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Keaton era seduto dietro il bancone di uno Starbucks, al centro di Londra. Stava mescolando svogliatamente il proprio frappuccino al caramello salato, cercando di capire cosa fare.

Aveva avuto un'emicrania tremenda in quei due giorni, aggiuntasi agli eventi disastrosi verificatisi al GOPEP.

Sanders era impazzito, ed Etienne era rimasto ferito.

Le misure di sicurezza non erano adeguate.

La sua parte più pratica gli diceva che sarebbe stato meglio per tutti rinchiudere Sanders in isolamento, affinché non potesse nuocere a nessuno. Tuttavia, quando era stato lui in persona ad arrivare nel suo ufficio e implorarlo di segregarlo da qualche parte, Keaton si era ricreduto.

Restare da solo gli avrebbe fatto ancor più male.

Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. L'isolamento era una forma di tortura, in fin dei conti. L'aveva già torturato una volta, avrebbe preferito non ricorrere ancora a quei mezzi.

Keaton mordicchiò il bastoncino di legno con cui aveva mischiato il frappuccino, osservando le persone che, ignare dei suoi pensieri, passavano davanti a lui. Doveva essere così facile, una vita così. Nessuna preoccupazione, nessun peso sulle spalle. Ma John sapeva che sarebbe stato lì che avrebbe davvero perso la bussola.

Il mondo pazzo in cui viveva l'aveva completamente assorbito, e un po' ci teneva a quegli Esper combina guai. Risolvere i loro problemi lo faceva sentire utile.

*

Ero rannicchiato nel mio letto e stavo fissando il muro. Le lacrime si erano seccate sulle mie guance, lasciando delle righe saline che tiravano la pelle ad ogni micromovimento del mio volto.

Deglutii la saliva pastosa che avevo in bocca e allungai una mano verso la bottiglia d'acqua ai piedi del mio letto. Bevvi avidamente, e la gettai, ormai vuota, nel cestino in parte alla scrivania.

Perché ero ancora lì?

Credevo che, dopo quello che avevo combinato, Keaton mi avrebbe chiuso in quarantena. Dannazione, gli avevo chiesto anche io di farlo.

Nessuno mi ascoltava, e poi succedevano disastri.

Non volevo che quello che era successo si ripetesse. Mi sentivo come una bomba pronta a esplodere alla minima sollecitazione e, se fossi saltato in aria, non volevo coinvolgere quelli che ormai erano diventati i miei unici amici, una piccola famiglia adottiva.

Per l'ennesima volta avevo avuto la conferma che dentro di me c'era qualcosa di malvagio, e stavolta non era colpa di Wendy. Lei era morta e i morti non tornavano in vita, né potevano tormentare i vivi. Erano solo stupidaggini. Tutte stupidaggini.

Mi rannicchiai su un fianco, abbracciando il cuscino per cercare un po' di conforto.

Bussarono alla porta.

Senza nemmeno alzare lo sguardo, gli dissi di andare via.

- Sono Etienne.

Nascosi il volto nel cuscino, ansimando. No, proprio lui no. Come potevo guardarlo negli occhi dopo quello che avevo fatto?

- Vai via - ripetei, con voce flebile.

La porta si aprì ed Etienne entrò, camminando con andatura claudicante. Mi girai dall'altra parte per non vederlo. Non volevo sapere quanto male gli avessi causato, poter quantificare la mia mostruosità.

- Gene, i ragazzi mi hanno detto che ti sei rintanato qui - mormorò lui, e avvertii il letto piegarsi leggermente sotto il suo peso, mentre si sedeva al mio fianco. Una sua mano si posò sul mio braccio destro, e io non riuscii a trattenere un singhiozzo. - Ehi, cosa succede?

Mi voltai verso di lui, con le labbra che tremavano. Non potendolo guardare in viso, osservai Bob, che teneva poggiato sulle ginocchia. I suoi occhi di plastica, vuoti, scintillavano di una muta accusa. Avevo fatto del male al suo amico.

- Gene, Gene - disse Etienne, ridendo piano. Mi sollevò il mento con una mano, in modo che lo guardassi negli occhi. Credevo che sarebbe stato furioso o avrebbe avuto paura di me, e invece sembrava intenerito. - Va tutto bene. Guarda, è solo un graffio. Ne ho passate di peggiori nella mia lunga vita. Credi che un cucciolo potrebbe farmi male per davvero? Nemmeno se ci provassi con tutte le tue forze, riusciresti a ferirmi seriamente.

Mi porse un fazzoletto e io feci un sorriso singhiozzante, accettando quel dono. Mi asciugai il viso e mi soffiai il naso, sotto lo sguardo indulgente di Etienne, che teneva la testa poggiata su una mano.

- Dove ti ho fatto male? - mormorai, a occhi bassi.

- Una delle ali. Solo perché sono atterrato sulla schiena - sospirò lui e, per la prima volta, si tolse quell'assurda camicia da notte che portava sempre. Sotto indossava una semplice canottiera e dei pantaloni corti a righine. Volse le spalle verso di me.

