63- Naijya
P.O.V.
Ethan
Ethan... Lāzwardī, svegliati... ci sono le luci fuori, avevi promesso di farle vedere al piccolo.
Sorridi anche quando dormi, Ethan.
Lāzwardī, svegliati. Svegliati, amore mio.
Ethan... Ethan.
Quando apro gli occhi di fronte non ho che il buio, e la sua voce nelle orecchie che continua ad accarezzarmi, quasi mi stessero sfiorando i capelli quelle mani morbide che si erano perse su di me per ore infinite, rubando un po' del tempo, rubando l'amore.
Tento di sollevarmi dal giaciglio, e non appena riesco a farlo il corpo è percorso dal dolore dell'assenza. Un feroce colpo al centro del petto che mi tramortisce con una scarica infinita di brividi, simili al tremore di un gelo che effettivamente esiste. Si nasconde nelle coperte che abito in solitudine, soffocandomi al loro interno con la speranza che il corpo non ne percepisca la tortura.
In una casa di terracotta non avevamo niente, eppure possedevamo tutto. C'erano mani, occhi, sguardi. Un'unica stanza da condividere con il piccolo ed il terrore di stare per compiere un gesto sbagliato mentre qui, in un luogo pieno di lussi, io non ho niente.
Sono solo, accompagnato dalla sua voce che non mi lascia.
Rivedo il suo volto incorniciato dal rosso Hijab, in contrasto con i suoi occhi marroni e i suoi capelli castano scuri, mentre è intenta a sorridermi, inginocchiata a terra, con un cesto di spezie a fianco, a giocare con il piccolo. Poi giunge a me la visione del tremore delle sue mani, la prima volta che si sono sollevate e, in segno di ringraziamento, mi hanno sfiorato il volto.
Stanotte la sua assenza fa più male del solito. In ogni passo che compio dentro casa la sento vicina. Avverto il suo fantasma passeggiare dietro di me e fissare le pareti, i mobili, che avrebbe tanto voluto vedere secondo quanto ci siamo detti in giornate di noia, durante le quali non restava altro che parlare, per la nostra sicurezza. Nonostante fossero mezze frasi indirizzate alla mia vita, espresse dalla curiosità incontrollabile di una ragazza troppo giovane di cuore e troppo vecchia a causa dei dolori che ha dovuto sopportare.
La luna filtra dalle finestre non appena arrivo in soggiorno, e mi illumina la parte sinistra del corpo quando poso le mani contro il tavolo della cucina, recuperando il fiato. Dietro di me, sento il suo corpo abbracciarmi. Torno a percepirne il calore e la pressione del suo mento, non appena si posa sulla mia schiena per poter fissare, assieme, la mezzaluna presente in cielo.
Quasi la sento sorridere, e in un gesto spontaneo poso il palmo della mia mano sul dorso della sua, intrecciata all'altra all'altezza del mio stomaco, applicando la pressione necessaria per poter trarre conforto.
«Hai freddo?» Mi domanda la sua voce e sorrido dolcemente della sua preoccupazione.
«No, e tu?»
«Non l'ho mai quando ti sento vicino.»
Rimango a fissare la mezza luna mentre, con calma, le sue mani si separano per riuscire ad accarezzarmi, tentando di trasmettermi la stessa calma che ho provato a donarle io. Scivolano in alto verso i pettorali e poi retrocedono per potermi sfiorare la schiena.
Il suo corpo non applica più alcuna pressione sul mio e avverto unicamente il leggero tocco delle sue mani.
«La luna è molto bella stasera, non trovi?» Chiede, ripetendo una frase già detta in passato. Ricordarla mi provoca un dolore ineluttabile. «Ha il colore bianco della tua pelle» prosegue nel citare, sfiorandomi a malapena con le unghie, trasmettendomi brividi. «La hilal, la mezzaluna, il mio astro. Sei tutto questo, Ethan. Sei ciò che c'è più di sacro e di prezioso nella mia terra.»
