8
Mi svegliai di soprassalto, col cuore in gola. Sopra di me, il soffitto bianco della mia camera da letto. Ero disteso a pancia in su sotto le coperte e Julius riposava disteso sul tappeto. Mi portai le mani al petto, aprendo la maglia del pigiama con una tale violenza da far saltare un paio di bottoni. Era lì che la bambina mi aveva toccato, eppure non era rimasto nessun segno. Passai le mani sopra la pelle più volte e constatai che davvero non c'era niente che non andasse in me. Eppure mi sentivo strano, come se qualcosa premesse all'interno della mia gabbia toracica, cercando di uscire. Emisi un singulto e scalciai via le coperte. Scesi dal letto, scavalcando Julius, e mi rifugiai in bagno. Tolsi la maglia e osservai il mio riflesso da ogni lato, cercando invano qualcosa che non andasse. L'unica particolarità che avessi era una piccola cicatrice nel basso ventre, dove mi avevano operato per un'appendicite quando avevo sei anni. A parte questo, era tutto uguale. Sfiorai il mio riflesso con la punta delle dita e, per un solo istante, mi sembrò di scorgere la bambina maledetta nello specchio.
Emisi un grido soffocato e indietreggiai, rischiando di cadere a terra. Riuscii a salvarmi solo perché mi aggrappai alla tenda che nascondeva la doccia.
Mi rialzai a fatica, tremando dalla testa ai piedi, e mi avvicinai di nuovo allo specchio, con cautela. Stavolta non accadde nulla. Mi tastai le guance e scrutai con attenzione i miei occhi per l'irrazionale timore che vi avrei trovato la famigerata scintilla del diavolo di cui aveva parlato la madre di Lucy. Tuttavia erano sempre gli stessi, di un mite verde-marrone, e non c'era nessun riflesso rosso o maligno in essi. Mi sentii un po' rinfrancato e registrai quella visione di poco prima come una semplice allucinazione dovuta alle continue frecciate di Wendy riguardo la bambina maledetta. Era stato tutto solo un sogno, un frutto della mia fervida - troppo fervida - immaginazione.
Tirai un sospiro di sollievo e tornai sui miei passi, strascicando i piedi nudi sul pavimento gelido. Raggiunsi il cucinino e misi a scaldare del latte. Presi un pacco di biscotti con le gocce di cioccolato dalla mensola dove tenevo i dolci e lo poggiai sul tavolo, per poi sedermi.
Mentre attendevo che il latte fosse pronto, feci un giro di controllo delle mie piante, in particolare di un cespuglio di rose gialle che mi era particolarmente caro dato che aveva un profumo dolcissimo. Prima che Lucy dicesse di volere un periodo di pausa, progettavo di regalargliele. Non che adesso non volessi più farlo, ma sarebbe stato scortese portargliele prima che fosse lei a ricontattarmi. Le avrei fatto pressione e doveva già pensare abbastanza male di me anche senza che mi comportassi come uno stalker.
Trassi un profondo sospiro e andai a spegnere il gas. Versai il latte nella tazza e vi aggiunsi due cucchiaini di caffè istantaneo. Mi rannicchiai dietro il tavolo e cominciai a mangiare, mentre cercavo di ricordare cosa fosse successo la sera precedente.
L'ultima cosa che ricordavo era che ero andato ad un 7 Eleven a prendermi dei dolci. Tutto il resto era molto confuso, fino al momento in cui una bambina in bianco non mi era comparsa davanti. Avevo la sensazione che dovesse essere successo qualcosa di terribile e avere la memoria confusa non mi rassicurava per niente. Per la prima volta da quando mi ero trasferito, desiderai avere una televisione. Avrei potuto guardare il telegiornale locale e scoprire se ero finito in vetrina, invece, per saperne di più, ero costretto ad uscire. Pregavo di non aver combinato nulla di troppo grave, altrimenti qualcuno avrebbe potuto riconoscermi per strada. L'ultima cosa che volevo era l'attenzione altrui. Avevo sempre cercato di mantenere un profilo basso in questi anni, per non restare invischiato in faccende che avrebbero potuto rivelare la mia natura, ma la sfortuna mi perseguitava. Ora più che mai era necessario che andassi in biblioteca per spulciare i vecchi giornali. Quella bambina assomigliava talmente a Sumiko che avrebbe potuto essere scambiata per lei, se avesse avuto qualche anno in più.
Mentre ero assorto in questi pensieri, mi resi conto di sentire un cattivo sapore in bocca. Storsi le labbra e abbassai lo sguardo sulla tazza, dove avevo abbandonato il cucchiaio. Lo sollevai, tirando su anche il biscotto alle gocce di cioccolato, e il mio cuore mancò un colpo.
Mangiato per metà, dal biscotto fuoriuscivano delle estremità amputate che si contorcevano debolmente.
Vermi.
