66- Come hai potuto farlo?

P.O.V.
Caitlin

Le scene scorrono in una sequenza di luminosi flash allo schermo, ma io non lo sto fissando. Con la coda dell'occhio sto spiando il profilo di Ethan, ancora seduto alla sua poltrona ma ruotato verso il mio fianco mentre me ne rimango stesa su questo divano, provando ad immaginare i suoi pensieri.

«A cosa stai pensando?»

La ridotta scelta nel repertorio di Lexie e la casualità dello zapping tra canali ci ha condotto fino a un thriller avvincente, ma per tutta la durata del film non abbiamo detto una parola. Segno, forse, che nessuno dei due era concentrato sulla trama.

Una piccola fossetta, accanto alla sua bocca, viene illuminata dai pixel blu della scena, non appena sorride lievemente.

«Questa è una domanda che mi faceva sempre anche mia zia» mormora.

«Le eri molto legato?»

«Mi ha cresciuto lei, assieme a mio zio.»

«E i tuoi genitori?»

«Si sono separati quando avevo tre anni ed entrambi non erano molto presenti. Mio zio Dominc è il fratello di mio padre.»

«Ed è stato complicato? Crescere con lui, intendo.»

«Non mi ha mai fatto mancare niente.»

Sì, questo si accosta al pensiero che avevo di Dominc prima che Michael mi ricordasse del danno che gli aveva provocato. L'immagine che avevo avuto era quella di un uomo buono, particolarmente gentile per quanto austero e attento. Arrivo ad immaginarlo con più chiarezza solo ora. Riesco quasi a crederlo, sentendo le parole di Ethan.

«Puoi continuare a odiarlo, se lo desideri» mi dice a un tratto, «ma con me è sempre stato una persona gentile. Mi amava, e mi ama ancora, come il figlio che non è riuscito ad avere. Non ho mai conosciuto un uomo più buono di lui e più coraggioso nel dire la propria opinione, per quanto potesse ferire.»

«Non era così integerrimo. Mi ha confessato di aver preferito il proprio lavoro a tua zia, di averla lasciata sola.»

«Di certo non ho detto che era perfetto. Siamo tutti umani, e mia zia aveva un particolare bisogno di amore.»

Resto in silenzio, con la mente che rielabora le informazioni, prima di far uscire un azzardato pensiero delle mie labbra.

«Deve essere difficile.»

«Che cosa?»

La testa di Ethan si volta in direzione della mia, ed è quasi come se fossimo più vicini, adesso. Io seduta su questo divano all'ultima postazione che tende ad andare nella sua direzione e lui seduto alla sua poltrona, con la caviglia di un piede appoggiata al ginocchio dell'altra e le braccia incrociate, fermo a fissarmi.

«Credere all'amore con gli esempi che hai avuto nella tua vita.»

«Non ci ho mai rinunciato.» Mi dice, e la sua voce assume un tono grave.

«Io per poco non l'ho fatto. Mia madre manifestava più la devozione che l'amore per mio padre, e lui, d'altro canto, la trattava con distacco. Più lui si allontanava da lei, perché infastidito per qualcosa, più lei cercava di compiacerlo in tutti i modi.»

«Forse nemmeno i tuoi erano tanto innamorati, in fondo.»

«Come fai ad averne la certezza?»

«Non la ho, ma so per certo che trattare una persona con disprezzo ed insolenza non significa amarla.»

Taccio per qualche istante, mentre quella frase mi rimbomba dentro.

«Stai pensando a Naijya?» Chiedo, esitante.

«Se le avessi mancato, solo per un attimo, di rispetto non sarei stato diverso dagli uomini contro i quali combatteva, ed era davvero difficile riuscire in quel caso a farlo. Non sai quanti problemi, quante ideologie estremiste porta in sé la loro cultura che...»

La voce gli viene a mancare, ed ecco che il suo profilo si mostra di nuovo a me come unica linea decisa del confine del suo volto, in risalto rispetto al buio della stanza come lo era stato la notte che abbiamo camminato fianco a fianco fuori dalla piscina comunale.

«Non hai idea di quante volte l'ho allontanata pronunciando la frase sbagliata... e hai ragione, io non parlo mai molto. Non ti dico mai molto e non esprimo opinioni, per quanto abbia iniziato a conoscerti. Questo perché non voglio essere come quelle amicizie tossiche che hanno cercato, in qualche modo, di opprimerti facendo valere la loro opinione ma soprattutto perché ho imparato a dare valore alle parole, e con te non voglio sbagliare.»

