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Keaton passò la punta delle dita sulle ultime parole di Moore, scritte in una calligrafia stentata e irriconoscibile. Doveva averle incise sulla carta poco prima di morire.

Dunque, la sua non era stata una morte accidentale, come gli avevano sempre fatto credere. Gli avevano detto che era morto di un semplice infarto, e invece era stato ucciso. Le sue idee riguardo Eonia non piacevano a chi poteva decidere e avevano preferito eliminarlo.

Keaton richiuse il portadocumenti in pelle con le memorie di Moore, chiedendosi come mai non fossero andate distrutte. Doveva esserci stato lo zampino di Etienne. Nonostante le informazioni lì racchiuse non giocassero a suo favore, aveva preferito lasciarle intatte. Doveva essere stato un buon amico di Moore, nonostante le loro idee divergenti.

John arrotolò il diario e lo infilò nella tasca interna del suo cappotto color castagna, dove sarebbe rimasto al sicuro. Quindi decise di alzarsi e andare a parlare con Sanders.

Ora sapeva il perché di quei suoi ascessi di rabbia immotivata.

Non era sua la colpa.

*

Ero seduto alla scrivania, con la testa fra le mani, quando udii dei passi familiari percorrere il corridoio. Svelti, decisi, un regolare "tac tac". I passi di Keaton.

Poco dopo bussarono e, senza che potessi dare una risposta, la porta si aprì.

- Sanders, dobbiamo parlare - disse la voce fredda del direttore del GOPEP. C'era qualcosa di diverso in quel suono, solitamente intriso di sarcasmo e malignità. Era difficile a dirsi, ma sembrava preoccupato.

Trassi un profondo sospiro e mi voltai verso di lui.

- Cosa vuole? - gemetti. - Non è sicuro restare vicino a me, specie per un umano come lei.

Keaton mi ignorò, afferrandomi per un braccio, e mi trascinò in corridoio, mentre parlava.

- Non sei pericoloso, Sanders - sbottò, come se gli avessi fatto un enorme torto. - Io... io mi sono sbagliato.

- Come?

- Mi sono sbagliato! Contento? - brontolò lui, fulminandomi con lo sguardo. - E ora taci. Non dobbiamo attirare troppa attenzione, ti devo parlare di una cosa molto importante.

Proseguimmo lungo il corridoio, mentre io lo fissavo, chiuso in un silenzio attonito. Keaton, colui che si credeva il signore dell'universo e degli smoking stravaganti, mi aveva appena chiesto scusa?

Doveva essere qualcosa di davvero importante, allora. Non che a me dispiacesse l'idea che potesse alleggerirmi la coscienza. Ero prontissimo ad ascoltare quale fosse la sua teoria per i miei momenti di black out e tutte quelle visioni angoscianti che mi tormentavano.

Superammo la sala svago e la saletta da poker, nella quale c'era ancora il posacenere pieno di sigarette finte accanto a una bottiglia mezza vuota di aranciata. Keaton scostò un arazzo con la G su sfondo dell'emisfero che rappresentava il GOPEP, scoprendo una porta di metallo piuttosto ampia.

- Non sapevo che esistesse - mormorai, sgranando gli occhi.

- Neanche io, prima di leggere questo - disse Keaton, scostando il cappotto quanto bastava per mostrarmi dei fogli arrotolati nella sua tasca. Uno di quelli sembrava una piantina del GOPEP, dall'aspetto piuttosto vecchio. La carta ormai era giallastra e presentava quelle che sembravano macchie di caffè. - Non sono il primo ad aver gestito il GOPEP. C'è stato un altro uomo che se n'è occupato, colui che l'ha fondato. Quando io ho acquisito il suo posto, ignoravo che la vecchia parte della struttura fosse ancora in uso. Ignoravo cosa ci fosse dietro questa porta fino a pochi minuti fa.

Io deglutii a fatica. Il cuore mi batteva a una velocità angosciante, stordendomi.

- E cosa c'è lì dietro? - rantolai, stringendogli un braccio.

Keaton non mi respinse, ma mi fece cenno di seguirlo, premendosi un indice sulle labbra.

- Silenzio. Mi è sembrato di sentire dei passi. Muoviti, dobbiamo fare in fretta prima che ci scoprano.

La porta si aprì grazie alla chiave universale del GOPEP di cui John disponeva e, una volta che l'avemmo varcata, si chiuse alle nostre spalle con un tonfo metallico. Ci ritrovammo nell'oscurità più completa e Keaton usò lo schermo del suo smartphone per fare luce. Perlustrammo le pareti dello stretto corridoio in cui ci trovavamo finché non riuscimmo a trovare una serie di interruttori. Li prememmo e, dopo un istante in cui sfarfallarono debolmente, i neon si accesero. Avevano una tonalità giallastra, erano piuttosto vecchi, e alcuni di loro scoppiarono per il carico improvviso di corrente, dopo tanti anni di inattività.

