3
Quando mi svegliai era mattino inoltrato, e sentivo un forte mal di testa. Julius, rimasto al mio fianco per tutta la notte, mi leccò tutto il braccio destro nel tentativo di curare il mio male, come se volesse riparare alla sua vigliaccheria. Gli feci una carezza per placarlo e mi trascinai fino in bagno. Feci una smorfia, vedendo il mio riflesso. Ero ancora sporco di sangue, ormai secco, e avevo un aspetto terribile. Mi lavai il viso e mi feci la barba, osservando la schiuma che si radunava in piccoli cumuli nel lavandino. Terminai di lavarmi e frugai nell'armadietto alla ricerca di un antidolorifico che mi facesse passare quella dannata emicrania e il bruciore al dorso della mano. Ingoiai due pillole bianche e rotonde, mandandole giù con un sorso d'acqua, e tornai di là per prepararmi qualcosa da mangiare. Aprii il frigo e provai l'ennesima delusione. Non c'era niente, fatta eccezione per un mezzo melone che cominciava a puzzare e una bottiglia di ketchup mezza vuota. Senza nessuna voglia, mi vestii e cercai di darmi un aspetto più decente, così la gente non sarebbe scappata credendomi uno zombie. Infilai un paio di jeans ed un maglione puliti e, dopo essermi avvolto in un vecchio cappotto, uscii, lasciando Julius ad attendermi sulla soglia. Guidai fino al supermercato e, durante la strada, pensai a quello che era successo la sera precedente. Non sapevo nulla di quella ragazzina, potevo solo immaginare dove si fosse cacciata. Ma se diceva che sua sorella era stata uccisa, forse la sua morte era stata segnalata nei giornali locali. A parte che a Londra e dintorni c'erano talmente tanti delitti da non riuscire a tenerne conto, ma l'assassinio della bambina doveva essere avvenuto da queste parti. Strano che io non ne avessi saputo niente.
- Seh, strano - dissi fra me e me, con uno sbuffo.
Io vivevo fuori dal mondo, non avevo una tv e i giornali non li leggevo. Ovvio che non ne avessi saputo niente. In genere evitavo la gente, se potevo farlo. Le uniche persone con cui andassi davvero d'accordo erano Lucy e Larry.
Ma forse avrei potuto recuperare qualcosa dalla biblioteca. Lì tenevano anche i giornali degli anni passati e avrei potuto rintracciare quello che mi serviva con l'aiuto dei bibliotecari.
Di tutte le cose che Sumiko mi aveva detto, oltre sapere che esisteva un mostro che aveva ucciso una bambina, mi aveva colpito il fatto che nessuno l'avesse ascoltata. Non mi sorprendeva che quella ragazzina non avesse fiducia negli adulti. Se quando aveva detto che sua sorella era stata uccisa nessuno le aveva creduto e avevano scambiato la sua testimonianza con il frutto di un disturbo mentale; fossi stato in lei non mi sarei più avvicinato a nessuno. Era incredibile fin dove potessero arrivare l'indifferenza e la crudeltà verso chi era troppo debole per difendersi, come un bambino.
Parcheggiai e feci la spesa da Tesco, ficcando nel carrello tutto quello che mi capitava sottomano. Cercai di prendere qualcosa di salutare, perché ogni volta che Lucy passava a casa mia sosteneva che io mangiassi spazzatura, e ripiegai su qualche insalata e della frutta in vaschetta. Adoravo quelle piccole porzioni che vendevano in quel supermercato. Tutto impacchettato e confezionato: mi dava una sensazione di pulizia e professionalità. Ad ognuno le sue manie.
Passai nel reparto dolci - scusa, Lucy - e feci incetta di schifezze, per poi andare a prendere anche qualche pacco di patatine - scusa ancora.
Mi misi in fila alle casse, attendendo il mio turno. Mentre aspettavo che la signora con il chihuahua davanti a me deponesse la spesa sul nastro trasportatore, lasciai vagare il mio sguardo, e mi resi conto che qualcuno mi stava fissando. Si trattava di una ragazza dall'abbigliamento goth, i capelli neri e blu stretti in un'acconciatura disordinata, ed il trucco pesante. Se ne stava all'uscita del supermercato e mi guardava con i suoi ampi occhi verdi.