«Naijya...» sussurro con disperazione, sentendo le lacrime affiorare, ma il suo indice destro si posa sulle mie labbra e mi suggerisce di rimanere in silenzio perché non ha finito di parlare, perché vuole che le creda, perché desidera che io sappia.
«Shh! Non parlare. Sveglierai il piccolo e avrà ancora voglia di giocare.»
«Naijya, ti prego. Ho bisogno di te» confesso disperato, perso dentro un mondo che non mi appartiene, con le gambe che mi cedono.
«Tu non hai bisogno di niente, Lāzwardī, occhi del colore dei lapislazzuli, mio astro. Sono io ad aver bisogno di te. Ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti? Quel giorno, mi hai salvata.»
Il suo tocco segue le sue parole e arriva a sfiorare la parte destra del mio corpo, quella consumata dallo scoppio della mina. Vorrei fuggire dalle sue carezza guaritrici almeno quanto non mi vorrei allontanare, perché fa troppo bene e male. Mi uccide e mi riporta in vita. Mi toglie il fiato, permettendomi di scoprire di essere vivo.
«Hai salvato entrambi, ma non dalla guerra. Ci hai offerto rispetto e dignità. Quello che hai permesso ritornasse indietro... è stata l'umanità.»
Getto all'indietro la testa per avere un contatto con lei e saper resistere alle sue parole, rivedendo dietro le palpebre il ricordo della nostra vita, l'attimo in cui la bomba è scoppiata, passando dalle giornate all'interno dei bazaar per finire su quella maledetta spiaggia con la canna della pistola del comandante premuta contro la sua tempia.
Avverto i suoi piedi sollevarsi sulle punte, e il suo fiato sfiorarmi il collo come il più lento dei baci.
«Ti amo, Lāzwardī. Non dimenticarlo mai.»
Vorrei avere il suo stesso coraggio e risponderle ma la voce mi manca e il cuore è in tachicardia. Inclino unicamente il corpo all'indietro, a chiedere un maggiore contatto con lei ma so essere effimero. So che, tutto questo, è solo una bugia data dalla sua mancanza.
Naijya non è qui. Non è qui, come non lo sono le sue mani.
Il telefono squilla rompendo l'idillio, e all'improvviso avverto il freddo sferrarmi la schiena, proprio dove era appoggiata lei. Tremando, leggo velocemente il numero sconosciuto sullo schermo prima di rispondere.
«Pronto?»
«Ethan Lance?»
«Sono io.»
«Deve venire all'ambasciata. Abbiamo trovato un corpo.»
Non posso fare a meno di pregare. La mia anima supplica pietà mentre cova dentro sé un'emozione di terrore che mi uccide in un terribile presentimento.
Non è come tutte le altre volte. I corridoi sono più cupi e avverto ancora come la sensazione di non stare camminando da solo.
Se è lei che mi segue, prego che se ne vada. Che la sua anima torni nella sabbia del deserto ad abitare nuovamente il suo corpo, perché io e suo figlio abbiamo bisogno di lei più di quanto creda. Deve essere forte ancora una volta per noi, per darci ancora speranza.
Mentivo, Naijya, penso con disperazione, avanzando dietro i passi del soldato che mi precede, non mi manchi, non ti voglio qui. Torna a casa.
Scappa Naijya. Mettiti in salvo.
«Per di qua.»
Il tono gelido della voce dell'uomo non ha niente dell'amicizia che mi univa ai miei vecchi compagni, donandomi conforto e forza. Non conosce la nostra storia, Naijya. Non saprebbe come consolarmi.
«La aspetto fuori. Se ci fossero dei problemi mi chiami, accorrerò subito.»
Annuisco debolmente e il soldato si allontana, lasciandomi nuovamente solo in questa stanza di fronte a una barella con sopra un telo bianco.
