57- Non possiamo essere amici

"Tu balli e nelle tue movenze sicure
vive l'Oriente e vive la sua vita
lontana, sta in te tutta l'infinita
magia di Giava. Strane architetture

evochi, le pagote i fiori i segni
di una civiltà che ci sconvolge
e ci esalta. La tua danza avvolge
il cuore e i sensi: su essi tu regni!"

                                                                                                                  Poesia dedicata a Mata Hari - Jean Marie Dumont 

P.O.V.
Ethan

Ciò che regna nel cuore è un insieme di frammenti sparsi. Gli anni hanno permesso ad un cardiaco battito di intrappolare ricordi e voci, scene ricche di colori, senza fare alcuna eccezione, catalogandoli in base alla forza data dall'emozione... ma alle volte gli eventi sono così potenti, così ricchi di un'eccitazione irreale, da non poter sopravvivere interamente all'interno del nostro debole involucro umano.

Alle volte è necessario spezzare, interrompere, in un processo di conservazione che possa permetterci di non tornare a soffrire. Le immagini vengono tagliate dal nastro della pellicola. I negativi vengono uniti insieme per permettere una conseguenza raffinata di mosse eppure, nel processo, tentiamo di perdere qualcosa, in modo da resistere.

In certi momenti, però, il carico ritorna tutto addosso.
Basta solo la rievocazione di un piccolo dettaglio, o di un minuscolo gesto, che ti viene offerto dalla vita vera che stai conducendo, per permetterti di ritornare al passato.

Stavolta è stato il colore violaceo e mussulmano di un Hijab.

La donna che lo sfoggia mi passa di fronte senza accorgersi di come, in un attimo, sia riuscita a togliermi il fiato. In una mano tiene il manico di una busta in plastica eppure nella mia mente vi si catalizza un'altra mano nella sua, molto più piccola, infantile e sporca, mentre degli occhi si voltano a fissarmi. Tra un'insieme di polveri e di grida non vedo altri che il suo sguardo, l'immagine della lotta e della vita.

Muovo un passo in direzione della reale donna, intenta nella sua camminata. La seguo, con scattanti movenze, lungo il marciapiede ma poi mi fermo, senza lasciarmi trascinare dall'irrealtà che mi costringeva a proseguire.

Ecco il frammento, all'interno del mio corpo, che viene smosso e si rigira tra la carne come la lama di un pugnale, lasciando scaturire sangue e lacrime. Forse non smetterò mai di piangere.

Sollevo entrambe le mani per poterle passare sugli occhi, rendendo buia la visione e cancellando le rughe salate cadute lungo le guance, finendo per intrappolare tra gli indici la punta del naso. Le falangi si posano, di piatto, contro la bocca e gli occhi sono tornati aperti, capaci di scorgere a distanza la femminile figura che si allontana.

Lascio scorrere i palmi, picchiettando con i polpastrelli contro le labbra mentre inizio a camminare, lentamente, su e giù lungo questo marciapiede per potermi schiarire la mente.

Sollevo gli occhi verso il pallido cielo e provo l'improvviso bisogno di sedermi.

Una panchina affianca l'ingresso della Land Art Society e su di essa mi accomodo, mentre il sole di questo primo mattino colpisce, con i suoi raggi, la mia fronte.

Addosso porto il mio solito giaccone impermeabile e marrone, ed è quasi possibile tornare a vedere, su di esso, le macchie di terra non appena vi concentro lo sguardo, oltre che quella della candeggina erroneamente usata da lei.

Incredibile come certi ricordi non vogliano andare via e come impediamo, ad altri, di scappare.

Prendo un profondo respiro, rimanendo a mani incrociate e gomiti contro le ginocchia delle gambe distanziate. Ho bisogno di alcuni minuti per riflettere, rivendicando una solitudine che mi era stata privata.

Avrei creduto di poter ottenere una nuova vita, ricca di silenzi dentro i quali sarei dovuto riuscire a convivere ma non mi era stata concessa. Ciò può essere segno del fatto che scaturisca da me una maggiore pena di quanto credessi possibile.

Lexie e Reiner non mi hanno permesso di restare solo nemmeno per un attimo, ed hanno fatto a turno per entrare nella mia nuova casa. Un segno d'affetto alquanto ridicolo, avendolo voluto mascherare sotto l'etichetta della coincidenza, ma ho lasciato che conducessero il loro gioco.

Alla fine, l'eccesso della loro presenza era un rischio che avevo incluso, per quanto non sia stato capace di stabilirne la portata.