Ebbi un sussulto interiore e feci finta di non averla notata, pregando che non stesse aspettando me. Era Wendy, la cugina di Larry. Quella dannata ragazza mi faceva venire voglia di trasformarmi in uno degli idioti armati di torcia e forcone che mi avevano inseguito per tutta la vita. A morte, mostro di Frankenstein!
Pagai la spesa e uscii il più velocemente possibile, passandole davanti in silenzio. Avvertii il sonoro tap tap delle sue zeppe mentre mi veniva dietro e accelerai il passo. Stavo quasi correndo, quando arrivai alla macchina. Gettai le borse nel bagagliaio e salii a bordo. Misi in moto, ma non riuscii ad allontanarmi, perché lei fu più svelta e salì a bordo, accomodandosi nel sedile al mio fianco.
- Dove correvi, Gene? - mi chiese, fissandomi con i suoi sporgenti occhi da pesce palla.
- Ho fretta - riuscii a bofonchiare. - Non ti avevo riconosciuta, scusa.
Era una bugia talmente patetica che Wendy non si diede la pena di commentare, facendo finta che non l'avessi detta.
- Ho bisogno di parlarti.
- Ah, ma davvero? - gemetti, insofferente. - Senti, Wendy, io devo...
- Ho visto - mi interruppe lei, come se quelle parole fossero intrise di significato.
Pensai che non c'era dubbio che non avesse visto, con quegli enormi occhi che si ritrovava, ma mi guardai bene dal dirglielo. Non riuscivo a spiegare la repulsione che provavo per Wendy. Era stupida, infantile, ma era anche reale.
- E cos'avresti visto?
- Io abito sopra il Black Cat. So che ieri sera qualcuno ti ha sequestrato. Ero sul davanzale e stavo fumando una sigaretta - mormorò, sottovoce.
Più che una sigaretta, forse era crack, visto che non le era venuto in mente di chiamare la polizia. Ma Wendy non era mai stata molto sveglia. Il suo sguardo era vuoto, morto, come quello di un animale ottuso che non riesce a decifrare i messaggi dei propri simili.
- E allora?
- Niente. Volevo controllare che stessi bene.
- Non preoccuparti, è tutto apposto - mormorai - Ed ora ti sarei grato se scendessi dalla mia macchina.
- Dammi un passaggio a casa, per favore. Sono a piedi e mi sono ricoperta i piedi di vesciche con queste scarpe.
Lei e le sue stupide zeppe!
Cercando di contenere il disagio, misi di nuovo in moto e mi immisi nel traffico. Per tutto il dannato tragitto avvertii i suoi occhi su di me, intenti a fissarmi come se stessero osservando ogni singola cellula epiteliale che moriva e veniva sostituita sul lato sinistro del mio viso. Mi sarebbe piaciuto dirle di guardare altrove, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Era troppo stupida per darmi retta e mostrarmi infastidito avrebbe solo rafforzato la convinzione che quello che stava facendo era divertente.
- Gene, chi era quello che ti ha preso? - mi chiese ad un certo punto.
- Oh, nessuno - mormorai, con una scrollata di spalle. - Solo un tizio che voleva dei soldi per farsi una dose, tutto qui.
- Davvero?
- Sì. Davvero.
Wendy sembrò delusa dalla conclusione brusca della storia e si rannicchiò sul sedile, tenendosi le gambe premute contro il petto.
- E io che pensavo avessi incontrato la bambina maledetta - sussurrò, come se avesse tenuto quella chicca in serbo per stuzzicare la mia attenzione.
- Quale bambina maledetta?
- Ma come, non lo sai? - disse Wendy, mentre sul suo volto si stiracchiava un ampio sorriso, che mi fece rimpiangere il suo sguardo fisso di poco prima. - Sono state aggredite diverse persone, in questo periodo. L'hanno fatto vedere al telegiornale. Quei pochi che, prima di morire, hanno ripreso conoscenza all'ospedale, continuavano a ripetere di aver visto una bambina, che li aveva tormentati fino a spingerli al suicidio. Nessuno di loro si è salvato. Stai molto attento, Gene, o potresti fare la stessa fine.
