56- L'amore dentro l'odio
"La gente pensa che dentro sia una persona amara
Volevo solo che i cattivi avessero una chance
Perché il loro oblio ha qualcosa di struggente
Libero dalle catene del giudizio della gente
Libero dalle rime, libero dalle pastiglie
Niente da insegnare, non voglio figli né figlie
Vorrei soltanto essere una sagoma di gesso
Un angelo disegnato al suolo fra i cocci di bottiglie".
Lowlow - Arirang
P.O.V.
Michael
Il sogno si ripete. Il cielo è di un grigio molto pallido. Le statue intorno sono immobili, in un tono di colore più scuro.
Nelle orecchie ho come un suono, una specie di leggero fischio. Sembra essere il rumore del vento, seppure non si muove nemmeno una foglia dagli alberi presenti.
Delle rovine sono collocate tutto intorno, infilzate come cocci di vetro nella terra. Trasmettono una strana malinconia e, al tatto, una sensazione umida e fredda.
Sento un carico enorme sulle spalle e mi stanca, vorrei sedermi, ma quando penso di farlo l'appoggio scompare e i polpastrelli non sfiorano che fili d'erba, sottili come capelli.
Ruoto la testa per poter definire i limiti percettivi di questo posto e cercare una porta che possa essere un'uscita. Scopro che niente del genere è presente, ed il peso sulle spalle raddoppia.
Prendo un profondo respiro per potermi liberare dallo sforzo di trascinare dietro di me un simile masso. Il torace si tende, la bocca forma una O in cerca di ossigeno e niente è sufficiente. Piegato a terra, sento di star affondando ancora di più nel suolo. Le unghie si conficcano nel terriccio, sporcandosi di uno smalto nero, e tramite loro tento di avanzare.
Risulta difficilissimo. Sto strisciando verso la più alta delle statue che ancora non riesco a definire. Sto avanzando mentre la pioggia, incastrata tra i ricci di questo pavimento, mi bagna gli abiti sempre di più, appesantendoli.
E tutto diviene nero. Per alcuni minuti perdo il completo controllo della scena ed è solo quando una luce, circolare, dall'alto mi viene puntata contro che sento il peso sparire completamente dalle spalle. Sono al centro di un cerchio bianco e perfetto, su di un pavimento composto da assi di legno. Di fronte ho il nulla. Al fianco ho il nulla.
A pancia in giù fisso, ormai privo di fiato, quello che sta accadendo con il cuore che batte a una strana tachicardia.
Regna il silenzio per molto, finché dei passi lo spezzano, e appartengono come a dei piedi scalzi.
Di colpo compaiono nella mia visuale, ballerini di una musica che non riesco a sentire. Mi ruotano intorno. Saltano e si muovono con grazia. Un paio di caviglie fini governano le loro mosse, e su una di loro c'è una piccola catena d'oro composta da dei sonagli. La loro musica evoca alla mente un ricordo piacevole, un suono che non mi è ostile e che si somma alla leggerezza che provo.
Mi metto a sedere e non mi perdo niente di quel ballo che, lentamente, viene accompagnato da una serie di altri suoni. La luce illumina parzialmente la femminile gamba, loro padrona, scoprendone la pelle nuda, intervallata a un vestito bianco con drastico taglio al contempo con un sottofondo di dolci risate, rumori di gente, applausi e lo scontro di qualche calice.
Il luogo nel quale siamo è come se avesse un contesto. Come se nel buio, a fianco a noi, ci fossero altre mille persone intente a parlare tra loro, a vivere, a scherzare, a ridere.
Immagazzino tutte queste emozioni e all'improvviso avverto l'impulso di afferrare la caviglia della ballerina per arrestare la sua danza.
Mi sporgo in avanti... ma quando la mano si chiude in un pugno, desideroso cacciatore perso nella brama, quelle gambe scompaiono e la cavigliera viene avvolta nel buio. Non c'è più alcun suono.
Spaesato, sono ancora al centro del raggio luminoso con le mani aperte ai lati e premute contro il suolo, che mi fisso intorno circospetto, attendendo qualcosa.
E improvvisamente questo si mostra. Un volto emerge dall'oscurità e non sono affatto sorpreso della sua presenza, mentre lo fisso a un distanza ravvicinata con un mezzo sorriso.