«Credo tanto nell'amore da essere convinta che anche i miei si amino. In un modo tutto loro, che forse ha qualcosa di sbagliato ma che almeno li ha resi felici, per tutto il tempo che è durato.»

Ethan rivolge la testa verso di me e mi osserva, mentre i titoli del film scorrono veloci lungo lo schermo.

La chiave all'interno della toppa, minuti dopo, fa sollevare a entrambi la testa per poter vedere l'ingresso di Lexie e di Reiner, prima che quest'ultimo accorra verso di me.

Si inginocchia al termine del divano e mi prende il viso tra le mani. Intrappolata nei suoi palmi mi sembra quasi di scomparire.

«Come stai? Ho cercato di venire prima che ho potuto!»

I suoi occhi saettano lungo tutto il mio volto, cercando tracce sulla mia pelle in grado di manifestare il mio dolore.

«Sto bene, Reiner, non ti devi preoccupare.»

Non ne è convinto per cui non mi lascia andare, facendoci rimanere entrambi vicini e sotto il controllo di Ethan, ancora seduto al mio fianco, e di Lexie che dalla cucina mi fissa con disappunto, conoscendo la realtà dei fatti.

Tento di non soffermarmi troppo su di lei e di rassicurare il mio amico, in modo che si tranquillizzi.

«Va tutto bene, Reiner. Lexie ha deciso di ospitarmi qui come gentilezza ma sto bene, sul serio.»

«Non devi nemmeno toccare un foglio di lavoro. Ci siamo capiti? Ethan?» Chiede appoggio al suo amico prima ancora che possa convincerlo con false speranze.
Questi si sposta leggermente dalla sua postazione, con una leggera smorfia e gli occhi lontani.

«Tranquillo, ci ho già pensato io.»

«Ottimo, allora. Katrina, occhi a me», torno su di lui, fissando dentro le sue iridi scure. «Non devi pensare a niente, solo a te stessa. Ci siamo intesi?»

«D'accordo.»

«Bene. Lexie deve mostrarmi alcune novità sulla nostra propaganda ma dopo possiamo parlare se vuoi, d'accordo? D'accordo.»

Sparisce ancora prima che possa rispondergli, e mi costringe a fissare Ethan, il solo rimasto, con la bocca leggermente aperta e questi sorride del mio stupore.

«Ci ha impiegato poco più di un'ora, lo sai?»

Potrebbe essere una battuta sulla preoccupazione di Reiner, se solo non sfoggiasse questo viso triste.
Si alza dalla poltrona ed afferra con calma il giubbotto, mentre io me ne resto a fissarlo scorrere un braccio da una manica all'altra.

«Fa sempre così. Si aspetta che gli racconti tutto, ma non gli dirò niente» mormoro, presa dal bisogno di risentire Ethan vicino.

«Dovresti, invece. Parlare con qualcuno fa bene.»

Non Reiner con tutte le sue preoccupazioni. Non Lexie che continua, dalla cucina, a fissarmi.

«Tornerai, qui?» Per parlare?

Si volta appena per potermi fissare, ed una piccola crepa si crea nel muro che si era innalzato tra noi, non appena aveva indossato il soprabito. Non è niente, però, rispetto a quello che avevamo avuto nel pomeriggio.

«Il mio numero ce l'hai. Puoi chiamarmi quando vuoi e verrò a farti compagnia.»

Avevo già emesso il mio "no" affinché non se ne andasse. Stavolta non c'è niente che lo possa trattenere. Io non ho il diritto di poterlo trattenere per cui lo lascio andare.

«Ciao...»

«Ciao» mormoro in risposta, e dopo qualche istante Ethan se ne va. Rimango da sola in soggiorno, ma in poco mento di un attimo mi raggiunge Lexie, con uno straccio in mano.

«Proverò a convincerti prima che Reiner si affacci preoccupato in questa stanza e ci interrompa. Devi andare da un dottore per farti visitare. Può essere stato un calo di zuccheri o può essere stato altro. Non puoi sapere se si è trattato del sintomo della tua malattia finché non ti fai controllare.»

Odio quando Lexie traduce i miei pensieri ma, più di tutti, odio quando ha ragione.

