7- Vecchi e nuovi legami
Molte cose possono non essere comprese a pieno. Il clima storto di una giornata affatto memorabile, l'umore che ne deriva, i complessi meccanismi della vita o le ingiustizie che dona, ma nella piramide delle priorità, a un gradino ancora più alto, risiede lo scettico cinismo di Jeremy, non appena mi vede arrivare.
Potrei definirlo come una mescolanza di emozioni che sinceramente nemmeno voglio arrivare a concepire. Direi rabbia, sorpresa e altezzosità. Patetica scena alla quale non mi presto, nelle vesti di spettatore.
«Michael... ti aspettavamo mercoledì» constata Miranda voltandosi verso di me, e attirando nella mia direzione lo sguardo di Emily, in piedi, alla sua destra, sul palco.
«Ho deciso di fare un salto, spero non sia un problema. Non disturberò le prove.»
«Non c'è alcun disturbo, ma ti serve qualcosa in particolare?»
«Devo recuperare i copioni dal camerino, per il nuovo spettacolo. Non ho fatto in tempo a studiarli.»
«Certo, non passi mai» borbotta Jeremy guardando altrove, ed io decido di ignorarlo, concentrandomi invece su Miranda che annuisce, smuovendo il caschetto dei suoi castani ricci.
«Sicuro, fa pure. Poi siediti su una delle poltrone della sala, così se hai bisogno di chiarimenti posso fornirteli subito. Ci sono anche gli altri.»
Distanzio lo sguardo, focalizzandolo sul gruppo di ragazzi riunito in un piccolo focolaio, sulle rosse sedie imbottite del teatro, intenti a ripetere le battute in uno scambio di voci.
Salgo quindi fin sopra il palcoscenico, annuendo in direzione del consiglio donato e sentendo ripartire la scena di inizio atto.
Prima di essere di troppo, cerco rifugio dietro le quinte, percorrendo la strada che conduce alle ripide scale e quindi alla stanza riservatami.
Percorsa l'ampia sala avente la funzione sia di corridoio quanto di ritrovo, illuminata da un enorme lucernario sul tetto, giungo fino alla mia porta e la apro, individuando il necessario sul tavolo.
I nuovi testi, e anche il copione del "la gatta sul tetto che scotta".
Afferro il tutto, dirigendomi nuovamente in direzione delle scale, mentre il sole, attraverso il vetro, irradia il suo calore sulla mia schiena, salendo fino alla nuca, prima di sparire momentaneamente, inghiottito dal buio che caratterizza la discesa dei gradini.
Dal palco mi raggiungono battute, scambi e risposte, alle quali cammino a fianco, senza prestare particolare attenzione a queste prove generali, e andandomi quindi a sedere su una poltrona, in disparte dal gruppo radunato.
Incrocio le gambe e abbasso lo sguardo sulle pagine, aprendo per primo il vero testo di cui mi importa. Il solo ad avermi spinto a tornare qui.
Come ricordavo, la stesura prende vita con un approccio di battute tra Maggie e Brick che seguo con particolare interesse, mentre sento appena la voce di Jeremy, dal palco, interpretare Edipo re, secondo la scrittura di Sofocle.
La lettura arriva ad assorbirmi completamente, trascinandomi per venti pagine all'interno del complicato mondo di questo difficile matrimonio, mentre tento di scovare gli indizi che possono ricondurmi fino a Cat.
Al termine, però, capisco bene di non aver ottenuto niente di più di quanto già non ricordassi, e tale presa di coscienza mi trascina verso lo sconforto. Avevo creduto di poter vincere, almeno una volta, contro di lei.
Ormai sono tre giorni che ci sentiamo al telefono. In qualche modo direi di essere riuscito a intuire gli orari delle sue lezioni, nella pausa dei suoi lunghi silenzi e ad arrivare a far parte della sua vita.
Dalle sue parole, infatti, ho intuito che non vive con dei coinquilini, quindi l'artefice dello scatto di quella foto a lei tanto cara e, sinceramente, bellissima almeno al suo pari, è ancora un mistero, ma posso arrivare a conoscere ogni comparsa interna alla sua vita, col tempo. Voglio farlo, e forse sarà lei stessa a darmene modo.
Richiamata, come più volte si era dimostrata essere, da questo mio pensiero, nato in lontananza, l'artefice dei miei dubbi si presenta in questo pomeriggio a teatro tramite il suo solito, semplice, messaggio di poche righe, ma avente la sua voce nascosta all'interno, tanto forte da essere udibile.
