15
Mi svegliai di soprassalto, disteso in un lettino del tutto sproporzionato rispetto al mio corpo. Il mio respiro era accelerato, il cuore galoppava in una corsa disperata. Avevo avuto l'ennesimo incubo.
Mentre osservavo il soffitto con sguardo assente, ancora sconvolto per il sogno, realizzai di non trovarmi più al GOPEP. E nemmeno a casa mia, di Lucy o di Trevor. Non conoscevo la geografia di travi basse e sporgenti davanti a me, logorate dai tarli, e nemmeno gli adesivi fosforescenti a forma di stelle e pianeti che addobbavano la camera. Era la stanza di una bambina.
All'improvviso sentii una gran sete e mi misi seduto. Fu in quel momento che la mia identità cominciò a confondersi. Gene Sanders divenne un nome estraneo.
Io ero Agatha Hoffmann. Avevo otto anni e vivevo in una villetta nei pressi di Trento. I miei genitori andavano sempre lì per le vacanze, perché gli piaceva la montagna e, soprattutto, amavano la varietà del paesaggio italiano. Usavano la villa come avamposto per viaggiare per lavoro, e mi lasciavano lì in compagnia di mio nonno materno, Giovanni. Lui, come mia madre Teresa, era italiano. Mio padre August, invece, era tedesco. Lavoravano per una ditta di assicurazioni che aveva una sede sorella in Trentino Alto Adige, il che li spingeva a venire spesso in quella villa, malgrado ci passassero poco tempo, persino quando erano in vacanza. Capitava che mi sentissi sola, ma per fortuna c'era il nonno con me.
Avevo bisogno del suo conforto. Lui era l'unico che capisse come mi sentissi, dopo uno dei miei incubi. Sin da quando ero nata, i miei sogni erano stati popolati da visioni orribili, tali da togliere il sonno persino ad un adulto. Mi chiedevo se quegli incubi fossero una maledizione o, semplicemente, fossi pazza: immagini tanto crude e violente non avrebbero dovuto popolare l'immaginazione di una bambina.
In sogno e nei momenti in cui ero più rilassata - e, dunque, più vulnerabile - riuscivo a vedere la morte o la sofferenza delle persone. Quella notte, per la prima volta, avevo visto la morte dei miei genitori. Corsi da mio nonno, in lacrime, e lo svegliai. Lui mi guardò con occhi assonnati, poi mi fece posto nel lettone. Mi rannicchiai sotto le coperte al suo fianco, nel posto freddo dove anni addietro dormiva la nonna, morta giovane.
- Cosa c'è, piccola mia? - chiese, accarezzandomi la testa con una mano ruvida e callosa, resa tale dal lavoro nella stalla.
- Ho fatto un brutto sogno. - riuscii a dire, fra un singhiozzo e l'altro.
Gli parlai del fatto che avevo visto la morte dei miei genitori e lui mi ascoltò in silenzio, l'espressione grave.
- Sono cattiva, se vedo queste cose? - gli domandai ad un certo punto, tirando su col naso.
- Tutti abbiamo dei brutti pensieri, Aggie, nessuno escluso. Anche io ne ho. Però è proprio questo che sono: pensieri. Nient'altro. Esistono solo nella tua mente, e non possono farti del male, né farne ad altri. Non significa che sei cattiva. Anche le persone più buone fanno degli incubi, ogni tanto.
Le sue parole mi confortarono. All'epoca era così facile rasserenarmi. Con gli anni, invece, nessun abbraccio o parola dolce riuscì più a smuovermi dal grigiore che mi circondava.
I sogni che mi tormentavano finirono per indurirmi, derubandomi dell'infanzia.
Il nonno cominciò a soffrire di demenza senile e, neanche un anno dopo, lo ricoverarono in una clinica privata, dove si spense qualche mese più tardi. Non avendo neanche il suo supporto, mi trovai sola.