Allo stesso tempo non voglio e non riesco a mandarli via. Sono stato io a cercare il loro conforto, e l'amore che provano per me è una carezza che non avrei mai immaginato di poter tornare a sentire.

I miei due amici, che non mi abbandonano mai. Che si spingono ben oltre il loro dovere, o ciò che è loro possibile.
Finendo anche dentro delle situazioni che non ci riguardano.

Osservo il traffico che mi è di fronte mentre ripenso a ciò che è successo.

Quando l'ho rivista dentro la sala dei ricevimenti ho ricevuto un colpo in pieno petto. Non mi aspettavo fosse lì, o che tanto meno esistesse sul serio, e invece non era cambiata affatto se si ignoravano i capelli che, da ricci, avevano assunto una piega distesa che ne enfatizzasse il rosso colore.

Ci eravamo scontrati, causalmente, ed avevo ricevuto i suoi chiari occhi addosso.
Avrei voluto, in qualche modo, ringraziare questa strana serie di coincidenze se solo non avessi trovato quel libro dentro la sua borsa.

Adesso, "il trionfo della morte" è tornato al suo legittimo proprietario. Rientrando a casa, ho fissato con disgusto quell'edizione che da tempo mi era stata nemica e che si è fatta consapevole guida di un'insieme di meschini giochi, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Ci siamo rincontrati per caso e niente era stato come avevo immaginato.
Non lo è mai, per la verità.

Katrina è la pupilla di mio zio, la donna che sembra avergli fatto tornare la voglia di vivere, di lavorare e lottare e questo lo so, lo so da tempo, da dopo la sfilata degli angeli.
Non avrei immaginato, però, che la sua presenza mi potesse infastidire.

Stringo le palpebre, a causa dell'insistenza del sole, e dimezzo la visione del mio sguardo mentre la mente rivedere in un loop infinito ciò che il passato mi ha fatto vivere. Nello specifico i volti di quelle due persone che non riescono, o non potranno mai, abbandonare il mio cuore.

Mi sollevo di scatto, data l'irrequietezza della memoria, e mi passo entrambe le mani nei capelli, tirando piccole ciocche. L'immagine di un antico villaggio distrutto dalle bombe si sovrappone all'attimo in cui ho visto al dito di Katrina un anello, all'interno della casa blu, trascinando con sé una catena di ricordi che legano i due eventi, distinti dal tempo.

Devo mettere fine a tutto, ancora prima che inizi.

Supero l'ingresso di questa grande struttura, sviluppata su di un solo piano, ed avanzo in direzione dell'ufficio di Reiner. Dalla mia scrivania afferro la busta bianca e sigillata, che avevo preparato ore fa, e con essa in una mano apro la porta dello studio. Il mio amico è seduto al proprio trono, e quasi non gli dono il tempo di parlare.

«Ti ho preparato queste. Sono le foto per la mostra futura.»

Lancio il mio dono verso la sua postazione, facendo compiere alla carta un volo leggero. Non esita ad aprirlo, e con un taglierino rompe il sigillo adesivo presente al margine, costatando per primo la riuscita pubblicitaria del nostro slogan.

«Ethan... È fantastico, sul serio.» Sorrido, consapevole, e appoggio entrambi i palmi contro il tavolo, sporgendomi in avanti. «Credo proprio che stasera ci sia bisogno di festeggiare.»

Lo immaginavo.

«Reiner?»

«Sì?»

Spalanco con maggiore convinzione il mio sorriso, in modo che non possa aversela a male di niente.

«Forse è meglio se non ci vediamo stasera, che ne pensi?»

Cruccia lo sguardo, in un espressione di perfetta confusione che mi espone con conseguenti parole. «Nessun problema, vengo domani.»

«Ti direi di no almeno per un'altra settimana, Reiner. Ho bisogno di rimanere da solo.»

«Te lo scordi.»

«Apprezzo il tuo tentativo di esserci sempre ma non sono stupido. So che hai una vita, e troppo poco tempo da perdere dietro una persona come me, che consideri un amico in difficoltà. Non credi che se avessi voluto starti costantemente a fianco ti avrei chiesto, direttamente, di dividere casa?»

«Puoi venire a stare da me quando vuoi.»

«Non è questo il punto» commento esausto, e il mio amico si alza dalla sua postazione. Circumnaviga la scrivania e si approssima sempre di più a una nostra vicinanza.

«Invece è proprio questo il punto, Eth. Io non ti lascio da solo, puoi pure gridarmi contro quanto vuoi.»

«Vorrei tu non fossi tanto testardo.»

«Credo di aver preso da te.»