Miranda è china a terra, al mio stesso pari, e mi sorride con astuzia nel suo rossetto rosso. Il buio la avvolge e non ha corpo, niente che le appartenga se non questo viso ovale e la bellezza della sua astuzia. Di colpo mi sento a casa, come non ero mai stato da tempo, nel silenzio e nel vuoto di questo posto che capisco essere, nonostante l'oscurità del luogo, il nostro teatro.
Vorrei separare le labbra e dire parole in grado di confortarla. Per tutti questi anni non ci siamo sentiti né visti. La nuova vita mi aveva incastrato in altrettanti nuovi pensieri e non vorrei che pensasse che mi sia dimenticato di lei. Ne ho il timore, però, ed è per questo che tento di parlare, scoprendo di non riuscire a emettere alcun suono.
La mano di Miranda si solleva, mi accarezza la guancia. Mi rassicura che è tutto apposto e che le spiegazioni non sono affatto necessarie... ma le voci dei nostri commensali tornano a riempire l'aria e si incastrano nelle orecchie, annullando la nostra certezza.
Riesco ad udire qualche scorcio di frase.
Gli sconosciuti sembrano parlare di me.
Scuoto la testa negando, negando ogni cosa che possano arrivare a dire ma questo non fa che accrescere il tono baritonale della loro voce che si centuplica, soffocandoci.
Il luminoso cerchio bianco a terra si trasforma in una pozza nera e dentro di lei precipito, in un niente privo di suono.
Quando riemergo barcollando, dal sogno, mi alzo di scatto a sedere dentro questo matrimoniale letto, e mi accorgendo di essere privo di fiato.
Il familiare buio, di poco prima, adesso regna sulla mia camera e immagazzina il mio respiro, in un sistema tanto vorace da costringermi ad abbandonare la stanza.
Arrivo nel soggiorno e spalanco le portefinestre che danno sul mare, così da intrappolare l'odore salmastro dell'aria e permettergli di filtrare nei polmoni. Per alcuni minuti sembra farmi bene. Se non fosse per il clima gelido esterno, resterei a fissare senza alcun impedimento il mare ma uno stato di irrequietezza mi raggiunge, e me ne priva di scatto.
Non dormo bene da giorni. L'essere riuscito a superare quel record di cinque ore sarebbe stato un riconoscimento gradito, se solo non si fosse intromesso quell'incubo.
Freneticamente, scavo nelle tasche del giubbotto per estrarre il pacchetto di sigarette. La fiamma dell'accendino allontana, solo per un attimo, le tenebre, consumandosi nell'abrasione della carta.
Poso un gomito contro il vetro ormai richiuso, e la mano sollevata va a intrecciarsi ai capelli, mentre l'altra imprigiona la sigaretta e gli occhi osservano l'inerzia del mare.
Un simile spettacolo, offerto dall'inconscio, potrebbe avere un milione di significati, racchiusi l'un con l'altro come matriosche, ma io so bene cosa abbia voluto comunicarmi. Non è niente di semplice da affrontare ma so che è giunto il momento.
Cullato dal grembo di questa notte, come un bimbo dal seno della madre, afferro il telefono e scorro la rubrica, soffermandomi sul nome che contiene il suo numero per poi avviare la chiamata.
Gli squilli dell'interfono sembrano più lenti del solito, ma per la prima volta il mio cuore non ha fretta.
«Ti sei deciso a chiamare, finalmente.»
Sorrido, nonostante non possa vedermi.
«Ciao, Miranda.»
Il silenzio fa i conti con la nostra ricongiunzione. In parte ostile, in parte piena di calore.
«Come stai?»
Osservo la cenere cadere dal limite della sigaretta fino a terra, prima di andare incontro alla poltrona, sulla quale passo gran parte delle giornate, e lasciare il mozzicone pendere in equilibrio con il posacenere, presente sul bracciolo.
«Mi sarei aspettata una tua chiamata anni fa.» Immaginavo covasse una forma di rimprovero, ma non è niente che non meriti.
«Mi dispiace...»
E all'improvviso è come se riuscissi a vederla nella mia stessa posa, rilassata nel soggiorno della sua casa a L.A.. Forse, anche lei con una delle sue tremende sigarette in una mano ed il contenitore che le ho regalato per ospitarle nell'altra.
«Sto bene, in fin dei conti...»
