Sgraffognatto nella tasca, tanto per fare un esempio, al posto di domandarle indicazioni per raggiungere la Magna Arena, dove si svolgevano i tornei di Galadisk, uno sport in cui ci si lanciava un frisbee metallico grazie a degli strumenti ad aria compressa.

***

Per fortuna le altre persone, che portavano con sé i nei traduttori, non avevano alcun problema nel capirmi, e finivano per adeguarsi alla mia varietà di inglese non appena la udivano.

Soffocai uno sbadiglio, frugando con lo sguardo nella foresta.

«Cacciatrice!» chiamai a gran voce. «Aerix! Ci sei?»

Nessuna risposta.

La chiamai ancora un paio di volte, ma, ancora, non ottenni nessun risultato.

«Lasciala perdere» disse qualcuno alle mie spalle.

Circa dieci passi dietro di me c'era Raelich, intento a fumare una sigaretta di foglie Ruminix: si diceva avessero un profumo tanto delizioso da dare l'impressione di mangiare torta alle more. Da quando la mia lingua aveva subito la metamorfosi, pietanze che un tempo mi piacevano avevano finito per disgustarmi, dunque non avevo osato avvicinarmi a quella strana tipologia di tabacco. Anche perché, conoscendomi, avrei tossito un polmone dopo mezza boccata.

«Fa sempre così» continuò l'ex soldato, raggiungendomi lentamente. Posò i gomiti sul muretto e soffiò del fumo rosaceo verso l'alto. «Vuoi un tiro?»

«No, grazie. Detesto le more» brontolai.

«More? Cosa sono?»

«Lascia perdere» tagliai corto, con un sospiro. A volte dimenticavo che loro non sapevano tutto delle dimensioni A. Le ritenevano talmente poco interessanti da non essere degne di studio.

«Che ci fai qua fuori solo soletto?» domandò Raelich, spegnendo la sigaretta finita sul muretto, per poi salirci con un balzo atletico.

Sentii subito di invidiarlo. Io avevo l'agilità di un'ameba, mentre il suo corpo era scattante e nervino. Non aveva un filo di grasso.

Abbassai lo sguardo sulla mia pancia e afferrai un rotolino di ciccia, con una smorfia. Mi sembrò che stesse sorridendo, come se volesse sfottermi.

Soffrivo di una strana condizione per la quale ero grasso e magro allo stesso tempo. Ero cresciuto molto, dopo la metamorfosi – o forse era più corretto dire che mi ero allungato come una chewing-gum -, ma ciò non mi aveva reso più prestante a livello fisico. E io che speravo di aver avuto un'uscita facile.

«Tutto bene, Gene? A cosa pensi? Hai una faccia.»

«A niente» borbottai, guardandolo male. Lui e il suo fisico tutto aerobica.

«Non sarà mica per Aerix.»

Provai un certo imbarazzo. No, non era per Aerix. Mi vergognai dei miei pensieri egoistici sulla ciccia, e mi affrettai a tornare al patema d'animo.

«Se n'è andata. Stavo aspettando che tornasse, ma non si è ancora fatta vedere. Sono un po' preoccupato.»

Almeno questo era vero.

Raelich mi rivolse un sorriso e il suo terzo occhio mi osservò con aria compassionevole, mentre si avvicinava a me, dandomi una manata fraterna su una spalla.

«Lei è fatta così. Un momento prima è tua amica, quello dopo ti pianta un coltello fra le costole.»

«Non è molto consolante. Mi stai dicendo che dovrei evitarla?» ridacchiai, agitando nervosamente le gambe.

«No, certo che no. E' un modo di dire» mormorò Raelich. «Aerix è una di quelle persone che non vuole legarsi a nessuno. L'unica cosa che desidera è essere libera, ma si sa che la libertà ha un prezzo: devi rinunciare al calore che deriva dallo stare con altre persone, al piacere di una buona compagnia. Questo sarà dovuto al suo lavoro, ma anche al suo carattere. Principalmente al suo carattere.»

Raelich si grattò la nuca, poi cominciò a ridere, come se gli fosse venuto in mente qualcosa di buffo.

«La conosco da appena due settimane, e in realtà non so molto di lei. Non più di quanto sappia tu. Aerix è un mistero, e le piace continuare a essere così... però, e non vorrei sbagliarmi, sembra che tu le interessi.»

«Io interessare a lei?» domandai. «E perché?»

«Forse si sente ancora in colpa per averti messo nei guai. Per quanto distaccata, non è crudele. Ma non aspettarti troppo da lei... non appena avrà ripagato il suo debito nei tuoi confronti, sparirà, come fa sempre. Avrebbe già dovuto farlo dopo aver terminato il lavoro, assumendo un nuovo aspetto, una nuova identità. I miei superiori mi hanno raccontato che si comporta in questo modo. Quindi, non affezionarti.»