«Non venire a casa mia» lo avverto, «non venire da me per un'altra settimana almeno. Puoi dire lo stesso a Lexy, che quella non sa più starmi a sentire.»

«Menomale. Credevo che essendo una ragazza a lei lo avresti concesso...»

Cerca di sdrammatizzare la situazione con dell'ironia, che bravo.

Ripongo le mani nelle tasche, assumendo una posa più rilassa che tenta di farsi riflesso della sua. Con quello sguardo svampito e quei capelli costantemente arruffati, unica cosa in disordine del suo vestire perfetto, Reiner potrebbe darla a bere a tutti, facendo credere che non gli importi di niente e di nessuno. Ma la verità è che si preoccupa troppo di tutti, e che non esiterebbe a schierare Lexy non appena gli si riveli possibile. Lei, come qualsiasi altra.

«Certo... perché una donna risolve tutto, non è vero?» Domando a bruciapelo, e sa benissimo a cosa mi riferisca. Sorride ed abbassa lo sguardo, vincolandolo alla moquette per fuggire, divertito e imbarazzato, dal mio sguardo.

«Beh, almeno per quanto riguarda quelle libere è certo...»

Già, può ben dirlo. Peccato che non voglia né Lexy né chiunque altra a compatirmi dentro casa mia. Desidero solo vivere una vita normale, bere qualche birra in un locale con il mio migliore amico e passare una serata senza indossare il presentimento che il mio compagno non stia facendo altro che aspettare il mio esaurimento nervoso, per attaccare con una fila di parole.

«Ad ogni modo, era uno schema che funzionava bene al college» continua a commentare sui toni dell'ironia, e decido di seguire la sua leggerezza, non essendo completamente adirato. Il bene che gli voglio supera ogni cosa che possa spingersi a fare.

«Peccato essere cresciuti, da quell'ultima volta» commento, vedendolo quindi annuire, e per un attimo siamo davvero in un locale, birra in mano, a brindare con distaccato sarcasmo a nome di questi anni di vita.

«Dico sul serio, Reiner. Da adesso in poi più distacco» lo minaccio, indirizzandogli un dito contro e questi annuisce stancamente. «Reiner...»

«Ho capito, fotografo-soldato, siamo d'accordo. Vite separate. Ma posso venire da te quando ho bisogno di un aiuto? In termini lavorativi, si intende.»

«Sei tu il capo qua dentro, no? Non posso certo vietartelo.»

«Anche questo è vero.»

«Non abusare della mia pazienza e vedi di andarci piano.»

«D'accordo, come vuoi. Ti chiedo solo una cosa: parla tu con Lexie.»

Sollevo entrambe le sopracciglia d fronte alla sua scaltrezza, e vedo come tenta di non mostrarsi sorridente mentre si riaccomoda dietro lo schermo della sua scrivania.

«D'accordo...» mormoro, afferrando la maniglia della porta e uscendo dalla stanza. Quando la richiudo alle spalle, vengo accolto da un sovrapporsi di voci, appartenenti a tutti questi impiegati dediti al lavoro. Nella mescolanza di suoni e volti, scorgo la mia amica. «Lexie...»

La mia voce risulta a malapena udibile dal punto in cui si trova, opposto in termini spaziali al mio e così sono costretto a raggiungere anche lei mentre è circondata da un gruppo di giovani ragazze, tutte sedute all'enorme postazione in legno completamente occupata dai loro lavori. Lancio a malapena uno sguardo alla loro ilarità, vedendo incastrarsi nella coda dell'occhio la visione di una di loro intenta a struccarsi tra le risate. Il gesto è tanto spontaneo da racchiudere l'umore di questa equipe di professionisti, capitolata da Lexie, e nemmeno il mio ingresso riesce a destabilizzarli.

Ormai sono di fronte alla mia amica che, con uno sguardo leggermente appannato da lacrime di divertimento, mi osserva con leggera sorpresa a causa della mia iniziativa.

«Eth... a cosa devo l'onore?»

«Stai preparando qualcosa di particolare? Hai bisogno di una mano?»

«Mi occupo delle pubbliche relazioni, Eth, lo sai. Almeno che tu non voglia farmi una scultura nell'atrio, che metta finalmente in mostra il mio potenziale, non vedo come tu possa aiutarmi.»

«Ottimo. Vuol dire che non hai motivo di presentarti a casa mia, allora.»

«Come, scusa?»