Il mio capo può avere avuto ragione. Parlare con qualcuno sembra farmi bene, vista la sensazione che provo nel riavere la voce della mia madre acquisita nelle orecchie.
«Ho saputo quello che è successo» tento di dire, con un groppo alla gola che per un attimo mi vieta di continuare. «La causa e la denuncia al tribunale.»
«Dominic Lance ci ha rovinati, Michael. Letteralmente. Ci ha gettati sul lastrico.»
Lo so bene. Nel mio mutismo passo una mano sugli occhi, esercitando pressione sulle palpebre chiuse in una maledizione che Miranda non sembra volermi spedire contro.
«Non riguarda te, Michael. La sua parola ha un valore e l'ha usata troppo impunemente.»
«Sei riuscita ad avere un risarcimento?»
«Il tribunale ci ha concesso la metà di quanto abbiamo richiesto. Questo scontro è destinato a non avere mai fine.»
Sì... lo credo anche io.
«Stai ancora con Katrina?» Mi domanda.
Prendo un profondo respiro, per poter affrontare una questione di simile portata.
«Ci siamo sposati.»
«E non mi hai invitata al matrimonio. Una madre potrebbe sentirsi offesa.»
«Mia madre è sottoterra, Miranda.»
«Sta meglio di tutti noi, allora.»
Picchietto la punta del piede contro il pavimento, in un tic inconscio e lento che accompagna l'abrasione della sigaretta.
«Quindi sei ancora nella causa?»
«Puoi giurarci, va avanti da anni.»
«Magari devi cambiare avvocato.»
«Ti giuro che è competente, magari un giorno te lo faccio conoscere» commenta, con un'ironia che non riesco a cogliere, e mi domando se possa essere possibile che tra lei e il suo avvocato sia nata una storia d'amore.
«D'accordo, allora sono felice per te.»
«Perché hai chiamato, Michael?»
Ora è anche il dito indice a picchiettare contro la carta della sigaretta. Gli occhi invece, secchi di sonno, bruciano di un gonfiore non ostile alla nicotina.
«Credo di aver solo avuto bisogno di parlare con qualcuno.»
«E hai dovuto resuscitare una vecchia conoscenza per farlo?»
«Tu non sei solo questo, Miranda. Sono l'uomo che sono anche grazie a te.»
Adesso sono certo di sentirla sorridere. Non me ne darà la conferma. La conosco, difficilmente assegna meriti.
«Nonostante sia molto arrabbiata con te, per tutti questi anni in cui non ti sei fatto sentire, provo ancora il bisogno di offrirti il mio supporto. Puoi chiamarmi quando vuoi durante il giorno, basta che non ti azzardi più a sollevare la cornetta a quest'ora della notte.»
Lancio uno sguardo all'orologio al mio polso e scoppio a ridere. «Miranda, sono a malapena le dieci.»
«E quindi? Tua moglie non è in casa a quest'ora? Parla con lei.»
No, lei non è qui. Adesso la sigaretta è completamente finita, e con forza premo l'ultimo lascito di fiamma contro il contenitore in vetro circolare.
«Capisco... beh, allora c'è qualcosa che non sta andando, persino nel vostro rapporto perfetto.»
«Esistono delle incomprensioni ma presto le risolveremo, me l'ha promesso.»
Lascerà questo suo lavoro e finalmente tutti i fantasmi saranno scacciati.
«Allora direi che non è niente di grave, no?»
Se solo l'avessi di fronte... in questo momento mi vergognerei.
Mi mordo un labbro, preso da un'immortale rimorso, e la frenesia mi fa pronunciare parole attaccate l'una all'altra, con della verbale colla.
«Devo riattaccare Miranda» le dico, improvvisamente troppo a disagio. «Ho delle cose da fare al momento» mento, fissando però i manoscritti rimasti su un uno dei divani.
«D'accordo, allora...»
È difficile interrompere la sua voce. Vorrei donarle ancora un'infinità di frasi, chiarire la routine della nostra vita, passare ancora ore a parlare. Proprio come facevamo nella nostra sala da the.
«Posso davvero chiamarti quando voglio?» Sono ridicolo, e me ne rendo conto. Sono il bambino che non sa ancora fuggire di casa, dalla famiglia, confortandosi nel calore di un nucleo composto da amore.
«Sì, quando vuoi.»
