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La sua voce era più acuta di quella di un uomo adulto. Doveva essere al massimo un adolescente, anche a giudicare dalla sua stazza.

Io respiravo a fatica sotto la sua mano, ma cercai di mantenere il controllo e annuii, col cuore in gola.

Lentamente lui tolse le dita e fui libero di parlare, sebbene il coltello fosse ancora al suo posto.

- Tu sei Mustang89? - gli chiesi con un filo di voce. Il cuore mi rimbombava ancora nelle orecchie per lo spavento.

- Sì. - mormorò lui. - Ora metti in moto e guida fino a casa. Non fare mosse brusche o cercare di chiamare qualcuno. Me ne accorgerò.

- D-d'accordo. - rantolai, ubbidendo.

Menomale che Lucy non era venuta con me o anche lei si sarebbe trovata incastrata con questo pazzoide.

- Che cosa vuoi da me? - gli chiesi, cercando di non lasciar trasparire alcun tremito nella voce. Avvertivo con chiarezza la fredda lingua del coltello premermi all'altezza della giugulare e a stento riuscivo a deglutire, per paura che mi incidesse la carne.

- Zitto e guida. - sibilò lui, facendosi feroce, premendo con più forza il coltello. - Ne parleremo quando saremo arrivati.

Non ebbi altra scelta che non fosse ubbidirgli. Dopo circa mezz'ora di strada raggiungemmo la zona dei Palazzoni, come li chiamavo io. Una serie di spogli prefabbricati grigi e squallidi che, quando ci passavo davanti, mi facevano sentire come un sultano. Il confronto ai poveracci che ci abitavano io ero un sultano.

Raggiunsi la zona dove la periferia cominciava a sfumare nella campagna e parcheggiai nel piccolo piazzale dietro il piccolo agglomerato di edifici dove abitavo. Erano delle strutture rettangolari dipinte di rosso, vicine alla ferrovia della stazione di Londra. Passavano decine e decine di treni ogni giorno, ogni ora, e mi ero talmente abituato al rumoreggiare del loro passaggio sulle rotaie da non riuscire nemmeno a dormire senza quel suono che mi rimbombava nelle orecchie.

Scesi dalla macchina e, non appena misi piede a terra, Mustang89 mi piazzò il coltello sulla schiena.

- Muoviti. - sibilò - E non fare rumore, altrimenti...

- Okay, okay. - lo interruppi, mentre mi frugavo in tasca alla ricerca delle chiavi dell'entrata sul retro.

Mentre armeggiavo con la serratura, osservai il mio aggressore con la coda dell'occhio. Era più basso ed esile di quanto avessi immaginato. Io non ero un palestrato, ma sarei riuscito a sopraffarlo, se fosse stato necessario. Per il momento preferivo non rischiare. L'avrei fatto salire nel mio appartamento, dove avrebbe avuto meno spazio per muoversi, in un territorio che conoscevo molto bene. Non sarebbe stato difficile disarmarlo.

Mustang89 nascose il coltello nella tasca del giubbotto, restando un paio di passi dietro di me, mentre salivamo le scale fino al secondo piano. Entrammo nell'interno 7 e ringraziai il cielo che il signor Lin non mi stesse aspettando per farmi la predica, quella sera. Il dannato strozzino doveva avere un radar per le brutte situazioni, perché tutte le volte in cui era capitato che io fossi di umore particolarmente intrattabile o quella volta in cui la mia ex aveva scagliato una bottiglia mezza vuota di birra contro la porta, non si era mai fatto vedere.

Girai la chiave nella toppa ed entrammo nell'appartamento. Si trattava di un monolocale con un salotto che fungeva anche da sala pranzo, un piccolo cucinino, un bagno microscopico ed una piccola stanza da letto. Era più che sufficiente per uno scapolo di trent'anni, per giunta senza i soldi necessari a comprarsi tutti quegli ingombranti mobili Ikea che piacciono tanto alla gente. L'unica cosa in cui spendevo soldi erano le piante, che popolavano buona parte del davanzale e ogni altra superficie disponibile.