Il tono in cui disse quelle ultime frasi mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. Sembrava che sperasse che mi succedesse una cosa del genere, come se la incuriosisse sapere come sarei morto.
Arrivammo al Black Cat pochi istanti dopo e fu uno dei momenti più belli della mia vita, quando la vidi alzarsi e scendere dall'auto, agitando mollemente una mano in segno di saluto, quel sorriso sinistro ancora impresso in volto.
Mi diressi verso casa e, una volta arrivato, mi preparai da mangiare. Ruppi due uova e cucinai degli spinaci, mentre tenevo d'occhio l'orologio a forma di regina Elisabetta sulla parete destra della stanza - un regalo di pessimo gusto fattomi da Larry il Natale precedente. Erano quasi le due. Dovevo sbrigarmi se volevo fare un salto in biblioteca, ma forse le mie indagini su Sumiko avrebbero dovuto aspettare. Oggi, il 12 febbraio, era un giorno molto importante. L'anniversario. Sembrava quasi che Sumiko fosse venuta di proposito a farmi visita alla vigilia delle mie disgrazie. Questo era il pomeriggio in cui andavo a pagare.
Mi riempii il piatto e mangiai voracemente, mentre leggevo qualche riga di Delitto e Castigo, di Dostoevskij. Ormai io e quel romanzo eravamo una cosa sola. Era da anni - anni - che cercavo di finirlo, ma non riuscivo ad andare avanti. Lo trovavo frustrante, perché ormai sentivo Raskolnik'ov come un fratello perduto. Il giorno dell'anniversario finivo sempre per mollarlo e lasciarlo in un angolo a prendere polvere, finché non avessi trovato il coraggio di ricominciarlo da capo. Leggere i tormenti di Raskolnik'ov mi turbava profondamente, eppure non potevo farne a meno.
Misi il piatto e le posate sporche nel lavandino e, dopo averle lavate, mi dedicai alle mie amiche piante. Le annaffiai e pulii loro le foglie. Notai con piacere che un bonsai stava cominciando a produrre i suoi frutti in miniatura e mi sentii un po' meglio. Decisi che sarebbe stata quella la pianta che avrei portato in dono. Raccolsi con delicatezza il piccolo melograno e lo misi in un sacchetto di carta. Ogni anno selezionavo la pianta più bella che avessi per offrirla. Era uno di quei tanti, piccoli rituali che mi impedivano di impazzire.
Quando raggiunsi l'ospedale di Saint Thomas erano le cinque del pomeriggio. Salii fino al piano dove riposava il mio vecchio amico e mi permisero di fargli visita. Per fortuna i suoi genitori non erano presenti, o mi avrebbero fatto una scenata, com'era successo tre anni fa. Col passare del tempo avevano capito che io andavo sempre a trovarlo in quel fatidico giorno e avevano imparato ad evitarmi. Avrebbero potuto impedirmi di vederlo, ma non ne avevano il cuore. Forse, in fondo, sapevano quanto mi tormentassi per l'accaduto, e mi permettevano quella minima valvola di sfogo. Immaginavo ci fosse la madre di Cornelio dietro questa decisione: lei era sempre stata gentile con me.
Depositai il bonsai sul comodino accanto al letto e trassi un profondo sospiro, incrociando le mani sotto il mento.
Del bambino con cui avevo passato tanti pomeriggi a giocare al parco restava una creatura pallida ed emaciata. I suoi capelli, un tempo di un biondo brillante, ora avevano un colore spento. La sua barba era incolta e gli ricopriva le guance scavate sotto forma di lieve peluria. Era magrissimo, quasi uno scheletro, e si guardava attorno con aria sognante. Lo portavano a fare i cicli di cura ogni tre mesi, ma niente sembrava in grado di farlo tornare in sé. I medici lo tenevano sott'occhio perché lo reputavano un caso anomalo da studiare, solo per questo non gli avevano usato la pietà di porre fine alle sue sofferenze. Non c'era nulla che non andasse in lui, nessun danno cerebrale, nessun problema fisico, eppure si trovava in alto mare.