«Non sei arrabbiata con me?»
«Ognuno ha la propria vita da vivere. Non me la prendo con il destino se ha deciso di ricongiungerci adesso.»
«No, intendevo... non sei arrabbiata con me, da dopo che ho lasciato il teatro?»
«Come ho detto, ognuno ha la propria vita, Michael. Se hai creduto che quella non fosse la tua strada allora ti do fiducia.»
Sono troppo confuso per poter dire cosa possa essere stato bene e cosa male, ma ormai temo che non ci sia modo di correggere gli sbagli, se non tramite queste chiamate d'ossigeno in grado di rimettermi in vita.
«Grazie, Miranda.»
«Buonanotte, piccolo principe.»
«Buonanotte...»
La chiamata termina, e nelle orecchie ho ancora il suono di quel vecchio soprannome. Mi chino in avanti, posando i gomiti sulle ginocchia e le mani sul viso, in attesa del giusto coraggio per poter proseguire.
Quando mi avvio nella direzione della cucina, sento la portiera di una macchina chiudersi, segno che Cat è arrivata a casa. Prendo un bicchiere dalla credenza e lo riempio con l'acqua fredda del rubinetto. Accostandomi il vetro alle labbra, ascolto il suono delle mandate nella toppa ed i suoi passi avanzare dentro casa.
E non appena mi volto la trovo di fronte a me, a fissarmi.
Tra le mani stringe i manici della sua borsa mentre il viso ospita un'espressione stanca, quasi afflitta.
«Io non posso lasciare il mio lavoro, Michael.»
Rimango immobile, con ancora il bicchiere tra le mani e, a violente ondate, le emozioni mi attraversano.
Vorrei lasciarmi stregare dalla debolezza dei suoi occhi, dal modo con cui curva le spalle verso terra e tenta di farsi scivolare addosso la discussione che stiamo per affrontare. Giocherei per delle ore con quelle labbra imbronciate, mordendole fino a farle diventare rosse e simili alla colorazione di un frutto maturo, e potrei persino tornare sul serio a farlo.
Mi basterebbe liberare le mani, in modo da permettere loro di intrecciarsi ai suoi capelli rosso fuoco, ed avanzare i metri che bastano per riaverla vicina.
Potrei semplicemente dire "non importa", ma a cosa servirebbe? E quanto sarebbe vero?
Poso il bicchiere nel lavabo, a fianco a un altro piatto in ceramica bianca, e torno dritto per poter rimanere a fissarla.
Nonostante l'agitazione fornita dalle violente sensazioni, la voce esce piatta.
«Me lo avevi promesso.»
E non dico altro, perché non c'è più niente da aggiungere. Lei mi aveva fatto una promessa, e adesso non mi sta rispettando.
Allontano i fianchi dai mobili della cucina e mi dirigo nuovamente verso la sala. L'espressione di Cat è mutata al seguito delle mie parole, quasi avesse ricevuto uno schiaffo in piena faccia. Il respiro le si è rotto e il petto è piegato in avanti. Con una mano verso il cuore, nel suo gesto inconscio di percepirne la ritmica, enfatizza il punto nel quale l'ho colpita, senza impedirmi di proseguire.
Arrivo fino al divano, accompagnato dalle sue parole.
«Michael, non capisci. Dominic Lance non è solo il tuo nemico ma anche l'uomo che ha promosso la mia sfilata. Che ha creduto in me.»
Non la ascolto più. Tornando ad avvertire, come in sogno, il peso sulle spalle, sono costretto a sedermi sul costoso oggetto di arredamento pagato interamente con il mio stipendio di editor freelance. Niente di cui si sia occupata lei, dunque, perché il suo di lavoro non ci ha introdotto niente di positivamente nuovo all'interno della nostra casa, come della nostra relazione.
«Io... non sono riuscita a credere a una simile coincidenza. Mi sembrava tutto assurdo. Il libro, l'agenda, la dedica, tutto, però...»
Sta dicendo cose senza senso di cui non mi importa. Il mare, di fronte a queste grandi vetrate, all'interno della notte mostra il suo abito composto da un bianco pizzo, la schiuma contro la sabbia, che si solleva e si allontana nel moto ondoso del suo oscillare.
«Capisco quello che provi, ma se solo tu potessi darmi fiducia allora noi...»
