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Non avevo idea da quanto tempo fossi lì. Ero stanco, tanto stanco, ma una scossa elettrica sufficiente a svegliarmi mi riscuoteva dal torpore ogni volta in cui il mio cervello cominciava a scivolare nel sonno.
Dopo l'ennesima scarica, che mi fece tremare come una foglia, non riuscii a trattenere il pianto. Cominciai a singhiozzare, mentre calde lacrime mi scorrevano lungo le guance.
Basta... basta... vi prego...
Sentivo di essere vicino al punto di rottura, non sapevo per quanto ancora sarei riuscito a trattenermi. Era proprio come quando avevo fatto del male a Cornelio per errore. Mi trovavo in uno stato d'animo ancor più teso. L'unica cosa che volevo era riposare, ma non me lo permettevano, se non per quelle poche ore necessarie affinché il mio cervello non si riducesse ad un cumulo inerte di materia rinsecchita.
Il primo giorno in cui dalle prigioni di Scotland Yard mi avevano trasferito al GOPEP (Government Office for Paranormal and Extrasensorial Phenomena) mi avevano costretto ad indossare una camicia di forza, quindi bendato e imbavagliato. Quegli stupidi non immaginavano che tutto ciò non servisse a niente. Non dovevano aver mai messo le mani su un Esper pericoloso quanto me. La mia forza, come quella di Sumiko, non aveva nulla a che fare con i muscoli. Avevo cercato di avvertirli, li avevo implorati affinché non mi facessero questo, non tanto per me, quanto per la loro sicurezza. Torturandomi a quel modo, stavano stuzzicando il drago addormentato. Una volta che la parte più razionale di me fosse venuta meno, quella che mi rendeva una persona, non ci sarebbe stato nessuno in grado di difenderli dal mostro. Quindi facevo del mio meglio per restare lucido, ma la tentazione di cedere ai miei impulsi stava diventando sempre più grande e non sapevo per quanto ancora sarei stato in grado di ignorarla. C'era una vocina in me che mi ripeteva di fargliela pagare, di far soffrire i miei carnefici come loro avevano fatto soffrire me.
La soluzione migliore che avevo trovato per sfuggire a quella realtà orribile era alienarmi. Sognavo ad occhi aperti, rivedendo i momenti felici che avevo passato con Trevor, Lucy e Larry, malgrado fossero stati tanto sporadici. Per me significavano ogni cosa.
In quel momento, la voce che avevo imparato ad odiare risuonò nella cella, strappandomi un sibilo rabbioso.
- Come andiamo, signor Sanders?
Io, ovviamente, non risposi. John Keaton, il direttore del GOPEP e l'uomo che mi aveva prelevato da Scotland Yard nonostante le proteste dell'ispettore Yates, sembrava dimenticarsi sempre che ero imbavagliato. Si prendeva gioco di me costantemente. Il suo unico obbiettivo era spingermi al punto di rottura, farmi collassare e costringermi a mostrare la mia vera natura. Non gli interessava risolvere il caso della bambina maledetta, e nemmeno se io ero il vero colpevole. Per lui si trattava solo di amore per la scoperta. Ero un elemento interessante, come una farfalla morta sul vetrino del microscopio di un bambino sadico.
- Quando hai intenzione di mostrarmi qualcosa di eccezionale? - mi domandò con voce annoiata. Sembrava deluso dal mio comportamento. - Non capisco perché ti ostini a nasconderti. Se ti rivelassi per come sei davvero, questa tortura finirebbe subito. Potresti dormire, mangiare, e avresti ogni lusso immaginabile. Ovviamente dovresti anche lavorare per il governo, ma non si ottiene nulla per nulla. Hai sempre vissuto di stenti, perché non mi permetti di darti una mano?
Le sue parole toccarono dei tasti molto sensibili in me, luoghi che avrebbero dovuto rimanere inesplorati. Ciò che più di tutto fece scattare la mia rabbia fu il tono amichevole, quasi affettuoso, con cui mi faceva notare che lui voleva solo essere gentile, se glielo avessi permesso.
Teso com'ero, esausto, affamato, il corpo anchilosato e le ossa doloranti per essere stato giorni e giorni in quella posizione scomoda, mi parve di avvertire un sonoro "snap", da qualche parte, dentro di me. Era come se la corda della mia capacità di sopportazione non avesse fatto altro che tendersi e tendersi, ed ora si fosse rotta con un colpo secco.
Non fui del tutto cosciente di ciò che facevo. Un attimo prima ero sdraiato nel lettino, del tutto inerme, subito dopo mi trovavo in piedi in mezzo alla cella. Ansimavo e avevo dei graffi nei punti in cui mi ero strappato di dosso la camicia di forza, come un animale che si libera dalle catene. E adesso, proprio come un animale, avevo sete di sangue.
La porta blindata si aprì al mio passaggio come animata di vita propria. Attraversai i corridoi bui e angusti, illuminati solo da luci al neon, del bunker del GOPEP.
Le sirene d'allarme suonavano impazzite, dispiegate al massimo della loro potenza. Incrociai diversi soldati lungo il mio cammino, ma nessuno riuscì ad avvicinarsi a sufficienza da farmi del male. Cadevano svenuti al mio passaggio, ancor prima di riuscire ad imbracciare i fucili con le freccette di sedativo.
