62- La seconda madre
P.O.V.
Michael
Il fiato si spezza a causa della corsa ma il vento sul viso è una benedizione. L'aria di questo posto purifica, e rende accessibile, tutto l'ossigeno che quel salotto di casa intrappola, insinuandolo nelle poltrone e nella stoffa di ogni arredo presente.
Credo di aver usufruito della giornata perfetta ed anche dell'orario perfetto, non che la mia agenda fosse piena di impegni ma è bello constatare quanto la casualità possa essere la scelta migliore.
Nell'avanzare lungo la banchina del litorale nessun turista mi intralcia la strada o mi chiede informazioni, sfavorito anche dalla presenza delle cuffie alle orecchie. Inoltre, il sole riesce a riscaldare tutto ciò che c'è bello in questo luogo, offrendolo alla vista secondo una serie di straordinarie possibilità.
Sono molto vicino a completare il percorso che mi ero imposto per cui mi esorto a resistere ed a lasciar scorrere gli occhi tutto intorno, così da distrarmi.
Il viale di palme si conclude proprio all'incrocio della strada che devo attraversare, e favorito dal verde del semaforo riesco a correre fino al lato opposto della carreggiata mantenendo il ritmo.
Non appena, però, il telefono mi mostra meno di mezzo chilometro al termine della tratta la notifica di una mail mi costringe a fermarmi, per poterla leggere con attenzione.
Viene dalla clinica.
Apro l'allegato inoltrato, scorrendo gli occhi su alcuni valori, e poi torno all'oggetto della mail e alle parole che il dottore ha riservato per il quadro medico di mia moglie, assicurandomi la spedizione di una copia dei risultati anche per posta.
Tutto sembra essersi ristabilito, e la carica virale essere latente, praticamente nulla.
Ciò significa che mia moglie sta guarendo, e bene. Tanto bene da essersi quasi del tutto lasciata alle spalle l'HIV.
Prendo un profondo respiro e fisso di fronte a me la macchina parcheggiata proprio all'ingresso della società, la meta del mio percorso.
Picchietto sullo schermo dello smartphone ragionando su cosa fare, poi mi decido e compongo un messaggio indirizzato al suo numero.
Niente di più semplice di un banale "esci".
Osservo la linea dell'invio divenire verde e il messaggio venire indirizzato al suo telefono.
Oltre i vetri dell'ingresso quasi riesco a vedere le sagome degli addetti che passeggiano da una parte all'altra con frenesia. Non so distinguere Cat da quei volti, ma di sicuro presto sarà di fronte a me.
Mia moglie non mi delude, e nel giro di pochi minuti esce dal portone principale. Mi faccio vicino a lei mentre ancora non sembra vedermi, cercando il mio volto da tutt'altra parte ma eccomi qui, proprio di fronte a lei, nel suo territorio di conquista e con i piedi impiantanti in questo posto che la esalta.
Sgrana gli occhi non appena mi vede, segno che, chiaramente, non riesce ancora a gestire ogni sua emozione ma mi compiaccio nell'aver provocato il suo improvviso interesse, a dispetto di tutto ciò che può capitare in quel luogo assurdo alle sue spalle.
Arrivo di fronte a lei con un respiro finalmente sotto controllo ma con il petto cosparso da gocce di sudore, visibili attraverso lo scollo della canotta oltre che sulle braccia e la fronte.
E Cat non si perde niente di un simile spettacolo. Lascia correre gli occhi lungo tutto il mio torace, soffermandosi sull'amplia visione che le consente di avere questo minuscolo pezzo di stoffa che ho indossato solo per provocarle una reazione simile, e all'improvviso sembra a disagio. Come se non sentisse normale provare quello che prova alla vista di suo marito, nel sole messicano di questo posto rovente.
Sfoggio quello che ho senza vergogna, sottoponendole l'alternativa di ciò a cui rinuncia da giorni, avendo deciso di rimanere in questo ridicolo luogo.
«Ciao... c-cosa ci fai qui?» Domanda senza riuscire a farmi sorridere, nonostante la balbuzie all'interno della frase.
«Non posso venire a trovare mia moglie?» Sibilo, volendo conoscere il motivo per il quale mi è impossibile farlo.
«Certo, sì, ma...»
«Tra quanto stacchi?» Taglio corto, non volendo sentire altre scuse patetiche.
«Tra tre ore e mezza.»
