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Accesi la radio per cercare qualcos'altro su cui concentrarmi. All'inizio mi focalizzai su un semplice canale di musica, poi mi venne in mente che avrei potuto cercarne uno che trasmettesse le notizie della giornata. Scoccai un'occhiata all'orologio: era mezzogiorno passato e dovevano starne trasmettendo uno.
Feci zapping fra canali finché non trovai quello che stavo cercando. Mi ero perso i titoli iniziali che indicavano il contenuto della trasmissione, ma avrei comunque trovato qualcosa, se fossi rimasto in ascolto.
Comunicarono le solite notizie, quello che succede in ogni parte del mondo, in ogni momento: un uomo investito sulle rotaie alla stazione di Londra, uno stupro, un assassinio...
Un assassinio?
Alzai il volume, gli occhi sgranati.
- ... Seven Eleven nella periferia nord di Londra è stato trovato morto un commesso. Il suo nome era William Peorn, 25 anni. Lavorava lì nel turno notturno, dalle nove alle tre di mattina. Studiava nell'università locale alla facoltà di economia e cercava di arrotondare per pagare le tasse. - disse la voce asettica della lettrice - E' stato ucciso con un colpo di pistola alla testa; a giudicare dall'angolazione del colpo, lo si ritiene un suicidio. Tuttavia l'ispettore Yates di Scotland Yard indaga sul caso, che non è stato ancora archiviato. Le telecamere di sicurezza del locale non hanno ripreso la scena a causa di un'interferenza e c'è il dubbio che si possa trattare di un omicidio. Che sia l'ennesimo suicidio seriale collegato al caso della bambina maledetta? Con noi c'è Charles Jonson, esperto di paranormale, che ha accettato di concederci un'intervista.
- Salve a tutti.
- Professor Jonson, cosa ne pensa dell'accaduto? Si tratta solo di una leggenda metropolitana o potrebbe davvero esistere una creatura capace di costringere al suicidio le sue vittime?
- La polizia mi ha negato l'accesso a tutte le informazioni sulle vittime, Elizabeth, tuttavia, dato che in apparenza non hanno niente in comune, reputo assai poco probabile l'ipotesi che si tratti di un serial killer. Sono state loro ad uccidersi. L'unica cosa certa è che sono venute in contatto le une con le altre, prima di morire, anche casualmente. Lo spirito che uccide è con tutta probabilità una creatura vendicativa che si lega a chiunque la veda. Ho già assistito a diversi casi simili, per questo parto da questo presupposto. Ci dev'essere un tramite fra le vittime, per forza, qualcosa che si sono passate, un oggetto che faccia da vessillo.
Io a quel punto non stavo più ascoltando. Fissavo la strada con occhi sgranati per l'orrore e avevo la netta impressione che qualcosa dentro di me fosse appena morto. Vessillo? Mi venne da ridere. No, non c'era nessun vessillo. Però quel professore aveva visto giusto: c'era un legame fra le vittime, nonostante non dovesse essere un oggetto o, in ogni caso, qualcosa di materiale.
Sumiko aveva detto che l'assassino di sua sorella era un Esper. Dato che anche lei era un Esper, possibile che la sorella condividesse quella maledizione? Non era stata specifica sull'argomento, ma essendo sorelle c'era una buona probabilità che fossero entrambe delle Esper, sebbene io e Trevor fossimo la dimostrazione vivente che non sempre questa regola era valida. Mio fratello aveva un sesto senso più spiccato della media e, ogni tanto, poteva capitare che mi telefonasse quando avevo solo pensato a lui, ma non aveva mai avuto visioni o doti particolari, da quanto ne sapevo. Se la sorella di Sumiko era stata un Esper ed ora l'assassino stava seguendo me, possibile che stesse prendendo di mira quelli come noi?