Dalle sue scapole emergevano un paio di ali dalle piume grigio tortora, striate di azzurro verso le punte. Erano molto ampie, con un'apertura di due metri e mezzo per lato. Una di esse era un po' storta e presentava una fasciatura alla base della scapola. Sebbene si muovessero rapidamente come quelle di un uccello, erano molto più solide e c'erano delle spesse fasce muscolari al loro interno.

- Tu puoi... puoi volare? - balbettai.

Etienne rise piano, mentre si alzava in piedi e si stiracchiava, aprendo le ali con cautela. La destra, ferita, riusciva ad arrivare solo fino a un certo punto, prima di ritrarsi con un leggero spasmo.

- Ahi - si lamentò il medico, con una smorfia, tornando a piegarle. - Se posso volare? Beh, nella mia dimensione la gravità era minore. Là potevo tranquillamente. Qui ci riesco, ma per brevissimi periodi di tempo. Sono molto leggero, tuttavia volare è faticoso e costa un sacco di energie, nonostante mi manchi. E poi, con tutte le vostre tecnologie, mi confondereste con un UFO o qualche altra stupidaggine.

Io sorrisi, ma tornai a osservare la ferita, e avvertii una fitta di angoscia.

- Ti fa tanto male? - chiesi, indicandola.

- No - disse Etienne, alzando gli occhi al cielo. - Passerà presto. Sono immortale, ricordi? Probabilmente fra migliaia di anni sarò ancora qui ad annoiarmi.

- Ma puoi morire se qualcuno... insomma, se qualcuno...

- Sì. Posso, come sono morti molti della mia specie. Però ho un altissimo fattore di rigenerazione. Un paio di giorni e sarò come nuovo. Non preoccuparti, Gene. E' tutto a posto. Davvero. Smettila di tormentarti. Non eri tu, quello.

- E chi era, allora?

Etienne sospirò, incrociando le braccia sul petto.

- Non ne ho idea - mormorò, evitando il mio sguardo. - Sei tu quello che dovrebbe recuperare, invece. Non dev'essere stato piacevole essere usati in quel modo. Smettila di fuggire da noi. Non sei un appestato. Non tornare sui tuoi passi.

- Ci... ci proverò.

Etienne sorrise e posò Bob sul mio cuscino.

- Ti farà compagnia lui. Ora devo andare.

- Dove?

- Keaton ha dei compiti per me. Molto urgenti.

- Riguardano me, per caso?

- Come sei egocentrico - sogghignò lui, dandomi un buffetto sul naso. - No, sembra semplicemente che ci sia una falla nel sistema del GOPEP e il signor direttore vuole che lo aiuti a sistemarla. Io e Molly risolveremo presto il problema.

Senza aggiungere altro, se ne andò. Mi raccomandò solo di raggiungerli per cena e di non restare solo troppo a lungo. Non mi faceva bene.

Mi rannicchiai di nuovo nel letto e raccolsi Bob, posandomelo attorno al collo. Era caldo e morbido, come una pelliccia.

- Etienne non mi sta dicendo tutto, Bob - sospirai. - Tu ne sai qualcosa?

Il peluche restò in silenzio.

- Ah, sapevo che non mi avresti detto niente. Non lo tradiresti mai. Però io devo sapere. Voglio sapere. Da quando sono arrivato non fanno altro che nascondermi cose sul mio conto. C'è qualcosa che non va in me e voglio aggiustarla, una volta per tutte.

*

Keaton incrociò Etienne in corridoio, prima che entrasse in camera. Lui era appena rientrato dal suo giro in centro, per prendere una boccata d'aria, e il medico dalla sezione Esper.

Aveva un'espressione cupa, come se stesse riflettendo su qualcosa di poco felice.

- Francese - lo chiamò John, facendogli un cenno con una mano.

- Uh? - fece lui, riscuotendosi dai suoi pensieri. - Oh, Johnny. Ciao. Cosa vuoi?

- Vieni qui. Vorrei parlarti un minuto.

Etienne sospirò e ubbidì, raggiungendolo nello studio. Keaton versò del the, che Etienne rifiutò, e lo bevve da solo, appoggiato contro i termosifoni per riscaldarsi un po' dopo essere sopravvissuto al gelo esterno.

- Allora? - sbottò John.

- Allora cosa?

- Sanders. Tu sai qualcosa, non è vero? Tutti voi lo sapete. Perché non mi dite la verità, una buona volta? Cosa mi state nascondendo?

Etienne scosse la testa e le sue ali ebbero un fremito. Ora non si dava nemmeno la pena di nasconderle... come se ci fosse riuscito, prima.

- Non ti abbiamo mai nascosto niente, John. Sei tu che lo hai nascosto a te stesso.

- Che intendi dire? Non sarà uno dei tuoi giochetti.

- No, non lo è - disse il medico, facendo un cenno col capo alle scartoffie sulla scrivania di Keaton. - Forse ce l'hai nell'altro studio, al momento, ma ti consiglio di leggere quello che hai sempre messo da parte. Le memorie di Eleazar Moore, il suo resoconto su di noi. Potresti scoprire delle cose importanti. Solo... - qui la sua voce si incrinò, come se non riuscisse a parlare correttamente. - ... non pensare troppo male di noi, una volta che l'avrai letto. Eravamo spaventati e stanchi. Avevamo bisogno di una casa, e non ce la facevamo più a viaggiare. Ricordatelo, mentre leggerai.

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