C'è un silenzio irreale intorno a me, e non esiste altro che quel corpo steso sul freddo letto di ferro ad attendere che sia io a svegliarlo.
L'ho fatto molte volte. Ho scoperto molti volti supplicando di non trovare mai il suo tra quelli. Avrei voluto smettere di cercare, ad un certo punto. Avrei preferito arrendermi... ma so che Naijya non mi avrebbe rispettato affatto se mi fossi dimenticato di lei.
Devo essere forte, ancora una volta.
Quando la pianta del piede destro si separa dal molliccio attacco con il terreno, il mio corpo avanza e gli occhi notano l'assenza di una seconda barella.
Non c'è nessun altro, solo io e questo tormento ancora celato che mi richiama a sé, in un misto di paura e necessità.
La barella è accostata a una delle pareti, mentre nel fianco opposto sono io a bloccarla con il mio corpo immobile e rigido come il miglior esempio cementizio. Non si solleva nemmeno la mano per scostare il lenzuolo. Solo gli occhi si muovono e analizzano il profilo nudo di quel corpo ancora nascosto.
Prima d'ora non l'ho mai fatto ma adesso non riesco a togliere lo sguardo perché qualcosa lo intrappola. L'ampiezza delle spalle, la lunghezza delle clavicole, il sottile collo, la sporgenza dei seni, la forma dei fianchi.
Questa ragazza è alta, magra ed i suoi riccioli scuri sfuggono alla copertura del lenzuolo, cadendo oltre il bordo della barella in sfumature più chiare.
Tento di inghiottire quel sasso che si è intrappolato nella mia gola e che si disintegra, mescolandosi alla saliva, diventando un grumo di sabbia che mi soffoca.
Alzo la mano e la dirigo verso il suo viso, solo per scivolare lungo il tessuto bianco, percorrendo con una carezza il suo corpo fino ad arrivare ai piedi.
Esito, preso dal timore mentre continuo a pregare, poi afferro quel grezzo e candido manto.
La caviglia viene scoperta con lentezza, rivendo una pelle olivastra, la punta delle dita, le fragili ossa e, all'attacco con il polpaccio, una voglia violastra e informe che riconosco.
Dalla bocca fuoriesce un sussulto incontrollato che si incrina in un gemito mentre il corpo si spezza in avanti e le dita, strette adesso in un pugno, lasciano scivolare lentamente anche dal suo viso il sudario, rivelando il volto di Naijya.
Piango senza controllo mentre tento di afferrarla, cadendo in ginocchio a terra senza poter resistere.
La sua pelle è fredda ma è ancora perfetta come un tempo, se non fosse per un colpo di pallottola inciso in pieno petto, all'altezza del cuore.
Non ho alcun controllo sulle corde vocali. La voce che esce dalle mie labbra non è che un'invocazione alla pietà, la richiesta di una clemenza che non mi raggiunge perché la mia Naijya è qui, ed è morta.
Mi sollevo solo per potermi sedere al suo fianco, e con entrambe le mani, delicatamente, sollevo il suo corpo nudo per premerlo contro. Non dovrei agitarla, non dovrei toccarla così ma non posso farci niente, ho bisogno del suo profumo ancora presente nei capelli. Ho bisogno che la mia Naijya sia contro il mio petto ed ascolti il battito del mio cuore.
La trattengo con una mano dalle scapole mentre l'altra passa sui suoi capelli accarezzandola.
È gelida come una roccia solcata dalle gocce di pioggia. È fredda e immobile come la morte che non accetto l'abbia presa sotto il suo manto, ma è sempre lei.
«Naijya...» gemo, piangendo contro la sua pelle e pregando che possa sentirmi. Che il suo fantasma, alle mie spalle, adesso in silenzio possa vedere come stringo disperatamente il suo corpo.
Mi separo da lei solo per poterla fissare in viso, e la sua testa cade leggermente all'indietro quando perdere il contatto con la mia mano.