Hai trovato quello che cercavi?
Non ancora, ma non mi arrendo.
Non è importante, per il momento
ho vinto io. Sei tornato a teatro.
Hai già parlato con Jeremy?
È una prima donna, perché dovrei?
Perché è il tuo unico amico. Mi hai
confessato di conoscerlo da ormai
molti anni. Devi per forza parlargli.
Sollevo lo sguardo catturando quello di Jeremy in attesa della sua battuta. Nonostante la lontananza noto bene come le sue iridi mi siano puntate contro. Combattute, certamente, a loro modo rancorose, e ne conosco bene il motivo.
Non sopporta che lo estranei così dalla mia vita. Ma non riesco a fare altrimenti. In un momento tanto decisivo alla svolta della mia carriera così come nel resto del tempo.
Non ho mai permesso a nessuno, con il quale non condividessi un amore, di invadere i miei spazi, e non inizierò a farlo adesso, specie con lui.
Conosco il suo passato così come il motivo della debolezza del suo carattere. Proviene dal mio stesso buco d'inferno, ma se l'acciaio di quel ghetto e i suoi stridori mi avevano rafforzato, per lui è avvenuto il contrario. Jeremy trema impaurito ad ogni soffio di vento, nonostante la sicurezza che tanto brama sfoggiare, e non vuole perdermi, data la sua insana paura di rimanere solo. Alla fine, la sicurezza, nasconde sempre molto altro.
Con un sospiro mi allontano dalla visione di una simile scena, non volendo avere traccia, nei miei occhi, della sua banalità, ma al contempo non riuscendola del tutto a estinguere.
Katrina ha ragione, e la mia mente in qualche modo arriva a darle ascolto. È come se lui fosse l'ultimo ricordo del passato che possiedo, motivo per quale lo detesto, così come non lo abbandono.
Non siamo cresciuti insieme ma siamo diventati amici da giovani, pur conoscendoci di vista già da bambini, e dieci anni di legame sono quanto basta per entrare a far parte, pieno o meno, di ogni aspetto dell'altro.
Quindi che fare?
Prima che possa fornirmi risposta, il cambio di scena del secondo atto permette, grazie allo sproloquio di un secondario monologo, il ricongiungimento della mia mente con dei familiari passi.
Quando sollevo lo sguardo Jeremy è qui, dinanzi a me, con i suoi occhi tristi e alle spalle i movimenti degli attori rimasti sulla scena.
Chiudo il copione di Teneese, impedendogli così di conoscere altri lati della mia vita, e concentrandomi su di lui, come tanto bramava che facessi.
«Vuoi dirmi cosa ti succede?» Parte a chiedere, con la peggiore battuta di repertorio.
Mi approccio a un sorriso sfinito, aggiustandomi con cura il tessuto increspato dei pantaloni, al seguito del sollevamento della gamba.
«E a te, invece? Dovresti essere su quel palco, o dietro le quinte, a seguire la scena. Perché ti perdi in questo modo la ribalta? Non ti capiterà tanto presto di avere una prima parte. Il nuovo spettacolo è già mio.»
«Non amo configurarmi troppo con la figura di Edipo. Seppure innocente le divinità lo aggravano sempre di colpe, delle quali non vuole essere artefice. La sua è una sfida impossibile contro il destino a cui la ragione non può porre rimedio. È quasi come se si trovasse in una costante trappola.»
Rimango per alcuni secondi a fissarlo, senza provare a intervenire o modificare la sua riflessione perché è vero, Edipo è tutto questo... ma anche Jeremy, seppure non se ne rende conto.
Inclino di lato il busto e tendo la mano, per afferrare al mio fianco la custodia degli occhiali da vista. Lavorare al computer notte giorno ha abbassato di molti decimi la mia miopia, e ormai sono costretto alla trappola dietro questi vetri. Ottima schermatura che, mentalmente, offre del distacco. Poi, senza dire una parola, afferro il nuovo copione e lo apro a pagina uno, tenendo fisse le pupille dentro le sue, quasi a volergli dire di riflettere bene su ciò che mi ha appena spiegato.
Non è mai stata rose e fiori la sua infanzia, quindi dovrebbe indagare con attenzione alle trappole offerte dalla vita, per rendersi conto quando è stato capace di batterla.
Nel mio calcolo mentale il risultato verge verso lo zero, ma se si crede tanto indipendente allora non è compito mio impedirgli di farlo.