- Seguimi - mi intimò Keaton, proseguendo con cautela lungo il corridoio, mentre esaminava la mappa.

- Vuole spiegarmi qualcosa? - sibilai, cominciando ad alterarmi. - Cosa stiamo andando a cercare di preciso?

- La creatura che ti ha tormentato per tutto questo tempo.

- Quale... quale creatura?

John trasse un profondo sospiro.

- A quanto pare, gli Esper non sono arrivati sulla Terra che conosciamo con una semplice navicella spaziale. Sono giunti qui grazie all'aiuto di un essere vivente simile a una medusa gigante, che li ha accolti in uno spazio interno alla sua cupola. Una creatura infradimensionale molto pacifica e gentile, che, se non le è successo niente nel frattempo, è ancora rinchiusa qua dentro, da qualche parte. Il mio predecessore avrebbe voluto liberarla, ma il Primo Ministro dell'epoca non era d'accordo e preferì tenerla rinchiusa, eliminando Moore perché non dicesse nulla. Etienne e Keira erano consapevoli di tutto ciò, Otello lo ignorava, mentre Hlovatt era contrario.

- Hlovatt?

- Silenzioso. Hlovatt è il suo vero nome. Da quanto ne so era un buon amico di questa creatura, chiamata Eonia, ma dev'essersi sentita tradita anche da lui, alla fine. Giudicando da ciò che ha detto attraverso le tue labbra, sono propenso a credere che sia completamente impazzita a causa della solitudine, dopo tutto questo tempo.

- Ecco perché...

- Che intendi?

- Silenzioso... cioè, Hlovatt, mi aveva detto di non fidarmi di Etienne e gli altri, perché avevano fatto qualcosa di orribile. Si riferiva a questo.

- E' probabile.

- Ma com'è possibile che Eonia abbia sviluppato una connessione con me?

Keaton trasse un altro, profondo sospiro, mentre ci fermavamo di fronte a un bivio, cercando di capire da che parte andare. Le mura metalliche qua erano state logorate dall'umidità e, man mano che proseguivamo verso il basso, l'aria era sempre più satura e pesante, e il freddo si intensificava.

- Una parte di lei si è distaccata quando è stata colpita da un missile mentre passava nei cieli italiani. Il colpo non l'ha uccisa, ma l'ha costretta ad atterrare in Gran Bretagna, dove poi l'hanno rinchiusa. Per quanto riguarda quel rimasuglio di lei, si è collegato proprio a Wendy, per sopravvivere. Quando lei è morta, il frammento di coscienza si è aggrappato a te, ed è ancora lì. Ora, andremo a vedere in che condizioni si trova questa Eonia, ed è meglio se saremo solo io te: temo quali reazioni potrebbe avere, nel vedere i suoi compagni. Forse, potremmo riuscire a parlare con lei. Tu hai una particolare connessione con quella creatura, ti darà ascolto.

- L'ultima volta che ho provato a parlarci mi ha ucciso - sussurrai, con un filo di voce.

Il direttore esitò, le labbra socchiuse, poi le serrò e mi strinse burberamente una spalla.

- Non ti ucciderà, Gene. Se è vero che si aggrappa solamente agli Esper e per tutti questi anni ha cercato disperatamente di contattarne altri - nonostante poi Wendy li abbia uccisi - non ti farà del male. Dopotutto, non è per colpa tua se è rinchiusa qui. Tu la comprendi, sei legato a lei. Parlale. Io sarò pronto a chiamare dei rinforzi, nel caso qualcosa andasse storto.

- Se io perdessi il controllo, potrei farle del male. Ha visto quello che sono capace di fare. Sono riuscito a stento a contenermi, quando Eonia mi ha... - Che termine avrei potuto usare? Mi ero sentito come in preda a una possessione demoniaca, quel giorno. Forse "violentato mentalmente" era il termine più adatto, ma non avevo il coraggio di dirlo ad alta voce. - ... quando lei ha preso il controllo. Se non possiamo chiamare gli altri, forse... f-forse dovrei andare da solo. Completamente solo. E' tempo che io affronti tutto questo. Sono stanco di subire. Per una volta, voglio agire.

*

A un certo punto, raggiungemmo un grande boccaporto dal diametro di tre metri, percorso da una serie di tubi che emettevano dei deboli sbuffi di vapore a intervalli irregolari. L'aria era satura di un odore solforoso che mi faceva pizzicare la lingua, e c'era un tale gelo che mi tremava la mandibola senza che riuscissi a controllarla.