Con le mani ancora abbandonate nelle tasche, mi rendo conto che è impareggiabile vedere, con la testa leggermente piegata all'indietro, tutti i suoi progetti infrangersi. Lexie è una di quelle ragazze in grado di calcolarsi ogni minuto della vita, e di tenere ben a mente ogni attimo, in modo da non avere sorprese passate e presenti. Un minimo inghippo al suo meccanismo ed ecco che si blocca tutto. Va in cortocircuito. Scommetto che adesso non sa più cosa fare a fine giornata, o come tornare a rioccupare il ruolo di protagonista all'interno della sua vita, e questa è la riuscita migliore che potessi ottenere: far rendere conto ai miei amici che si stanno preoccupando troppo, dimenticando persino loro stessi.

«Io e Reiner abbiamo fatto un patto. Sia tu che lui non metterete piede in casa mia se non per motivi di lavoro. Tornate a vivere di nuovo la vostra routine e scordatevi di me. Ho bisogno di stare da solo e avere la conferma che il mio arrivo non ha intaccato la vita di nessuno.»

«Eth ma noi... sì, ecco... possiamo essere venuti da te qualche volta...» la voce le si assottiglia sempre di più nel pronunciare le sue tremolanti parole, ed io chino in avanti la testa appena, in un mezzo sorriso, mentre sollevo entrambe le sopracciglia come a chiederle "sei sicura?". «Beh, ecco... forse anche più di qualche volta, ma siamo preoccupati per te.»

Finalmente la sincerità che da Reiner non posso aspettarmi. Con Lexie è tutto più facile, sotto ogni aspetto.

«Questo lo so, sul serio, ma è sufficiente, Lexy. Adesso dobbiamo tutti regolarci un po', non credi? Niente fuori dalla nostra routine, tutto come prima.»

Annuisce debolmente ed è proprio a seguito della mia constatazione che una figura femminile oltrepassa l'ingresso.

Katrina sopraggiunge con passo deciso, estraendo dalla borsa il cartellino in modo da poterlo timbrare.

Ora, tutte le parole che ho detto sembrano essere inutili. Improvvisamente mi svuoto di tutto. Dell'allegria e dell'arroganza, del divertimento e della serietà. Tutto scompare, lasciando spazio a un senso di oppressione che mi trafigge a causa di quello che sto per fare.

Eppure è la cosa più giusta, mi dico, arrivando a quest'ultimo stadio del mio percorso itinerante. Devo trovare semplicemente le parole e dirle quello che penso.

Katrina è di spalle, con i capelli lisci e lasciati liberi che le occupano interamente la schiena. Un paio di jeans stretti alle gambe e una camicia celeste chiaro, coperta da un pullover bianco senza maniche. Arrivando fino a lei, mi rendo conto anche della differenza di altezza tra di noi, a causa delle sue scarpe da tennis bianche e alcun rinforzo donato dal tacco. La sua testa arriva al pari delle mie labbra e improvvisamente mi sembra troppo fragile al mio confronto. Almeno finché non si volta.

Cadiamo l'uno nello sguardo dell'altro e trovo una strana certezza, nel suo, che sembra essere mescolata alla rabbia. Non ho idea di cosa le sia successo ma ciò non cambia niente. Le parole che le devo dire sono sempre le stesse.

«Avevi ragione. Noi due non possiamo essere amici. Non cercarmi» perché non mi troverai.

Appena le volto le spalle sento una fitta, quasi una lama, alla schiena, e con un simile dolore in corpo è difficile anche respirare. Tento di non farglielo capire. Le dico sempre così poco mentre nella mia testa si nasconde sempre così tanto, ma non è importane che lo sappia. Ora più che mai non lo deve conoscere. Dobbiamo stare lontani, almeno finché non proverò più questa negazione di fiato e non smetterò di vedere una simile coincidenza del destino come l'offerta di una redenzione, poiché sfortunatamente non esiste più niente da poter riscattare.

P.O.V.
Katrina

Provo di nuovo l'impulso di gridare. Non ho idea di chi si creda di essere, per parlarmi in un simile modo, ma io non ho bisogno di lui. Alla fine, Ethan era il solo che credeva che potessimo essere amici. Io avevo smesso di farlo da quando avevo scoperto chi fosse suo zio perché, per quanto bene possa avermi voluto, mi ha donato anche una serie infinita di complicanze.

Ancora non riesco a credere che quell'uomo gentile, che mi aveva accolta sotto la sua ala e mi aveva offerto parole tanto belle, fosse la stessa persona che aveva distrutto l'uomo che amo. Lo stesso che ieri notte ha vomitato parole tanto amare, che non mi escono dalla testa.

Sono loro che riescono a ferire, non queste, continuo a ripetermi trafiggendo, con lo sguardo, la schiena di Ethan mentre questi se ne va. Non ho perso niente, dal momento che non lo stavo cercando.