Mustang89 tornò a puntarmi contro il coltello e mi sottrasse le chiavi. Chiuse la porta e se le ficcò in tasca, casomai mi fosse venuta l'idea di scappare.

Avanzò verso di me, finché non mi ritrovai bloccato fra il frigo e la mensola dove tenevo le spezie ed un cactus in piena fioritura.

- Cosa vuoi fare? - sussurrai, le mani alzate in segno di resa. - Uccidermi?

- No, a meno che tu non ti sia macchiato. - mormorò Mustang89, osservandomi attraverso il passamontagna.

L'unica luce era quella proveniente dai lampioni sul viottolo che avevamo attraversato in macchina. Filtrava attraverso la finestra e andava a colpire il volto del ragazzo, tale che riuscii a guardarlo meglio, nonostante fosse a volto coperto. Aveva degli occhi leggermente a mandorla, come se avesse avuto delle origini orientali, neri come l'inchiostro.

- Andiamo a vedere il resto del tuo appartamento. - mi ordinò, indietreggiando per darmi modo di muovermi.

Ovunque passavamo, lui si fermava per svuotare ogni cassetto e guardare in ogni angolo, facendo scorrere le dita su tutti gli oggetti che gli capitarono sottomano. Si accorse che io lo stavo guardando e mi fulminò con lo sguardo.

- Vai avanti! - sibilò, minacciandomi con il coltello.

- Lo faccio, lo faccio, non agitarti. - mormorai, cercando di calmarlo.

Frugammo in ogni singola stanza del mio appartamento, fino ad arrivare alla mia camera. Accanto al mio comodino riposava un bonsai, una quercia in miniatura. Era uno di quelli cui ero più affezionato, siccome era stata una delle prime piante che avevo comprato. Il ragazzo ne toccò le foglie e dovetti ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non gridargli contro. Come se nulla fosse, aprì i cassetti, scaraventandone il contenuto sul pavimento, sventrò gli armadi e ridusse il letto ad un ammasso di lenzuola. Per tutto il tempo non mi tolse gli occhi di dosso per un solo istante. Solo dopo aver finito di frugare fra le mie cose si concesse un sospiro e abbassò la guardia. Pensai che quello era il momento più opportuno e mi lanciai addosso a lui, afferrandogli la mano con il coltello. Avvertii un bruciore al dorso della mano, ma non allentai la presa. Riuscii a piegargli il polso, facendogli cadere la lama di mano. Allontanai Mustang89 con una spinta e raccolsi il coltello, stringendolo convulsamente fra le dita. Lui, stordito dalla caduta, stava cercando di rialzarsi. Con la mano libera gli strappai il passamontagna dal viso, deciso a guardarlo in viso. Ero proprio curioso di vedere che faccia avesse quello psicopatico.

Una cascata di capelli neri tagliati a caschetto, simili a seta, emerse dal passamontagna, ricoprendogli il viso. Lasciai cadere il passamontagna e mi inginocchiai al fianco di Mustang89. Gli scostai i capelli dal viso e restai a bocca aperta. Non era un ragazzo, ma una ragazza. Anzi, una ragazzina. Le sue guance avevano ancora un aspetto soffice e infantile, e lo stesso valeva per la piega della sua mandibola e le labbra. Aveva un naso piccolo e schiacciato, e la sua pelle una sfumatura color pesca. Fui talmente sorpreso da quella scoperta che non reagii nemmeno, quando lei scattò come una faina. Un attimo dopo ero io quello steso a terra e lei era accucciata sul mio petto, mentre mi premeva il coltello sulla gola. Entrambi avevamo il respiro pesante e ci guardammo in silenzio. Vedendo che non stavo cercando di combattere, la ragazzina ritrasse il coltello, dandomi modo di alzarmi. Io mi misi faticosamente seduto, osservandola.