Osservo quelle palpebre chiuse con lo stesso sguardo che avevo mentre la fissavo dormire, consapevole che stavolta non potrà tornare indietro.
Non potrà farlo, penso, inclinando la testa per poter posare la fronte contro la sua e chiudere gli occhi. Il suo cuore temerario, che si è dibattuto per la giustizia, è stato trafitto dal piombo, il solo materiale che le avrebbe impedito ancora di volare.
La sento quasi rispondere, nelle mie orecchie, allo stesso modo.
«Lāzwardī...»
Sì, lapislazzuli in arabo, il colore dei miei occhi. Se solo vedesse adesso come piangono non proverebbe tanto fascino, perché io sono il suo astro, tutto ciò a cui tiene, ma non sono stato in grado di proteggerla. Non sono stato capace di salvare dall'orrore della morte il cuore giovane di una donna che ho amato, con tutte le difficoltà che comportava.
E non posso accettare che sia stato questo, forse, a ucciderla. Il nostro amore che ha provocato una reciproca distrazione dai nostri scopi.
Posso solo pregare che si sia battuta per i suoi ideali, e che questo colpo di proiettile abbia saputo tener integra la sua dignità, la sua forte presenza di donna e dentro di me so che è così. Perché Naijya non muore con la morte, non soffoca in una prigione.
Lei trova una via d'uscita ed agisce, torna a volare, e plana nella terra del suo amore, posandogli una mano sulla spalla mentre lui piange sul suo corpo freddo, consolandolo nel fargli capire che nemmeno la morte uccide la vera faccia della vita.
P.O.V.
Caitlin
Non riesco a credere a cosa stia succedendo, ma non impedisco alla matita di scorrere lungo la pagina della mia vecchia agenda. Sto disegnando, apparentemente senza sforzo il volto di una figura che ho impresso nella mente, e che si sta rivelando a poco a poco.
Un simile miracolo deve essere stato sbloccato da un evento, e per quanto non sia manifestato nella grandezza di una tela, nella precisione equilibrata dai colori, quello che sto generando è sempre arte.
Costretto alla solitudine di una pagina minuscola, questo disegno non subisce alcuna pressione data dalla mia insicurezza. Non fa i conti con alcuno standard, non scende a compromessi, e le risposte in merito alla sua genesi mi vengono fornite, per assurdo, solo nel sopraggiungere della conclusione, quando mi accorgo di aver ritratto un viso noto.
Quello di Ethan.
Osservo il mio lavoro con gli occhi di un critico, e mi rendo conto di aver intrappolato nella grafite tutti quei piccoli dettagli analizzati durante la nostra camminata. Le sottili rughe che affiancano i suoi occhi, la larghezza della sua bocca e la piega degli angoli, la curvatura del naso, lo spessore delle sopracciglia, addirittura qualche suo piccolo neo sul viso, l'estensione delle sue ciglia oltre che l'immobilità della pupilla, mentre fissa altrove, sfuggendo da me.
I riccioli biondi, poi, sono curvature perfette nate da una punta affilata che tenta di ritrarre il loro scomposto ordine, equilibrandolo con ombre e punti di luce.
Prima di adesso non mi ero accorta di conoscere così tanti dettagli del suo viso, riportando una verosimile immagine sostitutiva alla sua presenza. Perché Ethan non è nella sede della nostra società come mi aveva promesso, e Reiner e Lexy non hanno idea di dove si trovi.
Forse non era ancora pronto per tornare e, dopo essere giunto fino a me alla piscina comunale, devo essere io, ora, a fare il primo passo verso la sua direzione. Anche solo per ringraziarlo per questa piccola riuscita che mi ha permesso di ottenere, trasmettendomi la sua strana calma e donandomi, nuovamente, un poco di fiducia in me stessa andata persa.