Quel ragionamento mi fece sentire profondamente a disagio. Non riuscivo a capire perché un Esper avrebbe dovuto uccidere le persone che gli somigliavano. Se avessi saputo di qualcuno come me, avrei cercato di farmelo amico, sebbene molti non fossero nemmeno consapevoli della propria natura. Erano pochi ad avere un sesto senso tanto forte da condizionare la loro vita com'era successo a Sumiko e a me.
Non avevo idea di cosa fosse successo a William Peorn, il disgraziato commesso del Seven Eleven, o se fosse stato un Esper; non c'era stato il tempo sufficiente per controllare e non ero nemmeno concentrato in quel momento. Tuttavia, se la sorella di Sumiko era come me, sarebbe stata una coincidenza troppo grande per poter essere ignorata.
Quando arrivai in biblioteca era quasi l'una e la trovai chiusa. Trassi un profondo sospiro, mentre osservavo la tabella degli orari. Avrebbe riaperto alle tre, dovevo aspettare per un bel po'. Dopo quell'intuizione, ero troppo agitato per potermi sedere da qualche parte, ma non c'erano alternative. Dato che era l'ora giusta, decisi di andare a mangiare qualcosa, vista la mia brutta esperienza con la colazione. Non avevo idea di cosa mi avesse causato quella visione o cosa volesse dire. Quando ero piccolo mi capitavano molto spesso quei colpi improvvisi e a volte non c'era un perché. Il mio cervello era una deliziosa macchinina in cui si agitavano pensieri più disgustosi di quanto avrei potuto ammettere, e capitava che la mia mente li materializzasse sotto forma di visioni, allo stesso modo in cui mi riproponeva gli avvenimenti della giornata nei sogni. Speravo solo che non accadesse di nuovo, dato che avevo una fame pazzesca.
Entrai in un fast food e andai alla cassa ad ordinare un panino. Sapevo che era cibo spazzatura, ma non avevo molti soldi con me e dovevo davvero mettere qualcosa sotto i denti. Mangiare mi faceva sentire tranquillo ed appagato, forse avrebbe contribuito a contenere la mia ansia. Il cibo del Mac era quello che ci voleva quando si aveva bisogno di quattromila calorie dritte in endovena per consolarsi dell'amarezza della vita.
Cominciai a mangiare con cautela, poi, dato che non ebbi alcun tipo di visione, ci presi gusto. Alla fine mi sentivo talmente pieno da non riuscire ad alzarmi in piedi. L'eccesso di carboidrati mi fece venire sonno e per poco non mi appisolai sul tavolo. Ordinai un caffè nel tentativo di riattivare il mio sistema e tornai a sedermi. Mentre lo stavo sorseggiando, osservavo distrattamente le persone in fila che attendevano il loro pasto. Nessuno di loro era un Esper, ne ero certo. Da bambino ne avrei saputo riconoscere uno ad un miglio di distanza, ma con tutto quello che avevo passato le mie capacità si erano indebolite, sia a causa del disprezzo per me stesso, sia a causa della convinzione impostami da altri di essere posseduto dal demonio. Ora riuscivo a distinguere un Esper solo quando prestavo particolare attenzione, altrimenti avrebbe potuto passare del tutto inosservato.
Un rumore improvviso mi distolse dal flusso dei miei pensieri e ci misi un po' per capire che proveniva dalla tasca del mio cappotto. Ne estrassi un Nokia preistorico, di quelli che non si facevano un graffio nemmeno se li lanciavi dal finestrino di una macchina in corsa. Io non sopportavo i cellulari, era stato Trevor a convincermi a tenerne uno, solo per mantenere i contatti con lui. I miei numeri in rubrica si potevano contare sulle dita di una mano. Usavo talmente poco quel telefono che lo dimenticavo sempre nella tasca del giubbotto che stavo usando in quel periodo. Era un puro caso che lo avessi con me e fosse anche carico. Osservai il minuscolo schermo verde del telefono: il numero era sconosciuto, ma non mi stupii, visti i pochi che tenevo in rubrica. Premetti il tasto verde e accostai l'aggeggio all'orecchio.
- Pronto? - chiesi, esitante.
- Gene! - esclamò la voce di Lucy, trapanandomi un timpano.