Risulta difficile parlare apertamente con l'uomo che possiede la mia intera cartella clinica tra le mani. Devo provare a inventare qualche scusa stupida, un semplice controllo di routine, per convincerlo che non sono affatto preoccupata della mia situazione e che posso andarmene presto.

Nemmeno accenno al problema della gravidanza. Non voglio pensarci. Non voglio che sia la causa di questi disordini.

«Signora Flint, non si preoccupi, si è trattato di un semplice calo di pressione. Come le ho già comunicato la malattia è ufficialmente in regresso.»

Mi sto abbottonando il cardigan rosa al di sopra della mia maglietta bianca quando sento queste parole. Le mani mi si fermano, gelandosi.

«Come, prego?»

La testa mi si volta di conseguenza, e la voce che esce dalle mie labbra risente di un timore che all'improvviso arrivo a covare dentro. Perché io non ne sapevo niente di una simile ufficialità. Mi aveva detto di stare attenta, di controllarmi fino ad avvenute conferme...

«Non ha ricevuto le mie mail? Le ho comunicate a suo marito. Si trattava dell'esito dei suoi esami, dei checkup completi dei controlli bimestrali. Sono positivi, e non nel senso medico del termine. L'hiv la sta lentamente abbandonando, la sua carica virale è molto bassa. La trasmissione è difficile ormai, ma non impossibile, quindi le raccomando di stare ugualmente attenta.»

Lascio perdere l'ultima frase che il medico si è procurato di dirmi, e mi concentro sulla questione più importante quale centro del problema.

«E mio marito questo lo sapeva?»

Ecco che compare il disagio sul volto del dolce uomo anziano vestito del suo bianco camice. Mi aspetto, almeno, che comprenda il carico del suo errore e sappia farne ammenda dandomi certezze.

«Immagino di sì, diverse volte mi ha risposto anche alle mail ringraziandomi della premura. Non credevo potesse essere un problema farlo sapere tramite lui.»

«E infatti non lo è stato», sorrido, gelida. «Può, però, stamparmi una copia di quei risultati? Mi piacerebbe rivederli personalmente.»

«Ma certo.»

L'uomo compie un lento giro attorno alla sua scrivania e si rimette alla propria postazione, dietro la schermata del computer.
La stampante si aziona nel momento stesso in cui la grinta mi abbandona e il dolore arriva a riscuotere la sua parte.

«Vuole anche fissare il prossimo appuntamento, per quando è libera?» Mi chiede il mio medico ma non riesco più a vederlo.

La vista si è appannata come capita quando apro gli occhi, nell'acqua piena di cloro della piscina comunale immaginandomi parte di un mondo sommerso che mi ha resa libera da tutti i problemi, lontana dalla gravità.

Sto piangendo, e la lacrima che mi cade lungo la guancia è il solo segnale della mia freddezza. Il resto del corpo invece trema, a pezzi, ma non manifesta all'esterno il proprio dolore.
Lascio che marcisca dentro di me, distruggendomi completamente finché non sarò costretta a ricompormi ed a mostrarmi forte verso il solo uomo con il quale non avrei mai pensato di dover fingere.

Piccole pietruzze di ghiaia mi feriscono i tendini, proprio al di sopra del bordo della scarpa quando discendo lungo la rampa del nostro parcheggio privato, ma non mi interessa.

Afferro le chiavi dalla tasca dei jeans e, con furia, faccio compiere loro una rotazione nel meccanismo. Ora sono dentro la casa e quello che vedo... è la figura di lui in piedi, sulla spiaggia e di fronte al mare.

Inclino il collo, presa da una rabbia fuori dal normale, assassina della sua tranquillità, poi quando torno dritta respiro a fondo e mi dirigo verso le portefinestre, che spalanco.

La sabbia lascia affondare i miei passi ed è difficile, ma non impossibile, la traversata che mi congiunge a lui e quando gli sono vicino... oh! Quando gli sono vicino lo spingo con tutta la forza possibile a terra, rimanendo al suo fianco, e se questo non serve per farlo cadere tanto basta a destare il suo stupore.

«Caitlin...»

Sollevo i fogli che ho in mano e glieli mostro. Li mostro ai suoi occhi traditori.

«Che cosa sono questi, Michael? Che. Cosa. Cazzo. Sono?!»