Sognavo un amico e pregavo che i miei genitori mi stessero più vicini, ma erano sempre così impegnati. A stento ci parlavamo, persino durante il periodo autunnale e invernale, durante il quale ci trovavamo tutti e quattro a Monaco, nel nostro piccolo appartamento in centro. L'affitto era molto caro, ma ai miei non importava. Il che era assurdo, dato che spendevano in quell'alloggio solo la notte e al massimo un'ora nel resto della giornata. Mi trovarono una babysitter che faceva tutto per me e contattarono anche mia cugina Greta, una ragazza di cui io finora non avevo nemmeno immaginato l'esistenza. Era la figlia della sorella minore di mia mamma e aveva accettato di badare a me.
Ci volle del tempo, prima che riuscissi a fidarmi a sufficienza di lei da raccontarle dei miei sogni, che si erano intensificati col passare del tempo, arrivando ad essere insopportabili dopo la morte del nonno, avvenuta circa due mesi addietro.
E fu così che scoprii un'alleata dove meno mi sarei aspettata di trovarla.
Greta era come me.
Mi spiegò che ci chiamavano in molti modi: sensitivi, veggenti, esper, medium. Persone dotate di capacità extrasensoriali, che riuscivano a scorgere una realtà invisibile per molti. Mi insegnò che dovevo mantenere nascoste le mie abilità, per quanto mi era possibile, o avrei avuto una vita molto difficile.
Decisi che avrei seguito i consigli di Greta, ma, almeno in sua compagnia, potevo lasciarmi andare ed essere quella che ero, senza filtri. Era la mia migliore amica, la sorella che non avevo mai avuto. Mi diede un affetto che i miei genitori non erano stati in grado di darmi.
Greta era bravissima a inventare storie e disegnare. Mi faceva leggere i suoi fumetti a sfondo umoristico e rendeva le mie tristi giornate sopportabili.
Tuttavia, gli anni passarono e August ebbe un sussulto paterno nei miei confronti. Decise che era stufo di avere Greta in casa e, dandole il benservito, la scacciò.
Il suo allontanamento mi distrusse. Avevo quattordici anni quando accadde. Diventai talmente chiusa e ostile che mio padre, sebbene mia madre avesse avuto dei ripensamenti, mi mandò in un collegio, in Inghilterra. Non avendo accettato il suo affetto, ora ero costretta a pagarne le conseguenze. Era un uomo profondamente egoista.
Così andai in Inghilterra e lì trascorsi gli anni delle scuole superiori.
Fui sempre un'emarginata.
Percepivano che ero diversa, ma la cosa non mi dispiaceva affatto. Anzi, mi piaceva l'idea di avere qualcosa che mi contraddistinguesse dalle masse. Da bambina avevo pensato che si trattasse di una maledizione, ma ora mi rendevo conto che era una benedizione.
Ricordo ancora le parole di Greta: dopo ognuna delle sue piccole lezioni su come controllare ed arginare i poteri, mi ripeteva sempre che ero la Esper più potente che avesse mai incontrato.
Con la sola forza della mente ero in grado di manipolare gli altri, far vedere loro delle cose, illuderli di provare delle emozioni... ma fu solo quando divenni adulta, che mi resi conto di poterli far soffrire. A una parte di me, per quanto me ne vergognassi, piaceva.
Trovavo inebriante avere potere assoluto su coloro che osavano rivolgersi a me in modo scortese o sfiorarmi solo con un dito. Ogni tanto ero io stessa a provocarli, per vedere come avrebbero reagito.
In genere prevedevo tutto quello che avrebbero fatto. Non avevo trovato nessuno in grado di stupirmi, non ancora, il che mi rendeva triste. Sapevo troppo, per stupirmi facilmente, ma io volevo che accadesse. Volevo trovare qualcuno eccezionale quanto me, con un potere altrettanto forte, e finalmente avrei avuto un vero compagno di vita. Se Greta fosse stata davvero mia amica, non avrebbe permesso ai miei di mandarmi in collegio.
Non ne volevo sapere più niente di lei. E nemmeno dei miei genitori.
Quando, durante le vacanze estive del terzo anno, sarei dovuta andare a casa, decisi di non presentarmi. Avrei cambiato vita, lasciandomi alle spalle tutto ciò che ero stata fino ad allora. Avrei cercato il mio vero compagno, colui che sarebbe stato degno di restare al mio fianco e non mi avrebbe mai, mai abbandonata, a differenza di Greta e del nonno.