***

Raelich mi disse che sarebbe rimasto lui fuori ad aspettare Aerix, e io tornai al centro d'accoglienza. Ero talmente stanco che il mondo circostante mi appariva come ovattato e distante, e mi diressi verso la mia camera.

Nei corridoi, ricoperti da uno strato di moquette rosso natalizio, non c'era nessuno. Erano andati tutti a dormire e l'aria era satura dell'odore dolciastro del sonno.

Avrei voluto rannicchiarmi anche io da qualche parte, per mettermi a pisolare, ma venni intercettato da Etienne. O meglio, gli andai quasi addosso, rischiando di fargli rovesciare la tazza colma di the che si stava portando dietro.

«Gene!» gemette il medico, soffiando sulla manica della sua vestaglia da notte, decorata da un motivo a orsetti. «Guarda dove metti i piedi! Ho quasi finito le scorte di Earl Grey portate dalla tua dimensione-casa, quindi vedi di non farmelo rovesciare tutto per terra.»

«Scusa» mormorai, soffocando l'ennesimo sbadiglio. «Ho un po' sonno.»

«Sonno?» sbuffò Etienne. «Sono solo le ventisette di notte! E tu mi parli di sonno...»

«Non riuscirò mai ad abituarmi a questi giorni di quarantotto ore» bofonchiai. «Mi scombinano il ciclo sonno-veglia.»

Etienne fece un sorrisetto, e mi piantò un indice sulla fronte. Avvertii una lieve scossa, e mi sentii talmente sveglio che avrei potuto mettermi a ballare il flamenco in corridoio.

«Adesso non riuscirai a dormire nemmeno se volessi» ridacchiò lui, superandomi.

Era come se mi avesse iniettato una dose concentrata di caffeina dritta nel sistema nervoso centrale.

«E-Etienne» balbettai, riuscendo a stento ad articolare le parole, talmente ero agitato. «Pe-perché l'hai f-f-fatto? Vo... v-v-vvvvolevo do-dormire!»

Lui mi sorrise, facendomi cenno di seguirlo.

«E' da un po' che volevo parlarti» spiegò. «E ho bisogno che tu sia attento. Vieni nel mio studio.»

«E di co-cosa dobbiamo pa-parlare?»

«Di quel ciondolo.»

Il medico lo indicò con un cenno del capo, per poi aprire una porta a sinistra del corridoio, sulla quale era stata fissata una targhetta ovale che recitava "studio del boss".

«A-anche io volevo pa-pa-parlartene» farfugliai, raggiungendolo con due balzi.

Etienne mi fece cenno di sedermi su una delle poltrone davanti alla sua scrivania e io ubbidii. Tuttavia, non appena le mie natiche sfiorarono l'imbottitura, cominciai a saltellare senza controllo.

«Etienne!» gemetti. «Fallo smettere!»

«Cosa?» chiese lui, simulando perplessità, mentre sorbiva tranquillo un sorso del suo the.

«Questo!» strillai. Ormai mi sembrava di avere inghiottito un nugolo di adrenalina, che si dibatteva forsennatamente nel mio stomaco come se volesse uscirne.

Il dottore sogghignò e posò una mano sulla mia. Poco dopo il tumulto che avevo nelle vene cessò e mi sentii svuotato. Mi accasciai sulla poltrona, con un sospiro di sollievo.

«Grazie» gorgogliai.

«Ancora non hai imparato a controllare la tua mente» sospirò Etienne, sedendosi nella poltrona davanti alla mia, dietro un'elegante scrivania in legno rosso. «Sei tu stesso che permetti alle mie suggestioni di avere effetto. Avresti dovuto essere in grado di fermarti da solo.»

Io emisi un lieve borbottio. Aveva ragione. All'inizio della mia metamorfosi avevo avuto accesso a luoghi della mia mente rimasti inesplorati, mentre, col passare del tempo, avevo cominciato a chiudermi sempre più, finché non avevo perduto le capacità acquisite. Dovevo sforzarmi parecchio per riuscire a espandere la mia coscienza, ora. Anche solo parlare mentalmente con Etienne mi costava uno sforzo immenso. Lui era in grado di inviarmi sensazioni complesse, dalle sfumature variegate, o di presentarmi interi concetti e conversazioni, mentre io riuscivo a stento a dirgli ciao. Se si avesse voluto trasporre le nostre capacità su tela, le sue avrebbero dato vita a un affresco di Michelangelo, le mie a un paio di omini stecchini tutti storti.

«Devi esercitarti» sospirò il medico, tamburellando con le dita sulla scrivania.

«Lo faccio...»

Lui sbuffò.

«... ogni tanto» specificai.

Etienne inarcò un sopracciglio.

«Senti, ma non dovevi parlarmi del ciondolo?» sbottai, incrociando le braccia sul petto, con una smorfia.

Il medico si arrese e annuì, facendomi cenno di passargli il gioiello. Io ubbidii e lo osservai mentre lo rigirava fra le dita. Quando Etienne aveva quell'espressione concentrata c'era da preoccuparsi, nonostante fosse tutto molto relativo in lui. Avrebbe potuto scoppiare a ridere da un momento all'altro, per quello che ne sapevo. Mi era sempre stato difficile decifrarlo.