- Ne sei sicuro? - mormorò Keaton, porgendomi il badge che aveva usato per aprire l'altra porta.

- Sì - rantolai. - E' meglio così. Stia pronto a reagire nel caso in cui sentisse dei rumori strani o delle grida. Io farò del mio meglio.

Il direttore annuì e fece un passo indietro, restando in silenzio nell'ombra, in attesa. I suoi occhi scintillavano alla luce incerta dei neon. Ci trovavamo a una profondità incredibile e, man mano che avevamo proseguito, le luci si erano fatte sempre più danneggiate.

Da quando le avevamo accese, avevano cominciato a indebolirsi come se le loro pile fossero scariche, nonostante non ne avessero. Mi chiedevo se questo fosse dovuto a Eonia, ancora viva, in quella stanza. Doveva pur nutrirsi, e di lei io ricordavo solo questo: la luce.

Trassi un profondo respiro per farmi coraggio e, cercando di mantenere la calma, strisciai il badge nel lettore. Il boccaporto si aprì con uno sbuffo, scivolando lentamente di lato, e un odore di stantio e chiuso mi fece girare la testa. Mi coprii il viso con una manica e, dopo aver rivolto un ultimo sguardo a Keaton, che fece un cenno per confortarmi, proseguii, avanzando nella stanza semibuia.

Era un salone molto ampio, simile a un hangar. Il pavimento era di solido metallo che risonava sotto i miei piedi creando delle eco che rimbombavano come una mitragliatrice lungo le pareti, e il soffitto era ricoperto di tubature e valvole di sfogo. Da ovunque provenivano sibili di vapore e fischi, creando un sottofondo che mi impediva di udire rumori fievoli. L'area era prevalentemente buia e le uniche luci erano quelle di innumerevoli macchine accostate alle pareti. Alcune erano fuori uso ma la maggior parte scintillava ancora, emettendo ronzii e fievoli "bip".

Mi sembrava di trovarmi in un grande cuore meccanico.

Poi, la vidi.

Al centro dell'hangar, troppo grande per non poter essere notata, c'era una camera cilindrica di vetro alta dieci metri. Era ricolma di una sostanza liquida e luminescente. Il composto era troppo torbido perché riuscissi a vedere cosa ci fosse davvero dentro, ma riuscivo a scorgere i contorni di una figura luminosa che vi nuotava placidamente.

- Eonia? - sussurrai, avvicinandomi con cautela, misurando ogni passo.

La luce ebbe un fremito.

- Eonia, sono Gene. Sono venuto per parlare con te. Solo parlare. So tutto quello che hai passato. Posso liberarti, se lo desideri, ma devi promettermi che non farai più del male a nessuno.

La luce palpitò, facendo un giro del cilindro. Sembrava così piccola. Keaton me l'aveva descritta come una medusa gigante, mentre ora pareva un pesciolino da acquario. Restare lì, sola, senza poter accedere a nessuna fonte di luce naturale, l'aveva ridotta ai minimi termini.

Arrivai di fronte al pannello di controllo e osservai tutti i pulsanti luccicanti, cercando di capire quale dovessi premere per liberarla. Come se la conoscenza fosse sempre stata in me, ebbi la visione di una serie di pulsanti da premere e leve da abbassare e sollevare. I miei muscoli agirono per conto proprio.

Le macchine che contenevano Eonia si spensero una dopo l'altra, finché nell'hangar non ci fu il buio più assoluto. Per un istante fu solo silenzio. Un silenzio sospeso e assoluto. Persino il mio cuore smise di mormorare.

Poi, con un sibilo, la sommità del cilindro si sollevò, mentre l'acqua all'interno calava gorgogliando, risucchiata dal pavimento. La luce divenne sempre più evidente, finché non si depositò sul fondo della struttura. Il vetro calò finché non ci fu più nessuna barriera a dividerci, e mi inginocchiai di fronte a quel piccolo calamaretto accasciato a terra. Nel vedere com'era ridotto non riuscii a trattenere un singhiozzo.

Tutto ciò che era rimasto della luce era un piccolo cuore pulsante, attraversato da una serie di scie colorate, che venivano assorbite da esso come se fossero sangue. Ogni volta in cui batteva, diventava un po' più debole.

La creatura aveva una cupola di circa trenta centimetri, dalla quale si dipanavano dei sottili tentacoli ondulati venati di scintille azzurre e viola. Cercò di sollevarsi in volo e galleggiò per qualche istante, ma poi ci rinunciò, tornando ad accasciarsi a terra.

Una voce sottile emerse dalle parti più profonde della mia mente, qualcosa di primordiale e viscerale, come se un musicista esperto stesse pizzicando corde mai sfiorate all'interno del mio cuore.