Anzi, ho acquisito, in parte. Presentandomi di nuovo in questo posto ho già dato il mio contributo.

Entro nell'ufficio di Reiner, che a malapena solleva lo sguardo.

«Non fate altro che uscire e entrare voi due...» gli sento commentare sottovoce, e non ho idea a cosa si riferisca.

«Ti do fastidio? Vuoi che me ne vada?» Domando mentre è intento a leggere il titolo di un giornale online, dallo schermo del suo ipad, e nemmeno mi rendo conto di starmi già accomodando a una delle sedie.

«No, Kat, accomodati...» Il suo invito rende tutto decisamente più piacevole, per cui non provo imbarazzo nel sedermi con compiutezza di fronte al suo sguardo attento. «Allora... non hai lasciato il lavoro, questo mi fa molto felice.»

«Sono qui per la nostra amicizia, e per il legame lavorativo che abbiamo. Devi rispondermi sinceramente, Reiner. Tu cosa pensi di me? Perché mi hai voluto qui? Sono stata solo un'esca per attirare Dominic sugli affari della società o c'è dell'altro?»

«Secondo te perché ti ho messa a dirigere le mostre museali?»

«Parla chiaro, ho bisogno di sentirtelo dire.»

«Katrina... mi hai mostrato qualcuno dei tuoi dipinti. Mi hai lasciato conoscere il tuo carattere. So che hai stoffa per questo lavoro e vorrei che, per una volta, anche tu potessi crederlo senza bisogno che te lo dicano altri.»

«Non me ne vado per questo motivo. Non mi importa più di Dominic adesso, o di quello che ha fatto. Credo che tu sia sincero, e che non desideri farmi del male.»

«Potrei mai farlo, Katrina? Io ti voglio bene» mi risponde, con uno sguardo tanto tenero da farmi maledire per le parole che ho pronunciato.

Alle volte anche chi ama ferisce, dunque non mi stupirei che stesse mentendo. Eppure, mi auguro con tutto il cuore che non lo faccia. Per una volta voglio essere io sul sentiero della verità.

«Quindi? Rimani?» Domanda a un tratto, infrangendo la tetra mostra di pensieri che il mio cervello aveva fatto nascere.

«Sì, e mi concentrerò sul progetto dell'ambiente che mi hai affidato, però ho due richieste.»

«Dimmi pure.»

«Mi sono accorta di non essere molto presente in casa. Vorrei, se possibile, una riduzione di orario.»

«Katrina... tu stai già più del dovuto qua dentro, alle volte superi le quattro ore fuori il tuo turno di lavoro...»

Il modo in cui lo dice pare conseguente alla visione di qualcosa di orripilante, come se non concepisse il mio bisogno di mettere apposto tutte le pratiche della giornata, limitando i problemi ai turni successivi.

«Non importa, volevo informarti che non rimarrò più tanto a lungo.»

«Questo non è un problema. La seconda cosa?»

Adesso mi avvince il disagio, ma si tratta sempre di un rapporto tra la dipendente e il proprio capo, ed è comunque mio diritto chiedere.

«Posso avere in anticipo il mio assegno?»

Reiner tace per alcuni minuti. Mi fissa dritto negli occhi e poi afferra qualcosa dal primo scompartimento della scrivania.

Sono tre, e rettangolari, lettere bianche, ed io le fisso in confusione.

«Avanti, prendi. Non mi ascolti mai quando te ne ricordo. Hai lasciato indietro tre pagamenti, finalmente ti sei svegliata.»

Le guance mi si colorano di un rosso acceso, ricollegando nella mente i precisi momenti che Reiner rievoca. Potrei definire la sua come una lotta controvento, completamente inutile ai fini di una riuscita. Non gli ho mai dato ascolto, perché non mi è mai interessato.

«Grazie...» mormoro, tendendo la mano ed afferrando le lettere. «A volte so essere così sbadata...»

«Non si tratta di questo, tesoro. Piuttosto, è perché le cose le fai con dedizione e amore, non ti importa di nient'altro.» La sua voce accompagna la carezza che compie la mano contro la carta, in una serie di cerchi concentrici eretti solo al fine di catturare il mio sguardo e di distanziarlo dal suo. «Il fatto che qualcuno ti abbia riportato alla realtà è soddisfacente e inquietante insieme. Ho lottato molto per scendere a patti con il tuo carattere strambo e sognatore, troppo ingenuo a tratti ma piacevole. Spero che chi si è preso il compito di distruggerlo si sia anche reso conto di cosa si è inevitabilmente perso.»

Alzo la testa verso di lui, cercando di governare le lacrime.

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