L'unica cosa che posso constatare è la bravura di Miranda nell'attribuire a ognuno di noi il proprio ruolo affinché possiamo dare il massimo, impersonificandoci in esso. E a quanto pare a me spetta il futuro ruolo dell'affascinante Edmund, del "Re Lear", di William Shakespeare. Egregiamente appropriato.
«Vuoi provare a guardarmi, per favore?» Mi richiama all'attenzione Jeremy, e io sono obbligato a tornare verso lui, in segno di cortesia. «Sei preoccupato per la tesi?»
«La sto completando, di questo non devi preoccuparti.» Congedo le sue parole con un sorriso, facendo aggravare, sfortunatamente, la sua preoccupazione.
«E allora cosa ti tiene in tensione? Credi di non meritartelo? Sei il migliore ad ogni corso, Michael, che cosa vuoi ancora?»
Non rispondo, mantenendo lo sguardo fisso, ma ecco che il suo si abbassa fino alle mie gambe e mi strappa di mano il copione. Non faccio in tempo a fermarlo.
Sporto con la mano nella sua direzione, la schiena distesa, il busto della poltrona rossa ormai lontano mentre quello davanti risulta sempre più vicino, quasi a cavallo con le braccia, lo vedo leggere il titolo, e piegare la bocca in un sorriso.
Davvero patetico.
«Edmund? Sul serio?» Esclama, lanciandomi indietro le pagine che afferro al volo, e arrotolo dentro il palmo.
So bene su cosa sta ragionando ma non mi interessa. Ci tengo a chiarirlo.
«Stai pensando a tuo padre?» Domanda.
Un collegamento diretto tra Re Lear e mio padre, niente di meno. Quel qualcosa che identifica il sovrano e il mio donatore di geni come soli, inutili, pazzi, ed io come l'arrabbiata progenie, armata di astuzia e calunnie, che tiene a ingannarlo.
Però... tutta la grinta di Jeremy, si può dire, essersi incarnata in una sola domanda.
«Dimenticati di mio padre, così come ho fatto io.»
Non tornerà. Non desidero che torni. Mi ha già dannato abbastanza. Con un solo, semplice, atto mi ha messo al mondo condannandomi per sempre. Solo la voce di mia madre teneva a donarmi l'amore che per anni aveva conservato, in mia attesa, mentre di lui che mi è rimasto? Solo il suo viso, arrabbiato e pieno di grinze, che mi ricorda il posto dal quale provengo. Forse, verso il quale sono destinato.
«Queste insicurezze sono ridicole. Devi imparare a mettertelo alle spalle.»
«L'ho fatto. Ormai è dimenticato.»
Che strana conversazione quella tra Edipo e Edmund. Il primo sposo della madre, e il secondo la vergogna del padre, ma che cosa dire di questa ennesima beffa? Il Destino ha le sue carte da giocare, e noi siamo solo spettatori immobili, pronti a vedere verso dove conduce.
«Allora puoi prometterti che ti farai più presente qui a teatro? Miranda impazzisce se non ti vede in sala.»
Parlando di vere madri e del loro modo di crescere i propri figli...
Annuisco con distrazione, inclinando la bocca verso un sorriso, prima di vederlo richiamato sulla scena.
Riapro il copione di Teneese tra le mani, riprendendo a leggere di Maggie e Brick, mentre in sottofondo la tragedia continua a scorrere nel suo scambio di battute, catturando l'attenzione di protagonisti e spettatori.
Chiudo alle mie spalle la porta di casa, tenendo in bilico, come sempre, la borsa marrone in pelle e i manoscritti teatrali. Il suono delle chiavi, posate sul mobile dell'ingresso, è il solo presente, ma cerco nuovamente di non farci troppo caso.
Mi dirigo verso il soggiorno spalancando le tende e aprendo le finestre, in modo di dare luce e sole a questa semplice ma modesta abitazione, riuscendo così a far entrare anche i rumori esterni e avere compagnia.
Il mio vicino, dall'altra parte della strada, solleva una mano in segno di saluto ed io la ricambio, mentre noto suo figlio, poco distante, imparare per la prima volta ad andare in bici.
Non ne ho mai avuta una, ma la macchina che ora è ferma sul viale, pagata con i miei soli sforzi, direi che può essere un degno sostituto.
Il nero della carrozzeria scintilla di un bagliore concesso dal sole, in questo contesto abitativo di palazzi dipinti a più colori, in maniera quasi casuale.
Prendo posto alla sedia di fronte alla finestra e incrocio le gambe, accendendomi una sigaretta e gustandomi la scena di quel quadretto familiare.