«Ti aspetto a casa» dico, prima di voltarmi e camminare verso il luogo dal quale sono giunto, così da re immettermi nell'incrocio della strada.
Sufficientemente lontano, ed ormai inaccessibile al suo sguardo, mi volto per constatare se mi sta ancora fissando e ringhio leggermente non appena la vedo ferma a fissare il giovane biondo che ha finalmente abbandonato il giubbotto marrone e, in un clima estivo di quaranta gradi, indossa semplicemente una maglia con sopra una giacchetta grigia leggera.
Cammina verso di lei e poi le porge uno dei bicchieri in carta contenenti un caffè d'asporto. Cat gli sorride, e lo accosta alle labbra.
Credo di aver appena trovato la soluzione che le impedirà di andare a lavorare. Devo solo giocarmela bene perché, nonostante tutti questi sorrisi finti, Caitlin mi appartiene e quell'anello al dito lo dimostra chiaramente.
Non può andare da nessuna parte se il suo posto è al mio fianco, ed ormai è certo che, perfino nonostante la sua testardaggine, Cat non voglia abbonarlo.
«E quindi ho cercato di far valere la mia opinione. Capisci? Ho solo tentato un approccio che potesse aprirgli gli occhi, e correggere quello che aveva sbagliato!»
Tento di chiarire la mia posizione, tenendo il telefono premuto contro l'orecchio e chiudendo, con l'altra mano, lo sportello del frigorifero, dopo aver preso una bottiglia piccola d'acqua fredda.
«In fondo, mica esigevo tanto. Doveva esserci solo più emozione, più coinvolgimento del lettore, mi capisci?»
Dall'altra parte della linea Miranda tace, rispondendomi solo dopo lunghi minuti con una semplice frase.
«Cerchi sempre di aiutare tutti, tu.»
Lecco le labbra bagnate dal gelido liquido che ho accostato loro, posando l'estremità della bottiglia contro la bocca in attesa della sua risposta, e navigo nell'insoddisfazione delle parole che ha emesso.
Posando una mano sul tavolo della stanza, mi piego leggermente in avanti in maniera inconscia, quasi tentassi di arrivare più vicino a lei.
«Miranda... quale è il problema?»
Il breve silenzio che ne consegue, per quanto minuscolo, mi getta nello sconforto.
«Niente! Non è niente, Michael, cosa ci dovrebbe essere?»
«Dimmelo tu, sei strana da quando ti ho chiamata» sibilo piano, deciso a colpirla ma non così tanto da ucciderla.
«Avanti, non essere ridicolo, sono solo stanca. Passo le mie giornate nella nostra sala da the eppure il corpo ne sente lo sforzo, come se stessi competendo per un circuito olimpionico di corsa.»
«Sono andato a correre proprio oggi.»
«E ti ha aiutato a scaricare i problemi? Forza, parliamo di questo, non devi preoccuparti di niente.»
Afferro la rientranza della plastica, trascinando la bottiglia lungo il ripiano al passo con il mio avanzare, finché non è che solo la mia mano a sostenerla, avvicinando entrambi al soggiorno.
«Lo facciamo sempre, non ti pare? Credo proprio che dovremo parlare di te.»
Da che ne ho memoria, le ali di Miranda mi hanno ospitato sotto di loro donandomi conforto, e con parole dure, per quanto sincere, la sua voce ha apportato alla mia mente un nuovo modo di vedere le cose, molto meno materialistico.
Eppure, l'approccio e il desiderio di ottenere facili soluzioni non mi hanno mai abbandonato. Mi sorprenderei piuttosto se fosse il contrario, e fossi arrivato a vivere con un piede nella speranza e l'altro affogato nell'ottimismo di un quieto vivere in cui "tutto si risolverà per il meglio, basterà lasciar scorrere il tempo".
«Che cosa vuoi che ti dica? Vuoi sentire gli sproloqui di una vecchia?»
«Non sei tanto vecchia, Miranda. Avrai cinquantacinque anni.»
«Mi approssimo ai sessanta, che ne pensi di questa di correzione?»
Sorrido all'interfono, sentendo leggermente l'orecchio bruciare a causa del tempo trascorso in chiamata.
«La accetto, ma ad ogni modo è il tuo carattere che ti invecchia più del necessario. Un tempo non eri così.»
«Senti chi parla, l'uomo di un'altra epoca.»