Non gli do il tempo di leggere le righe di questa pagine macchiate di vergogna perché le conosce benissimo. Gliele spedisco addosso. Il vento fa volare qualche pagina e vicino a noi il mare finisce per inghiottire una di quelle cartacce, assorbendo le parole al suo interno.

Gli occhi neri di mio marito mi fissano calmi, quasi avessero tenuto conto di questo ridicolo imprevisto, quasi a cercare di rasserenarmi. Hanno assunto di nuovo loro il controllo, dopo quel lieve inclinamento che aveva provocato la mia spinta al suo corpo.

«Caitlin... vedi di calmarti.»

«Calmarmi? Ti rendi di che cosa mi hai fatto? Tu mi hai mentito, Michael! Mi hai ferita!»

Quasi stesse scendendo a patti con una belva feroce, i palmi delle sue mani sono aperti, per quanto rivolti verso terra, e mentre i suoi passi si prestano a far avere ai nostri corpi un ravvicinato contatto quel gesto di attesa mi manda su tutte le furie, e mi ferisce.

«Calmati...»

«No, no!»

Provo a voltarmi per scappare, allontanarmi da lui il più possibile, ma è tutto inutile. Sfruttando la mia retrocessione anche i suoi passi si sono mossi verso un diverso tipo di conoscenza e gli hanno permesso di balzare, in un attimo, su di me.

Adesso mi sta stringendo da dietro mentre io protesto. Le sue braccia sono unite tanto strette, contro di me, da togliermi il fiato e sopportare tutte le contrazioni di protesta che esercito, nel tentativo di scappare.

«No!No, no, no!!»

Collasso su me stessa, mi contraggo, le sue braccia non mi permettono di cadere. Siamo due macchie nere su questo litorale, sagome di figure indistinte in un dipinto a pastelli che vedono sotto di loro solo una striscia d'oro verdastro, ed il blu scuro del mare con al di sopra nuvole grigie. Risulta impossibile separare i nostri gesti, a causa degli abiti, a causa delle mosse.

Il suo corpo non lascia il mio, non mi abbandona. Mi stringe più forte a sé quasi mi impedisse di distaccarmi da lui... quasi fosse amore.

«Caitlin, ascoltami. Solo un secondo, ti prego» sussurra la sua voce al mio orecchio, e tornare a sentirla mi trasmette strani brividi. Eccitazione? Paura? Forse entrambe, quello che provo per lui, adesso, è così confuso da mettere in gioco un meccanismo di terrore.

«È vero. Ti ho mentito, sapevo delle analisi...» Gemo un lamento disperato, che supplica pietà. Le sue braccia mi stringono più forte. «... Ma quello che volevo era costruire qualcosa di bello insieme. Un bambino, Caitlin. Nostro figlio.»

Sentirgli pronunciare ancora una volta il mio vero nome... è l'unico, di questa mia nuova vita, che lo conosce, ed il potere che esercita quella sola parola è tremendo. Non so cosa replicare alle sue parole se vengono macchiate tanto del nostro passato. È ingiusto farlo. È ingiusto che adesso sia io quella che si ritrova a piangere, e lui l'unico tra i due che tenta di non mollare la presa.

Mi ha lasciata cadere tante volte, e quello che ha fatto è sbagliato, nonostante le parole dolci con cui tenta di giustificarlo... è sbagliato, è sbagliato, è sbagliato....

«È sbagliato» mormoro a voce mediamente alta, e la sua mente lo ode.

«No, amore mio, non è sbagliato. Non è sbagliato, perché noi ci amiamo.»

«No...» gemo, con i muscoli contratti, la testa ciondolante e le mani salde alle braccia di lui che mi stringono, tentando di levarmele di dosso senza riuscirci sul serio.

«No, non ci amiamo?»

Sì... sì, noi ci amiamo, ed è terribile proprio per questo.

«Lasciami andare» supplico, non sentendo di avere forza, in corpo, per poter riuscire a farlo da sola. Sono così debole...

«Siamo sposati, Caitlin. Io non ti lascio andare.»

Questo... è molto più che sbagliato. Lotto con quelle mani, e scalpitando riesco a sfuggirgli. La forza che ho usato mi fa cadere con il volto nella sabbia. Il viso non affonda, il corpo però subisce l'impatto contro quel suolo bagnato dal mare senza lasciarsi intrappolare. Striscio, affondando le unghie nel marrone scuro di questo terreno solidificato con il sale ed avanzando mentre con le sue, di unghie, conficcate nei tessuti dei miei abiti prova a riportarmi a sé.