Sei venuto, alla fine. Ti stavo aspettando. Ormai avevo cominciato a perdere la speranza...

Deglutii e cercai il modo più delicato di raccoglierla. Alla fine, feci passare una mano sotto la cupola e con l'altra raccolsi i tentacoli, stringendo Eonia al petto. Era fresca e umida al tatto, e la sua pelle leggermente viscida. Era leggerissima. Attraverso la sua pelle trasparente riuscivo a intravedere ogni suo organo interno.

- Ti porterò in salvo - mormorai. - Dimmi solo cosa devo fare.

Eonia ebbe un fremito.

Tu sei così pieno di energia, proprio come tutti quelli della tua specie. La sento pulsare sotto la tua pelle. Dammene... dammene un po'. E' da tanto tempo che non mangio. Ti prego.

Io annuii.

- Se ti farà stare bene, prendila. Però...

Però?

- Promettimi che non ti vendicherai. Etienne e gli altri Esper non sono cattivi. Quello che hanno fatto è sbagliato e imperdonabile, ma non era con l'intento di farti soffrire.

Mi hanno lasciata a marcire qua sotto per anni. Si sono dimenticati di me, dopo il sacrificio che avevo fatto per loro.

- Lo so, lo so. Però erano spaventati. La paura spinge le persone a fare cose che non farebbero mai, altrimenti. Sei stata furiosa per troppo tempo.

Mi ero fidata di loro. Gli volevo bene, e mi hanno tradita.

- Lasciagli il tempo di spiegare, di chiedere scusa.

Non voglio le loro scuse!

- Eonia...

Loro devono pagare.

- Non sei tu che pensi queste cose. E' il legame con Wendy che ti ha trasformata. Tu le hai dato la sua rabbia e lei non ha saputo gestirla, impazzendo. Ma, essendo un legame biunivoco, anche in te qualcosa si è...

Wendy sapeva cosa volevo. Ha fatto davvero ciò che le chiedevo, a tua differenza. Ti avevo detto di ucciderli.

- Io non posso e non voglio uccidere - mormorai, col cuore in gola. - E neanche tu devi. Non ti farà stare meglio. Io lo so, credimi. Ho fatto cose...

Ti sbagli. Farla pagare a qualcuno è stata la mia unica valvola di sfogo in tutti questi anni. Volevo che sentissero quanto stavo soffrendo, e così è stato. Quei pochi istanti in cui condividevo la mia paura e il mio dolore sono ciò che mi ha tenuto in vita. Non permetterò a nessuno di portarmeli via, nemmeno a te. Dammi la tua forza.

- Eonia, io... io non posso dartela, se dici queste cose.

Dunque anche tu sei dalla loro parte. Proprio come Hlovatt. Alla fine, mi hai abbandonata.

- Non è così...

Se non vuoi donarmi parte della tua energia, significa che dovrò prendermela da sola.

Non feci in tempo a ribattere o lasciarla andare, che le ginocchia cominciarono a tremare sotto il mio peso, e caddi a terra. Il mio respiro era mozzo e accelerato, e il battito del mio cuore aumentò a dismisura, rimbombando nelle mie orecchie. Dei puntini rossi cominciarono a scoppiare davanti ai miei occhi, mentre cercavo invano di tenerli aperti. Tentai di gridare per avvertire Keaton, ma dalle mie labbra fuoriuscì a malapena un fievole rantolo.

- Keat... on...

Non lottare. Lasciati andare. Dopotutto, una parte di te ha sempre voluto questo.

Ma ora la parte che voleva vivere era più forte. Avevo trovato una famiglia, qualcuno che mi volesse bene. Non volevo rinunciarvi proprio adesso, ma Eonia era troppo forte per me. Non potevo combatterla.

Più lei diventava luminosa, più io mi affievolivo, soffocato dall'oscurità che mi stava divorando.

Mi accasciai su un fianco, il respiro che formava delle nuvolette davanti al mio viso. Un sottile filo di condensa si era raggranellato davanti alle mie labbra.

Avevo freddo, tanto freddo, ma non riuscivo nemmeno a tremare per scaldarmi.

Fui solo vagamente cosciente che la medusa, riacquistate delle proporzioni considerevoli, si era staccata da me, galleggiando nell'aria. La osservai attraverso gli occhi socchiusi, e pensai comunque che era bellissima.

Restò a fluttuare al mio fianco per un breve istante, come se mi stesse osservando o l'avesse colta un pensiero, poi proseguì la sua strada, dirigendosi verso il boccaporto chiuso. Questo venne attraversato da sottili scie di luce e si aprì sul corridoio.

Pregai che Keaton fosse fuggito e riuscito ad avvertire gli altri.

Poi, sprofondai nel buio.

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