«Come pensavo» disse infine, appoggiando con delicatezza il ciondolo sulla scrivania.

«Ah, sì?»

«Proprio così.»

«E non hai intenzione di dirmi cos'è questo affare? Perché avrebbero dovuto darmelo?»

Etienne si fece desiderare, riprendendo a bere il the con lentezza esasperante. Lo aspirava con dei lunghi risucchi che mi facevano scorrere dei brividi di fastidio lungo schiena.

«La vuoi piantare?» gemetti.

Etienne svuotò la tazza e si pulì le labbra con fare signorile su un fazzoletto a pallini rosa. Lo ripiegò con cura, per poi metterlo in un cassetto.

«Oh, guarda. Non sapevo di aver lasciato qui una carta di credito!» esclamò, illuminandosi.

«Etienne!» strillai.

«Gene, sei davvero agitato stasera. Adesso ti racconto la storia, non temere. Vuoi sapere cos'è quell'affare, vero?»

«Sì!»

«Bene» ridacchiò Etienne. Si divertiva troppo a farmi saltare i nervi. «Comunque, quello che i guardiani della dimensione Z ti hanno dato è un Optageon

«Grazie, ora sì che ho capito.»

Il medico stavolta rise apertamente.

«Scusa, Gene. Non dovrei divertirmi così tanto.»

«No, non dovresti» brontolai, nonostante anche io stessi sorridendo. «Dai, spiegami cos'è.»

«Conosci la bulla, il piccolo contenitore che i pater familias davano ai loro primogeniti?»

«No.»

«Beh, si trattava di un ciondolo come questo, che veniva posto attorno al collo del bambino dopo appena nove giorni dalla nascita. Lo portava fino al termine dell'adolescenza. Serviva per tenere lontani gli spiriti maligni e spesso conteneva dei portafortuna.»

«Dunque questo ciondolo serve per tenere lontani gli spiriti?» chiesi, raccogliendolo. Percorsi di nuovo gli intrighi geometrici sulla sua superficie con la punta dell'indice, sovrappensiero.

«Gli spiriti non esistono. Non come li credevano gli antichi romani, in ogni caso» mormorò Etienne. «Volevo solo fare un piccolo paragone. L'Optageon veniva dato dagli Energeen a quelli che, fra loro, non avevano ancora raggiunto la maturità necessaria per difendersi da soli. E' un oggetto che serve per incanalare la tua energia, in modo da facilitarti nel suo utilizzo. Si rompe solo nel momento in cui tu sarai riuscito a ottenere da quelle forme geometriche caotiche la sagoma di un ottagono.»

«Perché l'ottagono?»

«Si trova a metà fra il quadrato e il cerchio. Il primo ha sempre simboleggiato la materialità, i quattro umori e, di conseguenza, l'essere umano, rinchiuso nei suoi limiti fisici. Il secondo, invece, è il simbolo della divinità, l'assenza di imperfezioni e limitazioni, un flusso continuo. L'ottagono si trova a metà fra lo stadio del divino e dell'umano. Simboleggia qualcosa che è ancora legato alla materialità, ma si avvicina all'immateriale.»

Io annuii. Mi avevano sempre interessato i simbolismi che si trovavano alla base del pensiero occidentale, e non solo. A quanto pareva, certi archetipi erano presenti persino in civiltà elevate come quella delle dimensioni Z.

Mentre ci riflettevo, mi venne in mente la struttura delle dimensioni F. Quella loro passione per i cerchi e le spirali... forse era legata a questi concetti, vista l'influenza che avevano su di loro le dimensioni Z. Le loro case erano ben diverse da quelle della mia dimensione, rettangolari o quadrate. La forma che richiamava il rettangolo aureo era molto più appagante alla mia vista. Il cerchio invece era bizzarro e alieno.

«Mi chiedo perché me l'abbiano dato. Forse volevano davvero aiutarmi» mormorai, rimettendomi il ciondolo al collo. Mi sentii subito più rilassato, a contatto con esso. Avevo l'impressione stesse cercando di fondersi con la mia pelle.

«Ricordi cosa ti hanno detto?»

«Hm. Qualcosa come "tutto questo è già successo" e di stare in guardia. Non ho capito granché.»

Etienne per un istante mi sembrò turbato, poi scosse la testa e si rilassò contro lo schienale.

«Hai idea di cosa possa significare?»

«A volte gli abitanti delle dimensioni Z amano essere ermetici.»

«Come te.»

«Già» ammise lui, passandosi una mano su una guancia. «Però non preoccuparti. Verremo a capo anche di questo problema. Nel frattempo, tieniti stretto a quel ciondolo. Quando uno dei guardiani dice qualcosa, è meglio dargli retta. La loro vista è più acuta della nostra.»

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