- Sei una ragazzina. - dissi ad alta voce, senza riuscire a trattenere quell'osservazione infantile. Ero talmente stupefatto da non riuscire a formulare un pensiero coerente.

Lei finse che non avessi detto niente e mise il coltello in una custodia.

- Scusami per tutto questo. - mormorò poi, offrendomi il suo aiuto. - Dovevo essere sicura che non fossi tu quello che sto cercando.

Afferrai la mano che mi stava porgendo e lei la voltò, osservandone il dorso.

- Sei ferito. - constatò, fredda. - Non pensavo che avresti cercato di attaccarmi.

- Dopo che mi hai puntato un coltello alla gola, credevi che non avrei cercato di difendermi?

Lei evitò il mio sguardo, fissandosi i piedi, e mi sembrò solo una bambina triste che non sapeva cosa stesse facendo. Durò solo per un istante e quell'espressione fragile venne sostituita da una calma impensabile in una creatura tanto giovane.

- Andiamo in salotto. Sistemerò quel taglio, e ti darò delle spiegazioni.

Fu lei a farmi strada. Io, ancora confuso, le andai dietro. La osservai mentre spulciava fra le mensole alla ricerca dei medicinali. Si sedette di fronte a me al piccolo tavolo quadrato del salotto e si mise a disinfettarmi il dorso della mano. La ferita che mi aveva inferto non era molto grave, ma pulsava dolorosamente e l'emorragia non accennava a fermarsi. Era un taglio di cinque centimetri, ma era troppo superficiale perché fossero necessari dei punti. La osservai mentre la puliva con cura, per poi applicarvi sopra un ampio cerotto.

- Come ti chiami? - le chiesi, dicendo la prima cosa che mi venne in mente.

Lei mi guardò con sospetto, poi trasse un profondo sospiro e sussurrò:

- Sumiko.

- È un bel nome.

La ragazzina fece una smorfia d'insofferenza.

- Non parlarmi come se fossi una bambina. - ordinò, scoccandomi un'occhiataccia.

- Scusa. - balbettai, impressionato.

Se fossimo stati in The Truman Show a questo punto gli spettatori si sarebbero fatti una bella risata. Io, un uomo nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche ed intellettive, tenuto in scacco da una mocciosa. Eppure, guardandola, sembrava tutt'altro che una bambina. Avrebbe potuto avere mille anni. Avevo visto altri come lei, ragazzini che avevano visto talmente tanta merda che finivano con il diventare disillusi prima del tempo.

- Io sono Gene. Gene Sanders.

- Lo so. È da un po' che ti tengo d'occhio, so molte cose sul tuo conto. - mormorò, sottovoce.

- Allora è vero che mi hai spiato. - mormorai, aggrottando le sopracciglia. - Perché l'hai fatto?

Sumiko trasse un altro, profondo sospiro e mise a posto il disinfettante e i cerotti, riponendoli nell'armadietto dei medicinali in bagno. Tornò a sedersi, le mani incrociate come se stesse pregando.

- Sto cercando il maledetto bastardo che ha ucciso mia sorella. - disse, con una rabbia che sarebbe stata più appropriata nella bocca di un vendicatore che su quella di una bambina. Una rabbia da adulta, quasi inquietante.

- Parli della bambina morta qualche anno fa? - sussurrai, ricordandomi del contenuto del messaggio.

- Sì. - confermò Sumiko, passandosi le mani fra i capelli. - Le probabilità che tu fossi l'omicida erano già poco scarse, visto che quel messaggio non ti ha messo in particolare agitazione. Sei andato a lavoro come tutti i giorni, come se non sapessi quale fosse il mio vero intento. Già lì la percentuale che fossi tu si era ridotta drasticamente, ma non potevo abbandonare questa pista. Era una delle poche che mi rimaneva. Tu sei un Esper e non ce ne sono molti nei dintorni. Dovevi essere tu.