Per questo motivo informo i miei due amici che sto uscendo, senza avvertirli della mia meta. Devo riuscire a parlarci, raggiungere la sua casa e magari potremo riprendere il lavoro della mostra da dove lo abbiamo interrotto, così da concludere tutta la presentazione prima dell'inaugurazione.
Quando arrivo di fronte alla sua porta, però, la sicurezza mi abbandona, e le dita nemmeno si accostano al campanello per lasciarlo destreggiarsi in un richiamo.
Scuoto le spalle dalle scapole, tentando di rilassare i muscoli. Lascio la testa dondolare all'indietro e poi la sollevo di nuovo, fissando dritto davanti a me. Ed ecco che trovo la forza per la mossa successiva.
Il rumore del campanello risulta udibile persino oltre questa porta blindata, per alcuni minuti non vi si somma altro suono. Passano lunghi istanti prima che torni ad udire la marcia dei suoi lenti passi e lo senta aprire il catenaccio.
Raccolgo il fiato che serve per potergli tornare a parlare con tranquillità poco prima che la porta si apra e me lo riveli. Alzo la testa con un sorriso e cado nei suoi occhi, arrossati, gonfi, a tratti quasi lucidi.
Osservo, senza capire, la posa stanca che ha assunto il suo corpo, permettendogli di appoggiarsi con la spalla allo stipite della porta per rimanere a fissarmi, le caviglie incrociate, una mano nella tasca e l'altra a tener ferma la porta.
«Posso passare un altro giorno, se non è un buon momento» sussurro senza fiato, cercando ancora indizi lungo quel volto che ho ritratto e che, eccezione fatta per quegli occhi, non mostra alcuna traccia di pianto.
Quando piango io, invece, la fronte mi si arrossa e mi si creano delle piccole macchioline sulla pelle capaci di andar via solo in un secondo momento, quando il dolore se ne è andato.
«Sei venuta a parlare di lavoro?» Mi chiede, in una frase che sembra essere composta da infiniti spazi. Mi sbagliavo, anche la voce rivela la rottura che hanno causato le sue lacrime, e per quanto ferma sembra nascondere una specie di vibrato, come un indizio posto ad indicare che ancora non è tutto finito.
Non posso andarmene via. Voglio... poter ricambiare ciò che ha fatto per me.
«No» sussurro ed Ethan rimane a fissarmi. A disagio su questo pianerottolo da sola, sottoposta ai suoi occhi, tengo stretta una mano nell'altra pregando che non noti il modo che ho di torturarmi pellicine quando vengo posta di fronte a una difficoltà. Se lo nota, ha pietà di me, e lentamente separa la mano dal portone, spingendolo delicatamente all'indietro per permettere all'uscio di spalancarsi e, così, lasciarmi entrare.
Cammino con le ginocchia molli sottoposta all'analisi dei suo occhi, ed espiro profondamente non appena riesco a superarlo. La porta si chiude alle mie spalle e attendo di vedere verso dove Ethan si sta avviando prima di riuscire a seguirlo.
Di nuovo la cucina, di nuovo la stesse sedie, con la differenza che di fronte ad una delle due, adesso, vi sia presente un bicchiere in cristallo riempito per due dita di un superalcolico.
Sollevo lo sguardo verso di lui che lo evita accuratamente, andando a sedersi di fronte a quell'oggetto incriminante.
Io invece mi accomodo alla stessa postazione dell'ultima volta, rimanendo al suo fianco e aspettando che sia il primo, tra di noi, a parlare.
Non me lo concede fin da subito, cerca le giuste parole prima di riuscire a esprimere l'evento che lo ha ridotto in questo stato.
«È morta, Katrina. Sono andato ieri notte all'ambasciata.»
Capisco subito a chi si stia riferendo, e il cuore precipita in caduta libera.
«Che cosa è stato?» Mormoro piano, senza avere la forza di porgere delle condoglianze.
«Un colpo di pistola, diretto al cuore.»
«Mi dispiace.»
Ethan rigira il bicchiere tra le dita, lasciandogli compiere rotazioni lente contro il legno del tavolo.