Come mai abbiamo scelto proprio una casa sul mare? Alle volte me lo domando.
Sì, il legame di Cat con l'Oceano e con l'Irlanda, certo. La nostra passione per il nuoto, interrotta la sera in cui quel gruppo di idioti si era dileggiato in commenti volgari sulla sua figura mezza nuda, e poi che altro? Credo sia tutto dovuto alla forza che esercita l'acqua nel suo frastuono, mentre lascia infuriare le onde. Nonostante il vetro che ci separa, capisco come quel rumore riesca a coprire tutto.
Parole inutili da dire e suppliche che Cat sembra volermi rivolgere. La fisso con la coda dell'occhio e la vedo con le mani tese, spalancate in avanti in una specie di supplica. Un coinvolgimento che mi chiede di entrare a far parte della sua preghiera ma non ha senso.
Non ha senso la stanchezza che ha dimostrato entrando o la recita che sembra compiere mentre lascia sventolare, come una bandiera, il diritto alla propria indipendenza. Tutto ciò è inutile, ed egoista. Cat sta conducendo una vita che possa gestire da sola e lo sta facendo favorendo il peggiore dei modi.
Ringhio in un sorriso stanco, ricordando quella ridicola sfilata sulla spiaggia di Los Angeles con quegli abiti dorati, ricchi di piume e carta stagnola. La famosa sfilata degli angeli che aveva messo la mia piccola gatta sotto un'universale trafila di riflettori. Altro non era stato che il suo trampolino di lancio e ora lei vuole di nuovo risalire lì sopra, sul piedistallo, camminando sui passi di quel famoso uomo che sembra averle ispirato tanta fiducia?
Dominic Lance che ha creduto in lei, ma non in me.
Mi alzo di scatto dal divano e la fronteggio. Le sue parole si interrompono. Adesso, negli occhi le si manifesta la paura, e in un gesto inconscio sembra arretrare da me.
«Quanto puoi essere stronza per fare una cosa simile? Vuoi dirmelo, Caitlin? Perché non buttare direttamente la fede nello scarico e lasciarla scorrere fino alle fogne? Credo che ci starebbe meglio. Siamo arrivati fino a lì, no? Ci siamo già sporcati.»
Perché sto per lottare nella melma con lei. Sto per afferrare quelle sue deboli braccia, in modo da attirare la sua attenzione e controbattere a tutte quelle parole con le quali mi ha riempito per mezz'ora e delle quali non ho sentito niente.
Afferro, quindi, la carne morbida del suo braccio e sono vagamente cosciente di come le unghie le si stiano infilando all'interno della pelle. Adesso non dice più una mezza parola. Saetta, con i suoi occhi lucidi, da un lato all'altro del mio viso quasi tentasse di supplicarmi, infine.
«Caitlin... non vuoi capire? Non c'è niente di importante, niente. Tranne noi. Ti ho chiesto una semplice cosa. Una semplice cosa, ma tu non mi hai voluto dare retta.»
E vuoi vivere la tua vita, lontano mille miglia dalla mia.
Non posso permettere la sua riuscita dove io ho fallito. Non posso accettare che qualcun altro l'abbia apprezzata, declassando me, Miranda, l'intero teatro a semplici fenomeni da baraccone.
Che cosa è, in fondo, Caitlin? Una semplice bambina che gioca con la tempera dei suoi colori. O meglio, giocava. Risulta non essere più capace nemmeno di fare quei suoi scarabocchi. Cosa può esserci di tanto originale in lei? Cosa può aver attratto tanto un simile uomo di successo come quella belva di Dominic Lance?
Io la amo. Amo il suo cuore buono. Amo l'ingenuità con cui continua a fissarmi, in questo momento, e che so essere sincera... eppure sono anche consapevole che lei non è niente, a livello lavorativo. Una ragazza ancora troppo inesperta che è stata costretta ad un lavoro osceno, e sottopagato, come quello di domestica di un hotel poiché niente, della sua formazione, le ha permesso di vestire abiti più adagiati. Lei non è niente, senza i suoi pennelli. E di essi non può di certo farne un lavoro.
Non si vive d'arte, me lo ha insegnato Dominc. Non si vive di essa, dunque a nessuno deve essere concessa.