«Oggi hai frecce velenose con cui colpirmi» noto sorridendo, non appena prendo posto alla mia poltrona. «Ma ad ogni modo non ti serviranno a niente, so che è tutta una tattica per fuggire dai discorsi, quindi sputa il rospo.»
«D'accordo, allora... mi annoio, ad ogni ora del giorno. Niente suscita il mio interesse e sto naufragando nel cinismo.»
«Questo non è che un punto a tuo favore.»
«Ho una vita a pezzi, senza un briciolo d'amore e senza la speranza di vedere sul viso di un dolce pargoletto qualche caratterista che riporti la mia di faccia.»
Mh, argomento difficile da trattare con me al momento quindi decido di lasciarla semplicemente continuare.
«La persona che si avvicina di più a un figlio per me distanza mille miglia ed ha una nuova vita. Sì, perché ha chiuso per sempre con la vecchia me e non vuole più averci niente a che fare. Tutto quello che gli ho insegnato lo ha tranquillamente buttato nel cesso ed ora si specializza in qualcosa che sì, gli compete, ma non lo appassiona e questo mi fa sentire una fallita su tutte le righe. Vuoi sapere perché? Perché penso che avrei potuto proteggerlo meglio, consigliargli di non andarsene e restare a combattere, così almeno saremo stati in due a quella cavolo di riunione con un giudice e gli avvocati.»
Ricavo giusto qualche minuto per poter elaborare una soluzione che possa aver a che fare con tutti i punti di attacco che mi ha fornito lei.
«Tu non sei una fallita.»
«Avanti, finiscila.»
«No, perché è vero. Il perdente sono io, che non sono rimasto al tuo fianco nonostante tutto ciò che mi hai insegnato.»
«Ti stai maledicendo per qualcosa?»
«Ti ho lasciato da sola ad affrontare i problemi, Miranda.» Dirlo ad alta voce permette di esorcizzare tutti i demoni che mi sento dentro, da quando è iniziato questo scambio di chiamate con lei. «La colpa è mia per quello che è successo. Non ti ho portato onore su quel palco, e Dominc Lane ha condannato entrambi.»
«Ed io vorrei non aver mai chiamato alcun giornalista, per sostenerci alla prima di quella serata.»
«Hai sempre amato rischiare. Il compito era mio, di darti certezze.»
Rivivere gli anni, attraverso queste parole, mi riporta a Los Angeles, nel ristorante di Isaac. Ai tempi della lettura di poesie al termine del turno di lavoro e alle mie prove, di fronte ai suoi occhi stanchi e con la divisa di lavoro addosso, per fargli vedere che valevo qualcosa.
Delle leggere lacrime mi riempiono gli occhi, decidendo poi di cadere per affrontare un declino lungo il mio viso. Se solo Miranda le vedesse riderebbe. Ha sempre provato repulsione per il provare debolezza, proprio come me. Devo controllare la mia voce per impedirle di sentire il pianto.
«Magari un giorno di questi vengo da te, che ne pensi? Torno a far visita alla mia vecchia amica e alla mia città.»
«Non credo che sia una buona idea.»
«Perché? Si tratterebbe solo di una questione di pochi giorni.»
«Non venire, Michael.»
Le sue parole mi mettono in allarme, e milioni di scenari nascono nella mia testa. Dall'inizio delle nostre chiamate ho immaginato la mia seconda madre tranquillamente abbandonata sul sofà del suo soggiorno, a maledire e godersi al tempo stesso l'anticipo della sua pensione ma forse non è così. Forse Miranda mi sta nascondendo tutte le mutazioni che hanno avuto luogo a seguito di tutti questi anni.
Da che ero più giovane, mi salvaguarda da eventi in grado di ferirmi. Mi tappa gli occhi e mi impedisce, da solo, di arrivare dove non dovrei.
«Ricordi la sera del mio primo spettacolo nella tua compagnia?» Le domando, rievocando nella mente di entrambi un ricordo ancora troppo fresco, che coincide con quello che sto pensando. «Uno degli sceneggiatori si era sentito male dietro le quinte. I paramedici lo hanno portato via in una barella.»
Ma a niente era servito, perché l'uomo, a causa di un'aritmia causata dai farmaci, ci aveva già abbandonato.
Quella sera Miranda era alle mie spalle, con la mano posata sulla mia spalla destra in modo da impedirmi di avanzare. Allo stesso tempo, con una simile stretta, mi aveva esortato a voltarmi e andarmene.