«Saranno passati anni... ma lei non era diversa da allora.»
Vedere la sua espressione distrutta mi ricorda il giorno in cui sono rimasta con Michael, al seguito della morte di sua madre, ma a differenza di allora non ho la forza di chiedere a Ethan di esprimersi. Per paura dei ricordi che potrei far rinascere ma anche per il timore di chiedere qualcosa di personale ad un ragazzo appena conosciuto, su un argomento troppo importante.
Posso solo arrivare a sperare che l'invito esteso della mia direzione potesse essere già il segnale di un bisogno che lo possiede: la necessità di esorcizzare vecchi demoni, lasciandoli uscire dalle labbra.
«Sai? L'ho conosciuta proprio il giorno dell'esplosione della bomba a Herat. Stavo provando a mettere in salvo alcuni dei soldati feriti quando l'ho vista, insieme al suo bambino. Si è occupata lei di guarire le ferite, una volta che ero riuscito a metterli in salvo» inizia a raccontare, ed in un attimo vedo l'apocalittica scena di guerra. La bomba che esplode, lo sguardo di una madre e del suo piccolo terrorizzati da quel frastuono.
«Non vivevano in quella città ma ad Herat, erano venuti per il grande mercato, o almeno lo credevo. Ricordo di essere svenuto non appena ero riuscito a superare la soglia della loro casa in terracotta.»
I posti che Ethan mi sta descrivendo li ho vissuti solo attraverso dei documentari che hanno ritratto immagini di sabbia e sporcizia, fragore e povertà. Nemmeno riesco ad immaginarmi gli strumenti che quella donna ha adoperato per riuscire ad estrarre le schegge dal suo corpo, sarebbe stato meglio un ospedale, anche se da campo, ma Ethan non aveva voluto abbandonarli.
«Vivevano da soli. Il marito di Naijya l'aveva lasciata da sola con un figlio, il piccolo Ghaazi. Credo che avesse appena cinque anni quando ci siamo conosciuti e mi sono affezionato prima a lui che a sua madre. Naijya appariva così scostante, aveva paura di me e che fossi uno degli uomini della sua stessa religione, pronto a criticarla per la sua nubiltà. Le donne in grado di cavarsela da sole non sono ben viste in quelle terre, un uomo deve essere sempre occuparsi di loro e preservare il loro candore. Obbligarle a tenere costantemente il velo di fronte ad estranei... E i primi tempi non se lo toglieva mai, sono dovute trascorrere settimane prima che riuscissi a vedere, sotto l'hijab, il suo viso.»
Attendo il proseguimento del suo racconto, troppo affascinata per interromperlo ma la sua voce si arresta e il suo sguardo si perde nel vuoto, ricordando.
«Ed era bella?» Intervengo quindi, vedendo successivamente Ethan sorride in maniera dolce.
«La donna più bella che avessi mai visto.» Sorrido a quelle parole ed Ethan solleva lo sguardo, osservando la mia espressione. «Aveva un colore degli occhi particolarmente scuro», mi racconta, «in tinta con i capelli ricci. Suo figlio le assomigliava molto, e la loro pelle aveva una sfumatura verdastra, in netto contrasto con la mia.»
Mi approprio dei suoi ricordi camminando lungo il sentiero delle sue parole, vivendo le sue emozioni come le stessi provando in prima persona ed è bellissimo la meta verso la quale mi conducono. Un posto pieno di calore e protezione, sicuro da tutto il resto, o almeno così credevo.
«Abbiamo vissuto felici per molto tempo. Tentavo di trattarla con rispetto, non fissandola più del dovuto quando si liberava del velo e scioglieva i capelli. Cercavo di non far trasparire quello che provassi ma era inutile. Mi resi conto di amarla. Ed era sbagliato, perché lei era spostata con un altro, avevano un figlio ed il marito sarebbe potuto tornare. I miei sentimenti avrebbero potuto metterla a disagio, e distruggere tutto la discrezione che ci avevo riservato, nonostante vivessimo in una casa con sole tre stanze: un bagno, una piccola cucina, e il soggiorno nel quale dormivamo tutti insieme, per terra, con delle coperte.»