La punta delle scarpe prova a farsi leva e ci riesce: mi permette di allontanarmi e sfuggire da lui, voltarmi e fissarlo negli occhi. Sono ancora seduta a terra ma stavolta verso il suo volto che si staglia contro il cielo.

Non sono mai stati più neri i suoi occhi. Erano così belli, un tempo, ero convinta di essere riuscita a scioglierli ma adesso... è come se ci fosse qualcosa in loro che non riesco a leggere. Vorrebbero trasmettermi la calma ma in realtà sono guidati da una fiamma corrosiva.

Lo vedo, il volto del mio amore. Lo immagino di profilo. I suoi capelli neri mediamente corti che gli lasciano scoperta la fronte, il suo naso aquilino, la sua bocca morbida e rosa, il mento pronunciato e scavato, il respiro che esce da quelle morbide labbra. La mascella squadrata, il collo percorso dalle vene, gli abiti poco più in sotto completamente neri... è bello il mio uomo, è stato gentile un tempo. Ho rivolto, con disperazione, una supplica alla porta del suo cuore e mi era stata data la grazia della redenzione ma ora... dove mi trovo, rispetto a quella porta? Ancora è chiusa, come un tempo? Sono mai riuscita ad aprirla?

«Come hai potuto farlo?» Sussurro, presa dall'angoscia di un dolore che non può essere spiegato a parole. «Hai rovinato tutto. Tutto quello che avevamo...»

A sentire la mia voce eccoli, ecco i suoi occhi che abbandonano la calma e si battezzano con il proprio fuoco. Sono belli lo stesso, mentre manifestano la loro passione perché di questa si tratta. Non è rabbia, non è nemmeno più testardaggine. Questo è il volto di un uomo che, come me, sta per sentirsi scivolare di dosso tutto.

«Niente è rovinato, Cat...»

«Invece sì, è tutto andato!» La voce mi esce strozzata, piccola anche lei, proprio come me mentre me ne sto stesa sulla sabbia e sollevata solo sulle mie mani, al cospetto di un uomo tanto forte da potermi schiacciare.

E l'ho provata quella forza, la pressione delle sue mani addosso. La sento ancora. Stringo le gambe, per non percepire sull'interno della coscia il dolore dei lividi che hanno lasciato i suoi polpastrelli. Gesti che un tempo erano d'amore, adesso in cosa si sono manifestati?

«Un figlio, Michael. Hai voluto che noi avessimo un figlio, solo perché abbandonassi il mio posto di lavoro.»

Vedo che stringe i denti, le sue mascelle si muovo appena deviando il contorno del suo viso. Lo osservo con disperazione, affinché capisca quanto è sbagliato.

«Ed ora scopro che mi hai nascosto anche della mia condizione di salute. L'hiv, Michael! Lo sai il peso che ha questa malattia su di me, e non mi hai voluto nemmeno rendere felice! La carica è bassa, nonostante i valori che ho avuto in passato, sto guarendo del tutto. È quasi un miracolo!»

Non dice niente. Rimane semplicemente immobile, a fissarmi. Il suo cappotto, aperto, è smosso dal vento.

«Quando hai smesso di preoccuparti per me? Deve esserci stato un attimo, un preciso attimo, nel quale hai smesso di amarmi.»

Persa nel suo sguardo, rimango un istante intero a fissarlo, prima di accorgermi che è tutto inutile. Mi sollevo in piedi e faccio per andare, ma ancora una volta la sua maligna mano mi agguanta fino a costringermi a voltarmi verso di lui.

Le sue mani sono attorno al mio viso, e l'attimo dopo la sua bocca è contro la mia. Con la lingua scava nella mia bocca alla ricerca di una risposta, e se gli ho concesso di entrare non gli garantisco questo contatto perché non lo voglio. Non voglio niente di tutto questo, deve allontanarsi.

«Credi che non ti ami?» Sussurra, con il respiro spezzato a causa di quel bacio, contro il mio volto, cercando i miei occhi. Li tengo bassi, evito di fargli vedere le mie lacrime.

«Amare non è solo questo.»

«E che cos'altro c'è, Caitlin?»