Per non parlare del giorno della morte di mia madre. Non aveva potuto fare nulla ma avrei giurato, dalla distanza che divideva il palco dalle sedute, che il suo volto sfoggiasse un'espressione disperata.
«Non ti sto nascondendo niente, Michael. Solo non venire, hai la tua vita» mi dice, ma in qualche modo è come se non la stessi più sentendo.
Avevo pensato che gli anni trascorsi, e la crescita effettiva che mi ha condotto alla maturità, fossero sufficienti a non farle emettere più bugie nei miei riguardi.
Dopo tutto quello che ci siamo detti, ed il modo spropositato con il quale le ho offerto il mio cuore, avrei desiderato ricevere qualcosa in cambio, e sentirmi finalmente dire quali fossero i problemi.
Ma Miranda non può certo cambiare, a causa del blocco mentale alla quale l'ha costretta la maturità dei suoi pensieri, ed i troppi errori fatti.
«Sì, ecco io... Miranda, devo andare. Ti va se ci chiamiamo domani?» Le chiedo, grattandomi il capo preso da una frenesia che scende a patti con la difficoltà di continuare a sostenere le sue parole, e mi arresto solo avvertendo la tardiva recezione della sua risposta.
«Sono sempre qui, Michael, al tuo fianco, non appena lo vorrai.»
Una simile frase mi rimane dentro, ricordandomi il profondo legame che ci unisce, nonostante tutto.
«A domani, Miranda.»
«Buona giornata, Michael.»
Quando la chiamata termina sento nelle orecchie solo un lento bip bip che segna l'interruzione della sua voce. La guancia, accaldata dall'apparecchio, si separa dal vetro dello schermo con lentezza, vittima di uno strano collante composto da molecole di esitazione.
Non so se sia la mossa più giusta da fare, ma senza esitazione apro l'applicazione riportando il conto della banca, nella quale io e Cat abbiamo investito i nostri soldi, e analizzo i numeri precedenti alla virgola.
Ormai si parla di una cospicua somma, rimasta immutata dal poco tempo che abbiamo avuto nell'occuparci di ulteriori spese e di nuovi contratti.
Può essere molto, per due giovani sposi, ma magari per Miranda un semplice aiuto e un risarcimento per tutti quei soldi non ottenuti dalla causa.
Ho solo un modo per scoprire la giusta somma da versare affinché un mio assegno possa essere una boccata di ossigeno, e so chi chiamare. Non lo sento da molto ma forse certi rapporti non si estinguono nemmeno nello scorrere del tempo.
Compongo il suo numero e attendo l'arrivo della voce di Ben, attraverso il vivavoce del telefono.
«Michael!»
«Ciao, Ben.»
«Accidenti, amico, da quanto tempo?»
«Troppo, scusami se non mi sono fatto sentire, ma avrei bisogno di un favore.» E Ben è il solo amico ad essermi rimasto, visto quanto è successo con Jeremy.
«Dimmi, ti ascolto.»
«Può sembrarti strano, visto che è passato molto tempo ma... sai quella denuncia che ha mosso Miranda contro Dominc Lance? Puoi dirmi chi è stato l'avvocato che ha favorito la nostra parte?»
Dall'altra parte del telefono Ben sogghigna, prima di offrirmi la sua risposta. «Questa è veramente una strana domanda, specie perché lo conosci.... è stata Emily, Michael, chi altri?»
Sgrano gli occhi di fronte a una simile informazione, e non riesco a capacitarmene. «Emily è diventata un avvocato?»
«Direi che la sua laurea in giurisprudenza abbia dato i suoi frutti.»
«Ed esercita ancora?»
«Si può dire essere diventata una delle più forti, a Los Angeles.»
Non poteva che essere altrimenti. Sorrido, al ricordo del suo codice civile, sempre posto sotto braccio. «E sai dirmi se ha ancora lo stesso numero?»
«Perché vuoi contattarla?»
«Può sembrarti assurdo, ma ecco io... volevo dare una mano.»
Ben tace per lunghi minuti, per poi offrirmi la sua versione dei fatti. «Michael... la causa è chiusa da anni.»
Lo sguardo si perde nel fissare un punto indefinito all'interno della cucina e, con lentezza, le mani privano la chiamata del vivavoce, sollevando quindi l'apparecchio verso il mio orecchio. Rimango per un attimo in silenzio, rielaborando ciò che mi ha raccontato Miranda con quello che mi sta dicendo il mio vecchio amico, e decido di offrire anche la mia visione dei fatti.