«Ed anche lei era innamorata di te?»
Ethan beve lentamente un sorso, ascoltando la mia domanda, e quindi abbassa gli occhi non appena il bicchiere torna verso il tavolo, incitandolo a seguirne il declino.
«Era stata molto brava a mascherarmelo ma se solo avessi conosciuto di più le loro usanze, la loro religione, prima che fosse lei a parlarmene, lo avrei capito da solo per tutti quei tabù che aveva infranto. Si era mostrata sotto lo sguardo di un altro uomo, e lo aveva fatto con coraggio, favorita dal distacco che tentavo di far primeggiare.»
«Questa è una bellissima storia d'amore, Ethan» mormoro piano, cercando i suoi occhi affinché la sua attenzione possa essere rivolta a me. Riesco a catturarlo e gli parlo con sincerità. «Non è importante come è finita, l'importante è ciò che siete riusciti a donarvi, non credi?»
Esita nel confermarmelo ma poi annuisce piano, con un'espressione intrappolata negli occhi che sembra volermi ringraziare per le sicurezze che gli sto donando.
Rischiaro la voce per riuscire a proseguire con tutti i miei dubbi, provando a conoscerlo sotto un'ulteriore veste.
«E... il quel gruppo di sovversivi che andavano a favore delle leggi dell'Emirato, di cui mi hai raccontato? Siete riusciti a catturarli?»
«Non ci crederai mai, ma esistevano persone più in gamba di noi. Afgani che già tentavano di andare contro di loro» dice, in un mezzo sorriso divertito che mi spinge, ancora di più, a fare i conti con la curiosità.
«Sul serio?»
«Naijya... faceva parte di questi ultimi.»
Spalanco la bocca e questo lo porta a ridere, ma non posso di certo arrestare il mio stupore per quella sfrontata donna che si libera del velo, dei tabù, e combatte contro tutto ciò che la conquista del suo Stato, da parte di nuove figure, impone.
«Ti giuro che è la verità.»
«Che cosa comportò tutto questo?»
«Questo avrebbe dovuto tenerci dalla stessa parte ma così non fu. Il comandante si era venduto all'emirato, insieme ad una componente di soldati, e quando scopri dell'esistenza di un gruppo che tentava di andare contro i talebani si mosse con tutte le sue forze per riuscire a trovarlo. Attraverso dei controlli venne a sapere che anche il marito di lei spalleggiava simili azioni, e di conseguenza anche lei ma non si erano più sentiti, schierati su fronti divisi. Non sapevo se Naijya lo amasse ancora, ma era innegabile quello che c'era tra di noi. Il comandante giunse fino alla nostra casa di terracotta e ci catturò. Trascinò sulla spiaggia noi e tutto il gruppo di coloro che creavano disordine in città. Puntò la pistola alla tempia di Naijya e credetti, in quell'attimo, che fosse finita per sempre.
Di fronte al mare, con affianco tutti i soldati americani e di fronte quel gruppo di cittadini, che tentavano di avere una loro voce, mi sentii improvvisamente dalla parte del torto. Per la prima volta avvertivo quanto fosse sbagliato essere al fianco di quelle divisi militari, dal lato sbagliato della guerra, e non fui l'unico. Anche altri soldati la pensarono come me, e sulla spiaggia partì l'attacco. Il comandante sparò a me, non a Naijya. Mentre cadevo all'indietro, non vidi altro che i volti dei sovversivi, con le mani legate dietro la schiena, precipitare lungo la sabbia proprio come stavo facendo io, macchiando la resina con il sangue, e il volto di Naijya sopra ogni altra cosa. Ricordo questo, prima che il buio oscurasse tutto e uno dei soldati mi rispedisse all'ospedale e quindi all'ambasciata, obbligandomi di rientrare. Da allora promisi che non avrei smesso di cercarla, e una pallottola l'ha uccisa... ma non è accaduto su quella spiaggia, non di fronte ai miei occhi.»