- Cornelio, sono qui - mormorai, raccogliendo una delle sue mani pallide fra le mie.
Erano umide, come se le avesse messe in bocca. Altre volte, in cui ero dovuto andare a trovarlo a casa, l'avevo visto rannicchiato in un angolo, intento a succhiarsi le dita. Non ero mai riuscito a capire quel gesto, ma mi aveva sempre fatto impressione.
Cornelio emise un verso incomprensibile e sembrò mettermi a fuoco, poi il suo sguardo si fece di nuovo vacuo e tornò a perdersi nelle sue fantasie. Come succedeva sempre, scoppiai in lacrime, premendomi la sua mano sulla fronte, come se questo fosse stato sufficiente a riparare al danno che avevo fatto.
Dopo essere stato in ospedale, mi diressi verso casa. Ebbi appena il tempo di mettere qualcosa sotto i denti e dare da mangiare a Julius, che dovetti ripartire. Mi fermai di fronte all'appartamento fatiscente dove viveva Lucy e, come al solito, aspettai che scendesse. Puntuale come un orologio, lei aprì la porta pochi istanti dopo, percorrendo il sentiero sassoso che la separava dalla macchina. Il cancello cigolò quando se lo richiuse alle spalle. Salì a bordo e, non appena ebbe modo di guardarmi meglio, aggrottò le sopracciglia.
- Gene... stai bene? - sussurrò, mentre si agganciava la cintura.
- Sì - rantolai, nonostante tutto in me dicesse il contrario, a partire dagli occhi. Bruciavano e dovevano essere ancora arrossati.
Lucy fece una smorfia a metà fra il fastidio e il divertimento, e mi pizzicò una guancia col suo fare da mamma. Deformazione professionale.
- Mark e Charlie sanno mentire meglio di te - sogghignò, scuotendo la testa. - Sembra che sia successo qualcosa di grave. Andiamo, con me puoi parlarne.
Io deglutii a fatica, mentre nella mia mente si svolgevano cento ipotetici scenari di come sarebbe potuta finire quella conversazione. Lucy stava diventando troppo importante per me perché potessi nasconderle un fatto di tale rilevanza. Non sapevo se l'interesse che lei aveva suscitato in me fosse ricambiato, ma, anche se fosse stato a senso unico, preferivo essere sincero con lei.
- Ci conosciamo da un po', ormai - mormorai, cercando di suonare il più naturale possibile.
Lucy si rannicchiò comicamente contro il lato destro del sedile, con una smorfia orripilata.
- Gene, non starai mica cercando di confessare il tuo sempiterno amore per me, vero? - chiese, gli occhi sgranati.
Stava scherzando, per tirarmi su di morale, ma non ero affatto in vena. Trassi un profondo sospiro e lei comprese che ero serio, quindi si adattò di conseguenza.
- E' una cosa importante - constatò.
- Qualcosa che, se vuoi che la nostra... - Mi fermai per cercare la parola adatta per definire il rapporto che c'era fra noi, ma non mi venne in mente niente. - ... ecco, qualcosa che devi sapere per forza, se, ipoteticamente parlando, ti avvicinassi di più a me.
Lucy strinse gli occhi, scrutandomi con attenzione.
- Non sarai mica coinvolto in qualcosa di losco.
- No, no - mormorai, lasciandomi sfuggire una risata. Magari fosse stato solo quello. - E' qualcosa che mi segue da tutta la vita, una sorta di malattia: devi sapere con chi hai a che fare, non voglio darti delle false sicurezze.
- Gene, cominci a spaventarmi.
Sorrisi amaramente. Non era la prima a dirmi una cosa del genere. Tuttavia, era quello l'atteggiamento giusto.
______________________________________________________
Ho messo anche questo capitolo per chi non aveva letto il primo, suddiviso in due parti... così avete avuto qualcosa da leggere anche voi :)
Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti, sono curiosa :]
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top