Tralasciando il fatto che mi avesse reputato capace di uccidere una bambina a sangue freddo, il che era peggio di qualsiasi insulto che avrebbe potuto rivolgermi, ero davvero così vecchio da non sapere cosa significasse la parola "Esper"?

Sumiko intuì la mia confusione e cercò di spiegarsi.

- Esper deriva da ESP. Gli Esper sono persone con capacità extrasensoriali, che vedono o sentono cose precluse a molti.

- Capisco. E io cos'avrei a che fare con questi Esper? - sbottai, mentre tastavo con delicatezza il cerotto. La ferita mi faceva davvero male, per essere tanto piccola. O forse cercavo solo di evitare il suo sguardo.

- So già tutto, Gene. È inutile mentirmi. - ribatté lei, senza fare una piega. - So del tuo passato, di tutte le cose che ti sono successe. Di Cornelio.

- Non dire il suo nome. - sibilai, cercando di essere minaccioso, ma suonò più come una supplica.

Sumiko non insisté e gliene fui grato. Preferivo non pensare a quello che era successo vent'anni addietro alla festa di compleanno del mio povero compagno di scuola, che non aveva avuto nessun'altra colpa dell'avermi mostrato un briciolo di amicizia.

- Quindi l'assassino che stai cercando - dissi, nel tentativo di cambiare discorso - È un Esper?

- Sì. Non so quali siano di preciso le sue capacità, ma è un Esper, proprio come te e me.

E così anche lei faceva parte dell'allegra combriccola ai margini della società. Non mi sorpresi più di tanto. Avevo avvertito che ci fosse qualcosa di particolare in lei, soprattutto nel momento in cui aveva cominciato a toccare tutte le mie cose. Nei suoi gesti c'era qualcosa di strano, come se non si stesse limitando a stringere fra le dita gli oggetti.

- Quando tocco un oggetto riesco a vedere sprazzi di passato, presente o futuro. - spiegò Sumiko, facendo scorrere le dita sul tavolo. - Non succede sempre, solo quando ha qualcosa di importante da raccontare, se è stato il centro di un'emozione potente, sia essa violenta o no.

- Speravi di mettere le mani su qualcosa che ti mostrasse come avevo ucciso tua sorella? - mormorai, più brusco di quanto volessi. La semplice accusa di aver ucciso una bambina era sufficiente a farmi sentire sporco.

- Sì, ma mi sbagliavo. - sospirò lei, scuotendo la testa. - Ed ora dovrò ricominciare tutto da capo.

Si chiuse in un silenzio ermetico ed io la osservai a lungo, combattuto. Da un lato non mi piaceva affatto il suo modo di fare. Mi aveva aggredito, mentendomi, minacciandomi. Tuttavia l'idea che una ragazzina stesse inseguendo un assassino tutta sola non mi lasciava indifferente. Per quanto cercassi di fare del cinismo la mia filosofia di vita, non potevo andare contro la mia natura. Il mio cuore era ripieno di miele e prugne, e mi sentivo in dovere di offrirle il mio aiuto.

- Sumiko, che ne dici se ti aiutassi a trovare l'assassino?

La ragazzina mi fissò con espressione incolore, per poi sibilare un secco "no".

- Come no? - chiesi, certo di aver sentito male.

- Questa è una faccenda solo fra me e lui. Nessun altro deve interferire.

- Sii ragionevole. Io sono un uomo. Posso aiutarti, fare...

- Aiutarmi? Vuoi solo appagare il tuo ego. No, non ti permetterò di metterti in mezzo fra me e la mia vendetta, Gene. - ringhiò, spingendo indietro la sedia con un colpo secco. - Sarò giovane, ma sono più forte di quello che tu creda. Non ho bisogno di nessuno.