Rispetto. Fiducia reciproca. Dolcezza. Sicurezze.

«Ti guardo ancora come se fosse il primo giorno, non te ne accorgi?»

L'inganno che cela la sua voce è una trappola succulenta, un tentativo che esercita per non farmi andare via. L'ho provato troppe volte, e non ho mai avuto la forza di combattere la sua passione.

«Che cosa c'è di male a volere un figlio? Non ci pensiamo già da anni, non lo abbiamo progettato insieme?»

«Non così» sussurro con il capo rivolto di lato, per non vederlo e perché la sua voce mi sussurra proprio all'orecchio. Non ho le forze di dirgli della pillola. Non voglio che conosca un'altra parte di quel dolore che potrebbe sopraffarmi.

«Caitlin, guardami... stai parlando con me, tuo marito...»

«Vattene

L'urlo che mi esce dalla bocca sorprende così tanto entrambi da farci arretrare. Sono libera da lui. Allontanarmi è come strappare un pezzo di me, lasciare scoperta pelle e nervi dopo che un tessuto troppo adesivo ha strappato via la tua epidermide. È ribrezzo per quello che sono, tremante e incompleta. È orrore per quello che è lui, per il dolore che mi ha provocato.

«Tu sei sparito da un pezzo. Te ne sei andato quando hai saputo del mio lavoro alla Land Art e non sei più tornato da me!»

Cambio di registro. Stavolta, lo vedo, le mie parole hanno innescato qualcosa in lui, e la maschera della finta bontà scivola via dalla sua faccia.

«Che cazzo volevi che facessi, eh?! Che ti applaudissi perché hai trovato lavoro in quel buco di mondo?»

«Non vedo perché no!»

«Sei così egoista, cazzo!»

«Io lo avrei fatto se si fosse trattato di te» gli dico, andandogli stavolta io per prima incontro. «Ti avrei sostenuto in tutte le tue scelte e l'ho fatto. Sono sempre stata dalla tua parte, con Marina...»

«Con Evie» commenta, e qualcosa nel tono della sua voce, che tanto si confà alle veci del disprezzo, mi lascia sbalordita nel chiedermi... se sappia la verità. «Se tanto mi difendi... allora perché non mi hai detto subito che lavoravi alla Land Art?»

Rimango in silenzio, in piedi a pochi passi da lui ma distante come un intero continente, con la bocca appena spalancata nella sorpresa di ciò che lascia scaturire.

«Sai chi è Evie?» Mormoro.

«Credi che non lo abbia capito subito? Quel finocchio di Jeremy si riconosce subito, ha solo scelto la strada più facile per scappare.»

«Non parlare così di lei...»

«Ti importa più di Jeremy che di quello che stiamo dicendo adesso?»

Non voglio più starlo a sentire, voglio solo allontanarmi da qui. Mi volto, dandogli la schiena e iniziando a camminare verso la fine della spiaggia.

«Perché non mi hai detto del tuo lavoro, Caitlin?» Mi urla dietro, iniziando a camminare dietro di me. «Perché non mi hai detto di aver parlato con Sebastiaen, sotto consiglio di Jeremy? Lo hai fatto, non è vero?» Inizio a camminare più veloce, mentre gli occhi mi si bagnano di lacrime. Tento di asciugarle con la manica della giacca. «Vuoi fermarti e dirmi tutti i cazzo di motivi per i quali mi menti?»

«Perché ho paura di te!» Grido, voltandomi contro di lui ad occhi chiusi e quando li riapro mi accorgo di averlo molto vicino.

La voce mi ha spezzato le corde vocali, la gola è incredibilmente secca ed il cuore è in tachicardia, avendo confessato una verità che, ormai, covo dentro da tempo.

«Ho paura di te... per tutto ciò che mi hai fatto provare» argomento, afflitta e priva completamente di forze, adesso. «Ti ho amato come non ho mai amato nessuno, mi sono completamente fidata di te, sono andata contro tutto e tutti... ma non posso tacere adesso, dopo quello che mi hai fatto. Non posso più stare in silenzio.»

«Che cosa ti ho fatto, Katrina?» Sussurra, avanzando nei suoi passi di felino lungo questa sabbia.

«Male» mormoro «molto male.»

«Posso rimediare...»

La sua voce è ingannevolmente dolce, il suo viso ha di nuovo assunto una maschera.

«No...»