«Stammi a sentire bene» mormoro contro il suo viso, cercando dentro le pupille di questi occhi tanto chiari un po' del raziocinio che possa spingerla sul serio ad ascoltarmi. «Quella sfilata è stata un semplice colpo di fortuna. Sei arrivata più in vista, è vero, ma avevi creato unicamente il logo di quella serata e nient'altro di pittorico. Cosa credi che abbia voluto mai premiare Dominic? Le tue doti? Non eravate a una delle tue mostre, non dove ci siamo conosciuti noi. Non davanti a un quadro, a parlare della vera arte. Eravate in una spiaggia, con un centinaio di altre modelle. Hai fatto un buon lavoro solo sotto termini organizzativi, ti sei preoccupata degli abiti e degli invitati, e sei divenuta famosa per questo, oltre che per aver mostrato il tuo bel viso al termine dello spettacolo mentre eri vestita in un abito semicoprente. Non svalutare il potere del tuo corpo. In fondo, sono le foto della serata ad essere diventate tanto famose, no? Semplici immagini.»
A seguito delle mie parole, Cat si ritrae di scatto con una smorfia di dolore. Sulle sue braccia vi è rimasto il segno delle mie mani ma non me ne curo. Raddrizzo la schiena, ergendomi dritto di fronte a lei mentre la mia donna, nonostante la forza che vorrebbe mostrare, si piega sempre di più verso terra come un ramoscello spezzato, e appesantito da una goccia d'acqua.
«Questo è quello che pensi? Che mi sia venduta e che abbia ricevuto il successo per via di questo, a seguito della serata?»
«Eri molto bella, dentro quell'abito.»
«Sai quanto disprezzi un simile commento, per questo ti stai spingendo a farlo. Sei arrabbiato con me e lo capisco. Ma Dominic Lance non lavora alla Land Art Society. Lì dentro ci sono i miei amici, c'è una vita che ho provato a costruirmi credendo di poter suscitare anche la tua stima ma a quanto pare non è così! Metti a paragone quello che faccio con la prostituzione. Mi domando quale stima tu possa avere delle mie capacità.»
Spalanco le braccia, mostrandole tutto ciò che abbiamo intorno, e il suo sguardo segue la distensione delle mie ali, senza riuscire a capire. Mi prendo carico di chiarirle ogni dubbio, in modo che non ne esistano di ulteriori.
«Con il tuo talento sei riuscita a comprare niente di tutto questo?»
Potrebbe farmi un elenco, ma è molto più breve del mio dunque, usando finalmente un po' di intelligenza, non si spinge verso la risposta offerta dalla mia provocazione, o almeno credevo.
«Ho comprato tutto ciò che non è visibile. Ho messo i soldi per le bollette, per le macchine e per ogni tipo di abbonamento che abbiamo fatto, e sai perché? Perché a differenza tua non ho bisogno di mostrare ciò che sono in grado di fare, in modo che tutti possano lodarmi per questo.» Il suo sguardo arde in una combustione rosso fuoco, ma il mio gli tiene testa persino nel proseguimento di questa ridicola frase. «Non ho bisogno che nessuno mi applauda.»
Oh. Ohh! Dunque è così. Ecco che ci siamo giunti. Quale planata in grande stile.
Scoppio a ridere, e nell'isteria il mio corpo, impostato come un modello di granitica statua, si decompone in una patetica risata che lo spinge a piegarsi in sé e voltarsi di un mezzo giro lento, per potersi allontanare anche un solo secondo da quest'immagine avvelenata di lei.
Tento di recuperare fiato ma le risa me lo vietano. Gli occhi, nei loro angoli, hanno intrappolato una lacrima nata non so da quale origine, se dalla tristezza o dalla rabbia ma ad ogni modo non gliela nascondo, tornando a lei.
Osservo la donna che dice tanto di amarmi eppure è tanto egoista da non smettere di pensare a se stessa.
«Vuoi parlare del teatro, Katrina? Sai che c'è una causa in corso che coinvolge Dominic e Miranda? Eppure te ne ho parlato.»
Rabbiosamente, i suoi denti afferrano il labbro inferiore per vietarle di pronunciare parole avventate che, però, sarei benissimo in grado di gestire. Non resiste per molto. D'improvviso si scaglia su di me verbalmente, nonostante aggiunga il colpo di entrambi i suoi palmi contro i miei pettorali.