Presi un tovagliolo e sputai all'istante ciò che stavo masticando. Riuscivo ancora a scorgere qualche pezzetto del loro corpo cilindrico che si dibatteva come un pesce fuor d'acqua. Riuscii a stento a raggiungere il water, prima di vomitare tutto quello che avevo ingerito negli ultimi tre giorni. Ne riemersi ricoperto di sudore freddo, il cuore che batteva all'impazzata. Tornai in cucina, premendomi i palmi delle mani sugli occhi. Trassi un profondo sospiro e diedi una seconda occhiata ai residui del biscotto, prima di buttare via tutto. Non c'era più nessuna traccia di insetti. Mi stropicciai le palpebre un paio di volte, incredulo, e controllai anche l'interno della confezione di biscotti. Niente. No, non potevo essermi immaginato tutto. O sì?
Nel dubbio buttai via i biscotti rimanenti e svuotai la tazza nel lavandino. Che fosse successo davvero o no, quell'orribile visione era stata sufficiente a farmi passare l'appetito.
Tornai in bagno e mi lavai accuratamente i denti, controllando che non mi fosse rimasto nessun insetto incastrato nelle gengive.
Ebbi un brivido al ricordo e strizzai gli occhi, disgustato. Meglio non rievocare quell'orrenda immagine o avrei finito per vomitare di nuovo, sebbene non mi fosse rimasto niente nello stomaco.
Indossai un maglione nero ed un paio di pantaloni logori dello stesso colore. Versai da mangiare e da bere a Julius e feci per andarmene. Stavo già aprendo la porta, quando lui abbaiò. Stava ammiccando al collare poggiato sul termosifone accanto al divano. Aveva un'aria talmente depressa che non potei resistergli e decisi di portarlo con me. Dopotutto era da qualche giorno che non lo facevo camminare all'aperto e aveva bisogno di rotolarsi nell'erba. La sua presenza mi faceva sentire più sicuro, quindi la accettai con gioia.
In realtà dire che io portavo a spasso Julius era improprio: era lui a portare a spasso me. Anzi, mi trascinava, come in certe vignette umoristiche che si trovavano sul fondo dei giornali.
Lasciai che inseguisse gli scoiattoli - troppo veloci per lui - al parco comunale e annusasse ogni singola buca delle lettere o idrante che trovammo sul nostro cammino. Una volta che si fu sfogato ed io ebbi recuperato parte della mia calma, lo riportai in appartamento. Lui si avventò subito sulla ciotola dell'acqua e io depositai il collare sul termosifone, uscendo. Julius mi guardò come se volesse dirmi "te ne vai di già?" e io gli accarezzai la testa un'ultima volta, prima di chiudermi la porta alle spalle.
Avevo rimandato a sufficienza, era il momento di scoprire qualcosa su Sumiko.
Pieno di buona volontà, stavo scendendo le scale fra il secondo ed il primo piano, quando avvertii una voce stridula che conoscevo fin troppo bene.
- Dove credi di andare, Gene Sanders? - urlò Lin, sporgendosi dal parapetto del secondo piano.
Io feci finta di non averlo sentito e accelerai il passo, scomparendo alla sua vista.
- Credi di cavartela così? - ripeté, correndomi dietro. - Mi devi ancora pagare l'affitto dello scorso mese, razza di delinquente!
Anche io mi misi a correre e mi rifugiai in macchina appena in tempo, chiudendo le sue urla all'esterno.
- Mi dia ancora qualche giorno, signor Lin. - gli dissi attraverso il finestrino abbassato, ormai al sicuro in strada.
Non potei sentire i suoi insulti, dato che lo rialzai subito dopo e mi immisi nel traffico. Osservai la sua sagoma esile rimpicciolirsi nello specchietto retrovisore e tirai un sospiro di sollievo. Quell'ottantenne di origini cinesi aveva la grinta di un ventenne e mi faceva quasi paura, dal modo in cui mi scrutava coi suoi occhiacci neri ogni volta in cui andavo a portargli i soldi. Aveva sempre qualcosa da ridire sul sottoscritto, anche quando gli pagavo l'affitto in orario - cosa che, lo ammetto, accadeva di rado. Una volta era per l'abbaiare di Julius - metti una museruola a quel cane puzzolente, dannato punk della domenica! -, altre per quanto rincasavo troppo tardi - non spaccerai droga sotto l'appartamento, vero? Farò una petizione in tutto il circondario per sfrattarti!
Per la maggior parte le sue erano minacce a vuoto, dato che si annoiava e non aveva niente di meglio che prendersela con me, ma era difficile distinguerle da quelle serie, dato che aveva sempre la stessa espressione facciale, ovvero quella dell'incazzatura perpetua. Era un po' come abitare nello stesso appartamento di Batman, solo che, a sua differenza, Lin era molto più rumoroso e non combatteva il crimine nel tempo libero. Ero più propenso a ritenere che lo fomentasse.
Quel dannato vecchietto. Avessi avuto io la sua forza a ottant'anni, sarei stato felice, dato che mi sentivo già senile, nonostante ne avessi trentatré. Non che fossero pochi, ma mi sembrava di essere molto, molto più vecchio. Avevo mille anni, proprio come Sumiko.
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Ho deciso di suddividere questo capitolo in tre parti, dato che è abbastanza corposo. Così non dovrete incrociare gli occhi per leggere!
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