Viaggiai in lungo e in largo nell'isola della Gran Bretagna, guadagnandomi da vivere come artista di strada. Avevo imparato a disegnare da Greta, ma avevo rivelato un talento maggiore al suo. I miei quadri erano spesso visioni, frutti di incubi che mi tormentavano la notte. Per via dei miei poteri, infatti, raramente ero riuscita a fare una dormita tranquilla. Nonostante cercassi di tagliare fuori gli altri dalla mia mente, non era facile. I loro stupidi pensieri mi infettavano, causandomi quegli ancor più stupidi incubi.
L'unico fattore positivo era che mi aiutavano a trovare l'ispirazione per i dipinti, che venivano comprati da giovani in cerca di un elemento scioccante e insolito con cui adornare le porte di casa loro o tentavano di rendersi interessanti agli occhi dei loro coetanei. Non mi importava davvero il motivo per cui lo facessero, l'importante era che mi dessero i soldi necessari a proseguire la mia ricerca.
Trovare la persona giusta per camminare al mio fianco si rivelò un'impresa più ardua di quanto avessi previsto. Ad ogni modo, riuscii infine a incontrare qualcuno che corrispondesse ai requisiti, qualcuno che fosse potente quanto me.
Si trattava di una ragazzina, di nome Seiko. Immaginavo già che sarei stata la sua mentore, la sua sorella maggiore, quando pensai che non potevo accettarla così, senza metterla alla prova. E se in realtà non si fosse rivelata abbastanza forte e mi avesse delusa? Non potevo affrontare un'altra perdita del genere. Se dovevo investire del capitale emotivo su qualcuno, l'avrei fatto solo una volta che fossi stata sicura era quello che stavo cercando.
Ed infatti avevo ragione a dubitare di lei. La misi di fronte alle sue peggiori paure e Seiko non fu abbastanza forte da superarle.
Lei fu la prima di una lunga serie di candidati, che soccombettero tutti nella sfida. Devo ammettere che, fra tutti loro, lei fu la migliore. Così pura e innocente, un piccolo angelo. Capitava che provassi rimorso per quanto era accaduto, ma ormai non si poteva più tornare indietro.
Tuttavia, quando cominciavo a perdere la speranza, arrivò lui. Alto, triste e malinconico, curvo sotto il peso di una vita difficile quanto la mia. Mi conquistò al primo sguardo. Mi affascinava, perché in lui c'era qualcosa in più che sfuggiva al mio controllo. Poteva essere un compagno nel senso più proprio del termine.
Ora toccava a lui essere messo alla prova e una parte di me aveva paura che non ce la facesse. Era un bonaccione, non sarebbe mai stato in grado di resistere, se lo avessi sottoposto ai test.
Ora guardavo la tv, rinchiusa nel mio piccolo appartamento, abbracciata al cuscino. Era andato tutto secondo i piani. L'avevano arrestato ed era quasi un mese che si trovava nelle mani della polizia. Eppure ancora non avevo nuove notizie di lui.
Sapevo che stava soffrendo, lo sentivo, io sentivo tutto, e la tensione cominciava a diventare insopportabile. Se fosse naufragato prima di vendicarsi dei suoi aguzzini e avesse perso la sua sanità mentale, non ci sarebbe più stato nulla da salvare, e io non avrei sopportato quest'ultima perdita. Se fosse diventato pazzo, non avrei mai saputo se era destinato a diventare il mio compagno.
Dovevo fare qualcosa.
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Quando si parla di un tuffo nella mente dell'assassino...
Il nome Hoffmann l'ho preso in prestito da un autore tedesco del fantastico\gotico. Mi sembra fosse l'autore de Il castello di Otranto. Non ho una grande cultura in letteratura tedesca, ma l'avevano nominato mentre studiavo Poe, e i due scrittori trattano tematiche simili, sebbene Edgar sia più originale - almeno, secondo me. Per il momento.
Al prossimo capitolo, ragazzi :)
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