26
Ero seduto al centro del logoro tappeto della stanza di Sumiko, le mani abbandonate sulle ginocchia. Cercavo invano di rilassarmi, con lo scopo di entrare in contatto con la mente di Wendy e scoprire dove si trovasse in quel momento, ma, ogni volta in cui ci provavo, mi trovavo di fronte a un muro invalicabile.
Si stava impegnando nel respingermi, impiegando solo un decimo dello sforzo che costava a me mettermi in contatto con lei.
Tutto ciò era avvilente.
Come avrei fatto ad affrontarla? Era più forte di quanto avessi immaginato, sotto ogni punto di vista.
L'unico fatto positivo della mia permanenza in questo buco puzzolente era che i miei piedi erano quasi guariti e non facevano più male. Potevo anche indossare le scarpe, sebbene dovessi sempre proteggermi con dei cerotti. Poi, per quanto riguardava le mani, le ferite, più superficiali, si erano del tutto rimarginate.
Trassi un profondo respiro per scaricare la tensione e spostai lo sguardo su Sumiko, seduta davanti al minuscolo tavolo di plastica traballante accanto ai fornelli. Era curva sul laptop e ne osservava il monitor con gli occhi sbarrati, come se non volesse perdersi il minimo particolare di qualunque cosa stesse facendo.
Da quando aveva scoperto chi era l'assassina di sua sorella non aveva fatto altro che cercare informazioni su di lei. Io immaginavo quali fossero le idee che le passavano per la testa: voleva darsi una spiegazione per l'accaduto, trovare un motivo per cui la piccola Seiko era morta.
Io ero stato nella mente contorta di Wendy più di una volta ed era un'esperienza tutt'altro che piacevole. La parte più spaventosa era che, forse, un po' la capivo. Aveva vissuto sentendosi un'emarginata, senza nemmeno sapere perché, e l'unica persona che le avesse mostrato un briciolo di comprensione, Greta, l'aveva abbandonata. Almeno io avevo avuto Trevor a sostenermi. Lui mi aveva estratto dal posto buio in cui stavo sprofondando e aiutato a tornare a galla. Lei, invece, era rimasta a farneticare in solitudine e aveva finito per smarrire se stessa. Credevo fosse convinta di non poter percorrere nessun'altra strada che non fosse quella della violenza, per ricevere un briciolo di empatia. Il dolore era l'unica forma di comunicazione che conoscesse, ormai.
Ripensando ai suoi quadri, talmente saturi di angoscia, mi chiedevo come avessi fatto a non notare prima che dipingeva quei soggetti per un determinato motivo.
Erano quelli che sentiva più affini a sé, uno specchio della sua interiorità.
Mi resi conto di quello che stavo pensando e scossi la testa per scacciare quei pensieri: non dovevo dimenticarmi che Wendy aveva ucciso un sacco di persone innocenti, nel tentativo di riempire il vuoto che sentiva.
Un trillo improvviso mi distolse dalle mie elucubrazioni, facendomi sussultare per lo spavento.
Spostai lo sguardo sulla fonte del rumore e scoprii che apparteneva al telefonino usa e getta che Sumiko aveva utilizzato per mettersi in contatto con Yates.
Era da giorni che aspettavamo una sua chiamata, e finalmente aveva deciso di farsi sentire.
La ragazzina sollevò lo sguardo dal computer, aggrottando le sopracciglia con disappunto.
- Gli avevo detto che un solo squillo era più che sufficiente. Cosa gli è venuto in mente? - mormorò, rivolta più a se stessa che a me.
- Forse ci deve comunicare qualcosa di importante. - le feci notare. - Dovremmo rispondere.
Sumiko esitò, mentre abbassava il monitor e si alzava in piedi. Ora ci trovavamo entrambi davanti al fatidico telefonino, intenti a fissarlo. Era un modello molto vecchio, senza lo schermo touch di cui ormai ogni smartphone disponeva. Uno di quei Nokia preistorici, proprio come il mio cellulare. Chissà che fine aveva fatto, poveretto. Dal giorno dell'incidente non l'avevo più visto, probabilmente era andato distrutto. Quell'idea mi mise un'improvvisa malinconia, ricordandomi quanto la mia vita fosse stata sconvolta da Wendy, e, prima che potessi impedirmelo, afferrai il cellulare per rispondere.
- Yates? - chiesi, cauto.
- Grazie al cielo! Credevo non avreste risposto. - rantolò la voce di Yates dall'altra parte. Ansimava, come se avesse corso. - Non ho molto tempo. Sono riuscito a seminare gli uomini che Keaton mi aveva piazzato alle costole, ma non ci metteranno molto a localizzarmi.
- Perché ha telefonato?
- Sarò breve: non dovete agire. Non fate niente di sconsiderato.
- Cosa? - rantolai, sgranando gli occhi - Ma ci ha aiutato a fuggire proprio perché...
- Keaton è furibondo, ragazzo. Oggi è venuto nel mio ufficio. Ha cercato di terrorizzarmi. E' sulle tue tracce e ha tutta intenzione di rinchiuderti di nuovo al GOPEP. E' convinto tu sia pericoloso, proprio come il killer.
- Pericoloso? Ma... e cosa dovrei fare per convincerlo del contrario?
- Non puoi. Ormai John ha le sue idee, non si fermerà di fronte a niente pur di portare a compimento ciò che ha in mente. - Yates fece una lunga pausa. Riuscivo a percepire la sua preoccupazione come se lo avessi di fronte a me. - Mi sono reso conto di quanto io sia stato arrogante a chiederti di sbarazzarti del killer per noi. Quel mostro è forte, non è vero?
Io deglutii a fatica. Il battito cardiaco mi rimbombava nelle orecchie e i palmi delle mani erano sudati.
- Sì.
- Più forte di te?
- Molto.
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