Allontanai il telefono, massaggiandomi la parte lesa con una smorfia di dolore.
- Lucy, vuoi farmi diventare sordo? - mi lamentai. Osservai il mio riflesso sulla parete di plastica del fast food e notai che stavo sorridendo come un povero scemo. Mi aveva chiamato. Nessuno lo faceva.
- Scusami, è l'entusiasmo. Sto facendo una passeggiata e avevo pensato di passare a trovarti, che ne dici? Sempre che tu sia a casa.
- Ma non volevi prenderti un periodo di pausa? - le domandai, aggrottando le sopracciglia.
- Che c'è, non ti va di vedermi?
- No, no, certo che mi va. E' solo che... hai deciso in fretta. Credevo che avrei dovuto tribolare per mesi, prima di ricevere un cenno di vita.
La sentii sbuffare e potei immaginarmela mentre scuoteva la testa con bonaria disapprovazione. "Cosa devo fare con te, Gene?"
- Ho solo bisogno di parlarti a quattr'occhi, tutto qui. - disse. - Allora? Sei a casa o no?
- No. - ammisi, a malincuore. - Sono al Mac, vicino alla biblioteca.
Lucy emise un verso di indignazione. Lei seguiva una politica salutista e odiava i fast food, oltre a sequestrare dal mio frigorifero ogni schifezza, quando veniva a trovarmi. A casa sua il massimo dei carboidrati erano della pasta integrale e le gallette di riso che comprava a Mark e Charlie. "Ti si appiccicano alla lingua", mi avevano detto una volta, con sguardo infelice. "E lei pretende che mangiamo questa roba". Quella era stata la prima volta in cui gli avevo passato sottobanco della cioccolata. Poveretti, potevo solo immaginare come fosse vivere di sole gallette.
- Al Mac? Quella roba ti fa male, Gene. Non sei più un ragazzino, ormai, ti ostruirà le vene e ti partirà un embolo, prima o poi.
- Non portare sfortuna. - la redarguii, sebbene fossi divertito. Mi piaceva sentirla preoccupata per me, anche se per scherzo. - Comunque non ci sarei venuto, è solo che non avevo abbastanza soldi per pranzare altrove.
Lei non sembrò molto convinta e sbuffò, rovesciandomi addosso un mare di statistiche che dimostravano quanto fosse dannoso mangiare ai fast food. Mentre lei sciorinava le sue tesi, il mio lato più bastardo ebbe la meglio e appoggiai il telefono sul tavolo, sorseggiando pacificamente quel che restava del mio caffè, al riparo dalle sue chiacchiere. Quando ebbe finito, ripresi in mano il cellulare e le promisi che non sarei più andato lì a mangiare, con le dita incrociate.
- Ma dimmi, cosa sei andato a fare in centro?
- Dovevo andare in biblioteca a vedere una cosa, ma era chiusa. Sto aspettando che apra. Se vuoi possiamo andare a bere qualcosa assieme, nel frattempo. Ti raggiungo da qualche parte?
Lucy mi propose di vederci in quel bar che avevano aperto da poco vicino alla galleria d'arte The Passage. Si chiamava FruitMania e facevano delle ottime centrifughe di frutta e verdura - così finalmente farai la cacca solida, Gene - e i Bubble Tea più buoni di William's Field, il nostro paese.
- Va bene - sospirai, rassegnandomi al patibolo. - Dieci minuti di macchina e sono lì.