«La colpa non è mia!» Urla, mentre il mare infuria.
La sua spinta mi ha lasciato retrocedere di mezzo passo e non è niente di ciò che Cat si aspettava. Mi chino verso di lei, per poter controbattere con la sua coscienza.
«Perché tu sei priva di ogni macchia, non è vero?» Sollevo una mano per poterle sfiorare la guancia, e Cat si ritrae di scatto. Sollevo entrambe le sopracciglia. Quindi riprovo, aggiungendo anche l'altra mano. Si dimena, tentando di resistere a un tocco che non gradisce mentre io tento così tanto, mettendo alla prova l'impulso di costringerla ad avermi più vicino, in modo che percepisca tutto di me. Il modo in cui la amo. In cui la controllo, spingendola verso la ragione. In cui la prego di tornare la ragazza che sapeva darmi ascolto e che si fidava di me, più di chiunque altro.
«Tu non menti, non è vero? Non intrappoli nel tuo bisogno sconfinato di amore eterno. Vero, Cat? Non mi hai detto niente per quattro lunghi anni del tuo lavoro, e perché? Perché sapevi che l'avrei sminuito, non è così? Perché ti sei resa conto che fare quello che fai non è niente di tanto eccezionale, eppure ci tieni perché significherebbe avere qualcosa di tuo. Non dici mezze frasi, non catturi facendo innamorare un uomo di te per poi dirgli, la notte che state per fare sesso, che hai una malattia venerea che ti ha dato tanta insicurezza, vero?»
Il mio tocco è arrivato alla sua guancia, ed è tenero mentre la accarezza nonostante le mie parole siano dure, facendole provare il fastidioso connubio che si vive nel gestire amore ed odio insieme. Proprio a Roma gliel'ho detto, che per me l'amore e l'odio sono la stessa cosa. Avrebbe dovuto arrivarci.
Questo modo che abbiamo di farci a pezzi con segreti, bugie e false speranze è dolore, sì, ma anche una passione eterna che non potrà mai arrivare a spengersi.
Credevo che saremo stati designati a un destino di polveri, di sola cenere, vista l'abrasione che ci aveva riarsi agli inizi del nostro amore, eppure quanto è incredibile? Ancora bruciamo, mentre sfrigoliamo frasi in grado di produrre scintille e di condannarci al ceppo di un camino bollente, che ci vuole vedere per sempre uniti.
«Tu, Caitlin, sei troppo debole in tutto quello che fai. Nei traguardi che decidi di portare avanti come tue battaglie personali e nella dimostrazione dei tuoi valori professionali. Niente, di tutto ciò che finora ti sei spinta a voler fare, può essere considerato un lavoro, te ne rendi conto? L'arte non sfama. L'arte non è niente, in confronto alla razionalità della vita e chi ti dice il contrario è uno sciocco, o non vuole il meglio per te. Ed io lo voglio, Cat, io ti amo. Voglio farti capire che sbagli. Sbagli, amore mio.»
La carezza diviene ancora più dolce contro la sua pelle, mentre risoluta freme per poter contagiare, tramite il suo tocco, anche il cuore di lei, al momento visibilmente distante.
«Sbagli a fidarti di tutti. A fidarti di un uomo che nemmeno conosci. Quanto tempo avete passato insieme, tu e lui? Non hai visto con quanto poco può demolire un'altra persona? Non c'è alcuna logica nella sua selezione, solo una momentanea emozione. E temo che possa essere stata quella della lussuria, a guidarlo, quando di fronte gli si è presentata una bella donna con fantastiche idee per la sfilata. Cos'altro può essere stato? Cat... non ha visto nient'altro. Non ha conosciuto, di te, nient'altro.»
Il concetto è talmente tanto facile da essere banale, eppure la mia piccola ancora si ostina a non volerlo capire.
Con uno scatto si tira indietro, e vedo a chiare lettere il dolore che le ha provocato un simile strappo. Dovrebbe almeno rendersi illeggibile, per sopravvivere ai malesseri della vita. Così non può farcela. Così tanto esposta a tutto quello che le avviene intorno, così a cuore aperto.
Come crede di poter preservare una simile ingenuità? È mio compito distruggerla, per poter far comprendere a quella bambina che adesso freme, di fronte a me, che niente viene di buono da questo mondo che ci ha sputati dal suo centro. Niente offre un favore che non ne richieda un beneficio ed è brutto essere amari, cinici e brutali, ma accade quando si è vissuti dentro qualcosa di troppo vero, che ci ha obbligati a crescere.