Non è semplice istruire il piccolo ad avanzare sul marciapiede, per strada, tra la folla di gente, con solo due ruote disponibili. Ma nessuno dei due si da per vinto, permettendomi di seguire i loro progressi.
Mi smarrisco nei ricordi di un'altra età e di un'altra vita, concentrandomi solo su quelli più felici, quando noi tre eravamo riuniti. Non importava l'occasione, a quel tempo non ce ne era bisogno, mostrandomi che alle volte serviva così poco per toccare il cielo.
Comico il pensare alla velocità con cui si può arrivare a perdere qualcosa.
Un gemito strozzato attira la mia attenzione, sembra una specie di grido privo di suono.
Spengo la sigaretta nel vetro del posacenere e scatto in piedi, in direzione delle stanze.
«Mamma?!»
L'assenza di una risposta mi getta negli abissi del panico e mi spinge ad avanzare in maniera più veloce lungo il corridoio e quindi alla sua camera.
Spalanco la porta calamitando, dentro il buio di serrande chiuse a notte, la luce presente alle mie spalle, tramite la quale riesco a vederla stesa sul letto, con un braccio teso verso il comodino.
Il viso cianotico evidenzia la sofferenza.
Mi muovo di colpo, raggiungendola velocemente, e mi siedo al suo fianco nel letto, prendendo in analisi la mossa da compiere.
Sembra che stia soffocando.
In un attimo sono piegato su di lei e la costringo a sedersi. Il suo mento appoggia sulla mia spalla mentre con una mano tento di afferrare l'inalatore per l'asma.
Riuscito ad afferrarlo lo porto fino alle sue labbra, permettendole di recuperare profondi respiri.
Mentalmente mi maledico, mentre la guardo su questo letto, dell'odore della sigaretta con il quale si sono impregnati i miei vestiti.
Constatando il suo miglioramento mi sollevo, allontanandomi per aprire le finestre anche di questa stanza.
Non le fa bene rimanere in ambienti chiusi, così come non le fa bene l'aria viziata, gli animali domestici, il fumo della sigaretta, l'umidità, e lo sforzo fisico, ma in merito a quest'ultimo dovrebbe ricredersi, perché da anni ormai, a causa di tutte le sue malattie, si condanna alla prigionia di casa nostra.
Dovrebbe uscire, prendere il pane, vedere la città.
Amerebbe così tanto il suo sfarzo, ma con forza se lo nega.
Non vuole vedere il nuovo volto di Los Angeles.
«Mamma dovresti alzarti dal letto, e camminare un po'. È ancora giorno, potremmo fare una passeggiata al Griffith Park, che ne pensi?»
Volto la testa nella sua direzione, vedendola mentre si allontana con lo sguardo, evitando una risposta. Il cuore mi precipita in petto, sconsolato dalla sua tenacia.
«Dovresti davvero uscire, mamma. Ti farebbe bene. Non vuoi?»
Lentamente la vedo scuotere il capo, in una negazione che temevo di ricevere.
Tento di riavvicinarmi a lei, afferrandole l'inalatore per riporlo, ma di compenso vengo schiaffeggiato sulla mano. Entrambi rimaniamo immobili in un dialogo esente di parole, bloccati dentro il tempo che sembra essersi incrostato alle pareti di questa stanza.
La sua espressione cattiva contro la mia, ormai vicina alla resa. Un'altra persona crederebbe al suo odio ma ormai so quanto questa volontà di indipendenza possa derivare solo dalla vecchiaia, o forse mi è più facile da credere. Forse mi detesta sul serio.
«D'accordo mamma, come preferisci» dichiaro, allontanandomi di qualche passo e dedicandole un'ultima occhiata. Non si ritira da questo duello continuando a sfidarmi finché non sono costretto a lasciare la stanza a spalle basse.
Socchiudo la porta senza accostarla del tutto, nella paura che la sua testardaggine la spinga a soffocare qualsiasi altro tipo di suono, vietandomi l'offerta d'aiuto, e una volta in corridoio chiudo le palpebre, appoggiando la testa alla parete.
I ricordi di un' infanzia felice sono ormai lontani frammenti impossibili da riottenere, ed ecco che scopro il bisogno del Destino di farmelo capire. Con questa ultima assenza di respiro ci è riuscito bene, ed io non ho niente contro cui lottare.