Salii in macchina e la raggiunsi poco dopo, parcheggiando davanti ad una replica della statua di Horatio Nelson che si trovava a Trafalgar Square. L'ammiraglio faceva la guardia ad un piccolo giardino lì accanto, sempre vigile. Lucy mi aspettava davanti ai cancelli del giardino, le braccia incrociate sotto il seno. Indossava un giubbotto di pelle sintetica e un paio di jeans chiari molto attillati. Ai piedi calzava degli scarponcini leggeri e non aveva nemmeno una sciarpa. Non riuscivo a capire come facesse a non morire congelata. Io mi strinsi nel cappotto come un nonno e, dopo aver chiuso la Panda, mi trascinai verso di lei. Era particolarmente bella, oggi. I suoi lunghi e ispidi capelli neri erano raccolti in una serie di sottilissime treccine che le arrivavano alle spalle. Aveva la carnagione un po' più chiara del solito, forse proprio perché faceva freddo e non voleva coprirsi di più per non nascondere le proprie forme. Ah, le donne. Non avrei mai capito il voler sacrificare la comodità per la bellezza. Io preferivo sembrare un omino Micheline, piuttosto che avere freddo. Aveva dei profondi occhi color miele, di un colore chiaro per la sua carnagione scura. Li aveva presi da suo padre, un inglese doc, mentre sua madre, di origini africane, le aveva dato quella pelle color caffellatte che a me piaceva tanto.
- Perché mi guardi così? - mi chiese, inarcando le sopracciglia.
- Non posso neanche guardarti, adesso? - mi lamentai, con un gemito di sofferenza. - Comunque, si dice ciao, quando si vede qualcuno.
Lei sorrise e mi prese a braccetto.
- Ciao - disse, ridendo piano.
Io emisi un verso ricco di indignazione, che lei ignorò. Mi disse che aveva lasciato a casa Mark e Charlie con l'obbligo tassativo di fare tutti i compiti senza usare internet - già me li immaginavo a guardare le soluzioni su un sito di studenti disperati, per poi dedicarsi ai film in streaming - ed era uscita appositamente per parlare con me.
- Davvero? - chiesi, stupito da un tale zelo.
- Perché sei tanto sorpreso?
Avrei voluto dirle che, dopo quello che le avevo raccontato del mio passato, se fosse stata sana di mente mi avrebbe piantato in asso, ma non osai farlo. Ero egoista e non mi importava. Lucy mi piaceva troppo per fare l'eroe e dirle di abbandonarmi al mio destino. Dopo tanti anni di isolamento e tutti quei dolori, era tanto brutto desiderare un po' di felicità?
- Sono lusingato. - le risposi, ed era vero.
Lucy sorrise, dicendo che trovava adorabile il modo in cui gioivo per la minima attenzione che chiunque mi riservava. Strinsi i denti, perché era vero. Adorabile? Patetico, forse.
Le domandai di cosa volesse parlarmi, ma lei volle che ci sedessimo ad uno dei tavoli del Fruitmania, prima di cominciare a chiacchierare. Non appena entrai in quel locale, realizzai che era uno di quei posti amati dagli yuppie salutisti come lei e il mio amante di cibi unti interiore fece una smorfia. "Cosa sono queste schifezze? Bevanda a base di spinaci, lime e menta? Sta cercando di avvelenarci? Quando arriverai a casa, ricordati di compensare con due barrette di cioccolata."
Visto che io non avevo idea di cosa prendere, Lucy scelse per me e poco dopo ci portarono l'ordinazione. La cameriera depositò sul tavolo due bicchieri di vetro con l'ombrellino e una fetta di arancia sul bordo. Io li fissai come se fossero stati ripieni di melma radioattiva. Lucy ebbe il coraggio di bere quella bevanda di dubbia origine e mi incitò a fare lo stesso. Io feci una smorfia d'insofferenza e ne assaggiai una lacrima.
- E' buona. - rantolai, stupefatto.
- Visto? Non ti ucciderà, promesso. - disse Lucy, ridendo della mia espressione.
Io bevvi il resto della centrifuga con occhi sgranati, mentre lei mi osservava. Disse che sarebbe stato bello avere un telefono tecnologico solo per potermi fare un video.
- Grazie. - brontolai - Ora che ho bevuto il nettare della dea Salute, potresti spiegarmi cosa volevi dirmi?
Lucy si strinse nelle spalle e fece la misteriosa, cercando di evitare la mia domanda. Poi, alla fine, si ritrovò alle strette e dovette essere diretta.
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