Non conoscevo la struttura del GOPEP, ma ero entrato in contatto con John Keaton a sufficienza da sapere come trovarlo senza bisogno di una mappa. In quel momento la mia mente era una bussola, e quel bastardo il mio Nord. Lo volevo morto. Ma non di una morte rapida e facile. No, volevo che soffrisse. Desideravo sentirlo implorare pietà, mentre si contorceva ai miei piedi come un verme.
- Sto venendo a prenderti, Johnny. - sussurrai, e scoppiai a ridere. Mi sentivo esaltato, il mio corpo era attraversato da ondate e ondate di endorfine che contribuivano a tenere lontano il mio raziocinio.
Dopo pochi minuti sfondai la porta blindata che mi separava da Keaton, che si accartocciò ancor prima che vi poggiassi le mani per spingerla di lato.
Sbucai in una stanza circolare, sui cui schermi c'erano diversi dati sul mio stato di salute. I diagrammi non segnavano più niente, ora. Mi ero liberato di tutti i tubi che avevano collegato alle mie vene e al resto del mio corpo come se fossero stati innocui vermicelli. In piedi davanti ad una scrivania dov'erano ammucchiate diverse pile di documenti, c'era Keaton, pietrificato. Lo sguardo terrorizzato che mi rivolse fece scorrere dei brividi di piacere in tutto il mio corpo. Faceva bene ad avere paura, quello stronzo. Gli avrei restituito ogni singolo sopruso che mi aveva costretto a subire, moltiplicato all'ennesima potenza. Avrebbe imparato cosa significava essere inermi, sottoposti a torture fisiche, ma soprattutto psicologiche.
- Diciotto giorni! - gridai. Avrei voluto suonare minaccioso, e fui sorpreso dal fatto che la mia voce risultò stridula e spezzata. Mi resi conto solo in quel momento che stavo singhiozzando.
Puntai una mano contro Keaton e lui venne sollevato in aria da una forza invisibile. Il movimento improvviso gli strappò un singulto, mentre si divincolava, tentando di liberarsi.
- Per diciotto giorni - l'adrenalina che avevo in corpo aveva rimesso in moto la mia memoria, fino ad allora resa lacunosa dalla mancanza di sonno. - Mi hai tenuto in quella cella, in condizioni disumane! Tu non sei un uomo, sei un mostro!
- Gene... - rantolò lui. Non riusciva a respirare e il suo volto stava prendendo una sfumatura bluastra.
- Non provi neanche un vago senso di colpa. Lo leggo nei tuoi occhi. - sussurrai, deglutendo le lacrime che mi cadevano in bocca. - Era questo che volevi vedere, no? Quanto potessi essere pericoloso. Spero che tu ora sia felice, perché sarà l'ultima cosa che vedrai.
Stavo per rafforzare la mia presa su di lui, lasciando che tutto il mio dolore si riversasse sulla sua persona, quando Keaton cominciò a supplicarmi.
- Ti prego, Gene... non uccidermi... ho una famiglia... - rantolò col poco fiato che gli rimaneva. - ... se io morissi, mia figlia rimarrebbe orfana.
La parte più furiosa e cinica di me gridò "Un padre del genere non sarebbe una grande perdita. Uccidilo, le farai un favore!", ma l'altra, la più tenera, si immaginò una bambina in lacrime sulla tomba di suo padre.
La mia presa su Keaton vacillò.
Quello stronzo mi aveva fatto soffrire come nemmeno la gente del mio paese era stata in grado di fare. Ma io volevo davvero diventare un assassino? Vivere con la consapevolezza di aver ucciso un essere umano, una creatura senziente, fino alla fine dei miei giorni?
L'euforia del momento si attenuò e un debole lumino si accese nella mia coscienza, mentre il vecchio Gene, il vero Gene, tornava a prendere il controllo.
La rabbia svanì del tutto, sostituita da un'immensa tristezza.
Lasciai andare Keaton, che cadde a terra con un tonfo sordo. Mi guardò con occhi sgranati, stupito, come se non si fosse aspettato che l'avrei risparmiato. Non sapevo se la storia di sua figlia fosse stata un'invenzione creata all'ultimo minuto, spinto dal bisogno di salvarsi la vita, ma in fondo non mi importava. Almeno, non ero diventato un assassino. Ero riuscito ad ammansire la bestia, che non era insensibile come avevo creduto finora.
Sentii un rumore di passi in fondo al corridoio e un attimo dopo fummo raggiunti da un gruppo di soldati. Venni colpito da due freccette di soporifero in rapida successione, proprio suo collo. Il liquido fece subito effetto e le ginocchia mi tremarono, prima di cedere. Caddi a terra, in uno stato confusionale, con la schiuma alla bocca. Quella dose avrebbe steso un elefante. Le scarpe lucide di Keaton entrarono nel mio campo visivo, prima che perdessi del tutto conoscenza, sprofondando nell'abisso.
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Qua sono cominciati i capitoli più brevi. Mi dispiace lasciarvi in sospeso, il seguito arriverà presto!
Chissà cosa succederà a Gene...
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