«No... Miranda non avrebbe mai lasciato perdere così, avrebbe sicuramente voluto avere ragione, perfino di fronte a un giudice.»
«Non so se sia io la persona migliore per dirtelo, forse dovresti chiamare Emily per fartelo raccontare...»
«Che cosa dovrebbe raccontarmi? Non mi importa del processo, mi sembra assurdo che Miranda si sia arresa.»
«Miranda è morta in un'incidente stradale, Michael. Tre anni fa.»
Ed ogni cosa del mio mondo, che ruotava intorno a un preciso asse, cade a terra infrangendosi in schegge di vetro, avendo perso per sempre la propria attrattività.
Miranda... morta? No, non è possibile. Io e lei parliamo al telefono da settimane.
Rido, di fronte a questa assurda piega degli eventi.
«Era notte inoltrata, un camion aveva invaso la corsia. L'uomo al volante è risultato positivo a sostanze stupefacenti.»
Scuoto il capo per non voler sentire quello che il mio amico ha a dirmi ma è come se una parte di me lo sapesse da sempre.
"Non venirmi a cercare, Michael."
«Ben, scusami, ma ora devo veramente riagganciare.» Lo dico con un tono di voce rotto, e sentendo di nuovo l'impulso di lasciar scorrere le unghie su qualcosa.
Una piccola scheggia di legno tenta di entrare nella carne di un polpastrello, ma questo non mi ferma dal far proseguire la mano nella sua lotta contro il tavolo, per poter aggrapparsi a qualcosa.
«Non preoccuparti, ci sentiamo presto allora.»
«Sì, a presto» assicuro, ma termino la chiamata prima che possa rispondermi altro.
Scorro lungo le chiamate della rubrica e trovo il nome di Miranda nella maggior parte di essi, intervallato dal nome del mio capo e di qualche altro scrittore dell'editoria.
Con il cuore in tachicardia digito nuovamente sul tasto di chiamata, e una voce meccanica parte.
«Il numero da lei chiamato è inesistente, si prega di riprovare.»
Lo faccio, lascio cadere la linea e la riattivo, udendo dall'altra parte solo la voce registrata di questa donna, e non più quella di mia madre.
A questo punto poso il telefono sul tavolo e scoppio a ridere, di un riso disordinato, caotico e triste, che si somma alle lacrime che già mi cadono dagli occhi. Perché mi sono immaginato tutto e nel sono consapevole, me lo dicono anche i tempi di durata delle varie chiamate che si estendono solo del tempo utile alla voce registrata per potermi comunicare la fine di un qualcosa che ancora non abbandono.
Vedo degli enormi fari, al termine della stanza. Occhi di un camion pesante che ci viene incontro, eppure non smetto di ridere.
L'insonnia è tornata con tutti i difetti che comporta e so bene che queste visioni sono finzioni, adesso. Dei patetici sogni lucidi che mi costringono a uscire fuori di testa ed a ridere, come il peggiore dei malati mentali.
Eppure non posso farci niente. Da dove prende origine il mio turbamento? Questa è una domanda della quale conosco bene la risposta. Nasce tutto da queste lacrime, dalla sensazione che provo non appena il camion passa sopra la testa di me e Miranda lasciandoci schiacciati, a terra, esanimi.
Nessuno ci vede. Nessuno si ferma a soccorrerci e l'odore che sento improvvisamente è il gas delle vecchie centrali della Down Town, la fuliggine nera che mi sporca e mi lascia mimetizzare con l'asfalto.
Non c'è niente di noi che sia visibile, ma di udibile ancora ricorre la nostra risata, con la quale ci facciamo beffa di noi stessi e del nostro destino, provando un malessere patetico per la nostra condizione di costretta invisibilità e mancanza.
Siamo il niente, ancora il niente, che però ha una voce, e grida con tutte le sue forze per poter riprendere in mano il proprio destino che rema loro contro, condannandomi fin dalla nascita.
Rido finché la gola non mi si secca, e la voce di colpo finisce per non uscire lasciandomi vuoto. Quindi termina anche l'ilarità.
Asciugo con il dorso della mano le lacrime e, seduto a questa sedia di cucina, afferro il pacchetto di sigarette accendendomene una, e disperdendomi all'interno di quel grigio, informe, fumo.
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