«Se consideri niente ciò che faccio...» Persino la voce le trema, e questo non mi spinge che a sorridere, anche se in modo stanco. «... Allora perché mi vieti di farlo?»
Ed è proprio da lei inchiodare il mio sproloquio lunghissimo con una domanda, credendo di potermi incastrare.
Confida veramente nelle sue capacità la mia patetica, eppure dolce, piccola gatta.
«Cat... è perché voglio aprirti gli occhi, non capisci? Non ti porterà a niente tutto questo. Dominic sta solo studiando un modo per farci litigare. In alternativa, è tanto assurdo da farsi guidare dalle ipotesi di un solo momento.»
«Perché non credi in me?»
«Io lo faccio» dico ridendo, e la sua bocca si storce.
«No, non è vero. Non hai sentito niente di quello che ti ho detto entrando, non hai voluto sentire. Credi di avere ragione, credi di potermi chiedere di rinunciare a tutto ma non è così.»
«Caitlin... come non è così? Non è questo il matrimonio? Un sacrificio?»
«E tu quando ti sei sacrificato per me?»
«Credi che non l'abbia fatto?»
Vivo eternamente in un salasso di rinunce per poterle darle la vita che merita, o che mi aspetto di donarle. Questo perché ho accettato ciò che può essere chiesto in un rapporto, ciò che bisogna fare per potersi incastrare a vicenda.
«No... no, non voglio niente di materiale. Non voglio niente di niente.»
I suoi piedi continuano ad arretrare ma stavolta il suo viso rimane teso in direzione del mio.
«Non rinuncerò a quel lavoro, Michael. Questo è quanto.»
Quasi non riesco a credere che lo stia dicendo con una simile risoluzione. La bocca mi si spalanca appena eppure lei, che sembra non voler sentire altre mie parole, non cede.
Eppure era una cosa così semplice, avrebbe benissimo potuto recarsi da qualsiasi altro posto che si affiancasse alla parola "arte" e credere così di tornarne a fare parte. Ma no, Caitlin è testarda. Improvvisamente cocciuta, nonostante sia ferita, e lo scontro con questa difesa mi lascia privo di fiato.
Mai avrei creduto un simile risvolto, mai, e mi domando cosa le abbia dato una simile forza.
«Credi davvero a ciò che hai detto, o era guidato solo dalla tua rabbia?»
Potrei continuare a esprimermi, ma di colpo mi rendo conto come l'assurdo sconvolgimento che provo abbia paralizzato ogni mia parola, impedendomi di continuare. Sono ancora fermo di fronte al suo rifiuto mentre lei marcia, all'indietro, lungo il percorso delle nostre parole, tentando di annullarle le orme.
«Credi davvero che quelle fotografie fossero solo immagini? Che Dominic mi abbia visto solo come donna, e non come artista?»
Sì, potrei confermarglielo, ma è tutto inutile perché mi accorgo, improvvisamente, di non averne voglia. Quello che desidererei sarebbe spaccare tutti i mobili presenti nella stanza e fare un gran baccano, solo al fine di vederla tremare e allo scopo di rimetterla al proprio posto. In quell'angolo dal quale mi continuava ad ascoltare e ubbidire. Davvero non riesco a credere che siamo arrivati a tanto. Odio e amore. Odio e amore. Odio e amore.
Quanto uno macchia l'altro? Quale distruzione avviene quando, tra di loro, viene rovesciata anche una piccola goccia di un sentimento che ancora non riesco ad individuare, e che macchia la limpida pelle della loro consistenza, trasformandola in una crosta?
Stiamo vivendo una situazione paradossale, al limite del ridicolo, dunque è ovvio che altre parole non servono. Il silenzio tornerà tra noi, come un mio vecchio alleato, e posso solo sperare che dentro il suo oscuro abbraccio lei possa ricredersi.
Ciò che desidero le appartiene, riguarda solo lei. E con esso se ne va quando, d'un tratto, mi volta le spalle uscendo dalla stanza e scappando da me, lasciandomi solo ad agonizzare.
Volto la testa verso la finestra, osservando attraverso di essa la rabbia del mare.
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