«Mi ami, non è così?»

È doloroso dover dire la verità adesso. «Sì.»

«Se mi ami non puoi lasciarmi. Lo capisci questo? Siamo legati. Siamo solo noi, come sempre.»

Rivivo, tra i ricordi, i momenti passati insieme. Quei fantastici, e immortali giorni, che hanno simboleggiato l'inizio del nostro amore. La giornata di quel ritratto in classe con lui da modello, la serata al cinema, il viaggio in Italia, la spiaggia di Recanati, la nostra prima volta, il suo spettacolo. Il nostro matrimonio e tutto quello che ne è venuto dopo... Emozionarsi di nuovo è l'afflizione data dalla potenza di simili ricordi perché quello che avevamo vissuto era reale, continua ad esserlo, solo che ora fa troppo male.

Quando, quando ci siamo persi? E che cosa è venuto a mancare? Ricordo il giorno esatto in cui ha scoperto del mio lavoro, ricordo come mi ha portato via dalla società, ricordo le sue parole con Dominic. Ma io quelle parole non posso viverle, per me è stato tutto diverso. È stato un nuovo inizio rispetto a tutto quello che ho vissuto. Sono cambiata e lui non mi ha seguito... lui, forse, è tornato ad essere quello che in fondo, probabilmente, già era.

Un uomo ambizioso che si è sentito tarpare le ali, e che nella sua gabbia ha lottato, scalpitando, contro gli aggressori che lo hanno tenuto imprigionato, ferendo degli innocenti. Quel bambino, nell'industria della Down Town, con la faccia sporca dalle polveri della grande ciminiera industriale che sviluppava il commercio e che sognava, un giorno, di essere meglio di tutti loro. E, adesso, quest'uomo ha provato invidia verso di me, una gelosia di cui molti lo hanno reso colpevole. Ma fino a che punto si può colpevolizzare? L'avrei perdonata di tutto.

L'avrei giustificata, fino ad annullare me stessa, se solo questo non avesse strappato la voce che tengo dentro e non mi avesse fatto sentire, ancora, il senso di oppressione e di controllo, per me esercitato da una mano posta sul capo.

Mi aveva sfiorato i capelli, metaforicamente. Aveva messo la sua mano tra le mie chiome e aveva strappato. Aveva deciso per entrambi. Aveva fatto tutto lui, ed ora dice di amarmi.

Sì, forse mi ama, forse ci amiamo ma lui non mi rispetta. Non rispetta la donna che sono né le capacità che possiedo. Non crede in me ed io non posso vivere con questo dolore, con un uomo che è disposto a trascinarci entrambi sul fondo di un profondo abisso... pure di stare insieme.

«Non è così» rispondo. Le lacrime mi hanno solcato le guance, ormai, ed il freddo le ha gelate contro il mio viso ma il mio corpo è immobile, la mia voce è immobile.

Ho le braccia abbandonate lungo i fianchi e il cappotto nero che infuria, proprio come il suo, smosso dal vento mentre rimaniamo faccia a faccia. Due figure scure e nere che, in una mostra a sequenza di immagini, rappresentano ora il distacco, separati ma uniti da un amore, nonostante tutto ancora presente, che li corrode.

«Voglio il divorzio. Trovati presto un avvocato.»

Queste sono le mie parole, prima di voltarmi e lasciarlo solo. Prima di lasciare su questa spiaggia il mio intero cuore, affinché le onde del mare lo portino via.

Non amerò più. Non amerò altri che Michael. Lo so perché, nonostante tutto, adesso non penso ad altri che ai suoi pensieri, a quello che sta provando e vorrei andare indietro. Vorrei stendermi ai suoi piedi e supplicarlo di ricominciare. Vorrei che tornasse tutto come al principio. Vorrei pregarlo di farmi ancora sognare, di ridarmi le stelle di Roma, l'acqua delle cascate, la promessa di un amore eterno.

Vorrei tornare al giorno prima, prima del suo attacco fisico, prima che ingerissi quella pastiglia.

Vorrei tornare a sperare ancora ma è sbagliato, perché illudersi è un gioco da bambini, ed uccidere, prima ancora della nascita, quella creatura capace di crescere in emme mi ha fatto capire, per paradosso, la mia responsabilità come donna.

Il vento infuria come sulle rocce del Donegal, ma adesso sono una persona nuova.

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