Si diresse verso la porta ed io mi alzai, cercando di fermarla.

- Piuttosto che vendicarti, perché non chiedi aiuto alla polizia? - le chiesi, mentre lei cercava la chiave giusta per aprire la porta.

- La polizia. - ripeté Sumiko, ogni sillaba intrisa di disprezzo. - Esiste gente più sprezzante e cattiva di loro? Solo l'assassino di mia sorella li eguaglia.

- Sumiko...

- Credi che non abbia già cercato di parlare con loro? - sibilò lei, voltandosi di scatto, gli occhi che sprizzavano scintille di furia. Erano colmi di lacrime. - Ma non mi hanno ascoltata, perché ero solo una bambina. Hanno detto che mi immaginavo le cose, arrivando ad insinuare che soffrissi di schizofrenia. Ma io so cos'è successo! L'ho visto! Sono loro i pazzi, non io!

Avvertii una stretta al cuore, perché sapevo fin troppo bene come ci si sentisse ad essere scambiati per pazzi. In tanti mi avevano trattato come se fossi stato matto e pericoloso, dopo la vicenda di Cornelio. Ero stato costretto a cambiare città e a gettarmi la mia vecchia vita alle spalle, per poter fuggire dalla maldicenza e dall'odio.

- E va bene, niente polizia. - dissi, cercando freneticamente un modo di convincerla a riflettere. - Ma io non sono come loro. Sono come te, l'hai detto tu stessa. Se mi dici che tua sorella è stata uccisa, io ti credo. Dammi la possibilità di aiutarti.

- E perché dovresti?

- Perché ora che so queste cose e ti ho vista, non posso tirarmi indietro. - mormorai - Sarà anche il mio maledetto ego che ha bisogno di dimostrarsi qualcosa, pensala come vuoi, ma ti sto offrendo il mio aiuto.

Sumiko mi guardò in silenzio, per poi darmi le spalle e aprire la porta di scatto. Il mio corpo reagì prima che potessi pensare a quello che stessi facendo e la afferrai per un polso. Lei si voltò e i nostri occhi si incrociarono. Il mio corpo venne attraversato da un grande brivido e le ginocchia cedettero. Caddi a terra, con la sensazione che il pavimento ondeggiasse, e restai immobile, in preda ad una forte nausea. Quando mi ripresi dallo stordimento, scoprii che Sumiko se n'era andata e che la parte inferiore del mio volto era ricoperta di sangue. Presi un fazzoletto appallottolato dalla tasca della mia felpa e lo usai per tamponarmi il naso, nel tentativo di fermare l'epistassi. Sumiko non si sbagliava, sul fatto che era molto forte. Se all'ultimo non si fosse trattenuta - e l'aveva fatto, l'avevo sentito - avrebbe ridotto il mio cervello in poltiglia. Non le serviva un coltello per fare del male a qualcuno.

Entrai in casa e mi stesi sul divano, incapace di fare altro. Avevo l'impressione che i miei muscoli si fossero trasformati in gelatina e compivo una fatica immensa anche solo per tenere le palpebre sollevate.

Una lingua calda e ruvida mi leccò la faccia e vidi che Julius si era finalmente degnato di uscire dalla sua cuccia. Nonostante tutto quel trambusto, non aveva fatto nulla per darmi una mano.

- Piccolo codardo. - sussurrai, accarezzandogli la testa con una mano.

Lui emise un uggiolio e si acciambellò ai miei piedi, come se si vergognasse. Altro che migliore amico dell'uomo, pensai, con una risatina. Ma era talmente tenero che non si poteva restare arrabbiati con lui a lungo, e gli feci cenno di salire sul divano. Entusiasta, Julius si stese accanto a me, poggiandomi il muso sullo stomaco. La sua presenza mi fece sentire più tranquillo e poco dopo collassai, sprofondando in un sonno pesante e privo di sogni.

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