Ogni cosa, tramite questo racconto, recupera il suo posto all'interno del presente. Il rapporto con il mare e tutto quello che ha impiantato la guerra nel suo corpo, nella sua mente, come un carnefice indesiderato che si fa predatore di ogni tuo positivo pensiero. Ethan aveva perso tutto, di fronte a quel mare. Aveva sentito infrangersi quel rapporto ritenuto tanto stretto, aveva avvertito la frattura dei suoi ideali... forse aveva creduto di morire dinanzi la donna che amava, immaginando l'avesse seguito nel suo tragico destino.
«Non ho mai raccontato a nessuno di questa storia, nemmeno a Reiner e Lexy» sussurra, ma è scontato dirlo perché già me lo ero immaginato.
Di fronte alla sua fragilità non posso che sorridere, e rassicurarlo che le sue parole non usciranno da qui. Allungo timida una mano e poso il mio palmo contro il suo dorso.
La pelle che mi accoglie è fredda, ma non sobbalza a un simile tocco. Solo gli occhi di lui mi cercano, cercando di scavare affondo nei miei, ottenendo delle risposte.
«Non dirò a nessuno ciò che mi hai detto.»
«So che non lo farai» mi dice con calma, cullandomi con un tono di voce che sembra finalmente essersi liberato dalle oppressioni. «Per cosa sei venuta qui?» Domanda, quindi, ed io aggrotto la fronte. «Mi hai detto di non essere passata per lavoro...» mi ricorda, e di istinto allontano la mano iniziando, con le unghie, a percorrere il bordo del tavolo.
«Ho mentito» dico, facendolo sul serio adesso. Ethan mi fissa senza capire ma io non posso parlargliene. Non ho la forza di raccontargli del mio primo tentativo di tornare a disegnare, e non posso confessargli che la causa di una riuscita è stata solo sua. La sicurezza che non ha trasmesso solo a Naijya ma anche a me, quasi come la certezza data da un senso di protezione costante. Mai mi sono sentita tanto libera e intrappolata al tempo stesso. «Vedendo come stavi... ho pensato che avessi bisogno di parlare.»
«Non pensavo tu potessi mentire tanto facilmente» mi prende in giro, dimenticandosi del bicchiere di fronte a sè e osservandomi con degli occhi lucidi, sì, ma di divertimento mentre abbandona le mani all'interno delle tasche dei pantaloni.
Mi stringo nelle spalle, vittima involontaria della sua genuina perfidia.
«E infatti non lo faccio. Semplicemente ometto delle cose» confesso, suscitando un'ulteriore sorriso da parte sua.
«Mi piacerebbe conoscere quelle verità, un giorno.»
«Magari un giorno ti sarà possibile, chissà» gli dico, ma so per certo che sarà così. Non sono in grado di nascondere niente a questi occhi, stranamente, e questo mi sconcerta.
Le sensazioni che provo in sua presenza portano alla luce un'infantile parte di me che avevo dimenticato. Ingenua e maldestra, sì, ma anche completamente sincera come avrei sempre voluto essere.
Forse c'è qualcosa in lui, in noi, che riesce a tirare fuori il meglio dalle nostre anime, ed è bello constatarne la veridicità, vedere che è possibile tornare a sentire qualcosa che ti fa stare bene.
Non lo provavo da tempo e, avendolo dimenticarlo, scopro che il riviverlo è un'emozione tanto forte da privarti del fiato, lasciandoti in un'apnea che fa girare la testa e ti consente di tornare a sentire i battiti del tuo cuore, nella scansione perfetta del loro ritmo.
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