Dalla tasca destra dei pantaloni, la vibrazione del telefono richiama la mia attenzione, ed ancora ad occhi chiusi riesco a recuperarlo. Tramite le palpebre la luce scaturisce più tenue, ma ad ogni modo accecante per il buio al quale mi ero costretto, spingendomi quindi a fronteggiarla ad armi pari.
Sei ancora con me?
Il teatro ti ha di nuovo
imprigionato, per caso?
Scivolo con la schiena lungo la parete, continuando a osservare il messaggio di Katrina, aperto sulla nostra chat. Solo una volta che il mio corpo ha raggiunto terra riesco a scrivere, digitando lentamente il suo nome.
Caitlin.
Sì?
I suoi occhi celesti, attraverso il ritratto della foto, mi raggiungono con la loro audacia, allentando la stretta nata intorno al mio cuore, per poi rafforzarla.
Non è stato uno sbaglio.
Quel bacio ... era tutto,
tranne che un errore.
E dovresti davvero fidarti
delle mie parole perché sono
un maestro nel commettere
delle imprecisioni.
Immagino che siano loro
a permettermi di crescere,
e a consentirmi di scegliere
sempre cosa dire, o fare, al
meglio, proprio come hai
detto tu. Eppure quello che
abbiamo avuto non è stato
niente di tutto questo.
Era perfetto, Cat.
Tu sei perfetta.
Non dovremo provare a
limitare niente di ciò
che otteniamo quando
siamo insieme.
Non lo credi anche tu?
La prolungata assenza di una sua risposta e la piccola parola che mi avverte, in un triste monito, della sua effettiva presenza di fronte allo schermo, permettono al mio animo di scivolare sempre più in basso, verso il fondo di un abisso dal quale non sarei certo di potermi rialzare.
Vale la pena provare, però, prima di toccare la sabbia e constatare quanto il tutto, dannatamente, sia per sempre perduto.
Per cui arrivo a provocarla con una semplice frase che assomiglia a una supplica, se solo Katrina riuscisse a smentirla della sua maschera.
Credevo non ci fosse
donna più passionale
e testarda di una gatta
su un tetto che scotta.
Hai scritto delle belle
parole, Michael.
Mi sto solo prendendo
il mio tempo per rileggerle.
Non farlo, parla con me.
L'ho fatto.
Mi hai detto che ti fidi.
Sì.
Fallo anche adesso.
Dovrei?
Perché no?
Perché non si tornerebbe
più indietro, e questo lo sai.
Inclino la testa verso la porta aperta della camera di mia madre, vedendola attraverso questa feritoia, bianca come il colore delle lenzuola e della federa.
Non voglio tornare indietro.
Voglio andare avanti.
Digito con sicurezza, riprendendo, al termine, a fissare il viso stanco della donna dalla quale ho ereditato gli occhi. Questi occhi che Cat definisce tristi ma belli, non più miei quanto suoi, inclini ormai a macchiarsi di rancore, annerendone la cromia, trascinandola verso un mondo nel quale non posso più raggiungerla.
Se solo mi fossi arreso, tempo addietro, adesso non saremo fino a questo punto. Non dovrei provare, a ventotto anni, a reinventarmi completamente, in modo da scoprire in maniera totalmente veritiera quello che provo, ma la guerra che ho compiuto mi ha portato fino a qui.
In una conversazione con una bellissima ragazza dai capelli color rosso fuoco e gli occhi di una macchia rubata ai più sereni cieli, mentre attendo la sua risposta, seduto in un corridoio senza suoni, soffocato dalle mie abitudini.
Nemmeno io lo voglio.
Quattro semplici parole che uniscono il nostro destino come un filo rosso, che ormai da tempo ci ha intrecciati.
C'è solo un modo allora,
per lasciarci tutto alle spalle.
Vediamoci, Cat.
Quando?
Stasera... ora.
Non hai impegni?
Posso rimandare tutto.
E la tesi?
Cat... voglio vederti.
Mi occorre molto tempo
per prepararmi.
Sorrido, immaginandola di fronte a uno specchio, mentre alle spalle l'intero armadio mostra i suoi cadaveri sul letto.
Non ci crederei nemmeno
se potessi vederlo.
Allora hai imparato a
conoscermi.
Non ci voleva troppo
a capire che non ti
serviva farti bella.
Adori l'adulazione tu, eh?
Che cosa ne pensi
della mia proposta, Cat?
Si può fare, ma scelgo io il
luogo.
Chiudo la conversazione con impresso, sul viso, un sincero sorriso, e con lui abbandonando la testa all'indietro, finalmente vincitore coraggioso di questa sfida offerta dalla vita.
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