48- La sua schiena

P.O.V.
Caitlin

Il mare è ancora agitato mentre camminiamo fianco a fianco lungo questo molo, ed è l'unico rumore che si aggrega alla nostra passeggiata poiché le nostre bocche, sature dei discorsi ai quali hanno dato vita, sono sigillate come antiche tombe, e non rilasciano nell'aria che il nostro respiro grigio fumo.

Evie ha la testa bassa, si sta fissando la punta delle scarpe mentre queste percorrono un nuovo tracciato pavimentato, che ci sta avvicinando sempre di più all'hotel in cui lavoro.

«Nel caso decidessi di incontrarlo...» parto con il dire, senza riuscire a farle sollevare il volto. «... nel caso accettassi di vedere Sebastiaen, che cosa dovrei aspettarmi? Sì, insomma, voglio dire... come si è conclusa la loro storia? Sebastiaen mi odia? Ha già un prontuario di frasi velenose?»

«L'unica cosa che devi mettere da parte è la gelosia, Katrina. E la rabbia. Capisco che tu la possa provare, insieme all'invidia visto l'uomo del quale stiamo parlando, ma non porterà a niente. Sei già stata in grado di valutarlo da sola, nell'ufficio di Reiner. Devi farti forza e sentire quello che ha da dirti.»

«Non volevo comportarmi così. Non è da me, me ne vergogno.»

«Perché? Arrabbiarsi è umano. Mostrare i propri sentimenti lo è. Sei vittima di troppi vincoli, pulcino.»

«Io...»

Sì, ci provo a parlare, ma a un tratto mi arresto. Tento di guadagnare l'ossigeno per proseguire.

«Avrei voluto mostrarmi superiore, ecco tutto. Volevo che rimanesse impressionato da me e capisse con chi si era trovato da avere a che fare.»

«Volevi rimanere glaciale.»

«È così.»

«Non sarebbe stato umano.»

«Ma mi avrebbe protetta.»

«E credi davvero che sia quello che serve? No. No, Katrina, la forza è reagire. E se può farti felice... non posso dire che Sebastien non sia rimasto impressionato.»

«Gli hai parlato?»

«L'ho fatto.»

«E cosa ti ha detto di me?»

Un uomo ci passa accanto, tenendo sotto braccio un giornale piegato, e avanza nel suo cappotto e nell'aspetto londinese che lo estranea da questa località marittima, facendomi illudere di star vivendo in un altro luogo.

«In un primo momento era molto arrabbiato. Avrebbe voluto chiarire tutto con te quella sera stessa ma non gli hai dato modo. Per la vita che ha avuto... si può dire che odi tutti coloro che gli proibiscono di parlare. Tu non ti sei certo rivelata migliore, lo ha spinto a reagire. E questo è un fatto più unico che raro, dal momento che è un tipo particolarmente calmo.»

«Non mi era sembrato, mi ha tenuto testa.»

«È così, fidati. Solo, con il tempo, è diventato particolarmente bravo a rispondere, ecco tutto. Ma devi rispettarlo e permettergli di dire quello che deve dire. Lui farà lo stesso con te. Tende sempre a ricambiare il favore.»

Non lascio trapelare nessun'altra richiesta o domanda. Lascio che sia l'ingresso dell'hotel a parlare per noi e a mostrarsi conclusione di un discorso che non sono più in grado di sopportare.

Evie si arresta solo un attimo, di fronte alle scorrevoli porte in vetro, per tirare fuori uno specchietto dalla borsa e aggiustarsi la linea sbavata di trucco, alle labbra. Resto immobile a fissare la precisione del rossetto nel percorrerle le labbra piene che si erano rovinate, appena, dalla tensione esercitata dai denti, mentre eravamo sedute alla nostra panchina.

«Devo recuperare il registratore dalla mia stanza e il taccuino degli appunti» mi informa, chiudendo con uno scatto secco lo specchietto tra indice e pollice. «Dopo tornerò a prendere le valige, e partirò, assieme a mio marito.»

«Evie...»

Forse è il tono della mia voce. Forse il sentirmi pronunciare il nome con la quale l'ho conosciuta. Forse qualcos'altro ma Evie solleva la testa nella mia direzione, e rimane in ascolto della mia preghiera.

Non esiste altro a rievocarla, però. Solo questo lamento che non ha origine né fine.

«Questo è il mio numero di telefono.» Le stesse dita che avevano sorretto lo specchietto adesso mi tendono un cartoncino bianco dalla carta ruvida, tanto affilata da ferire. «Puoi chiamarmi ogni volta che vorrai. Ti ascolterò, sempre.»

Leggo i numeri e le parole scritte nero su bianco in questo rettangolo sette per tre, senza avere la forza di vederla avviarsi verso la hall. Si arresta dopo pochi passi.

«Ah, un'ultima cosa.»

Questa specie di richiesta mi permette di sollevare gli occhi e fissarla, a pochi metri da quel perfido passaggio.

«Se Reiner ha visto qualcosa, in te, dovresti ascoltarlo. È un uomo particolarmente astuto e bravo, nel ricercare talenti. Dovresti dargli una possibilità. Darla a te stessa, indipendentemente da ciò che comporta. Pensaci, e poi decidi secondo quello che ritieni più giusto.»

Le sue ultime parole, eccole qui. Con poche mosse, permette alle porte di spalancarsi come cancelli al suo passaggio e la sua andatura è veloce almeno il doppio rispetto alla mia, particolarmente lenta, esanime, anche se termina dopo troppo poco.

Qualcosa le ha vietato di proseguire, e giungendo poco dopo alle sue spalle scopro di cosa si tratta. E il fiato mi si spezza.

Michael è in piedi con una ragazzina di fronte, le sue mani posate sulle spalle di lei, un sorriso perfetto in viso e una luce negli occhi che mi rivela... che stesse aspettando solo il mio arrivo, forse da un considerevole lasso di tempo.

Non riesco a esprimere cosa una visione simile mi provoca, specie avendo compreso chi sia la piccola bambina presente tra le sue gambe divaricate, ma se il mio cuore rallenta pare di sentire quello di Evie terminare di battere. È immobile come una statua, al mio fianco, non emette un singolo respiro mentre continua a fissare prima lui e poi lei, in un loop infinito. Rivede nella piccola il volto dei suoi vecchi amici? Tutti riuniti in un luogo solo. Michael, Stephany, Logan. Da qualche parte di questa località turistica anche Sebastiaen e davvero, non manca nessuno.

«Ciao.»

La voce del mio ragazzo. Non la sentivo da tempo piegarsi a questa dolcezza, ma tutto trasuda amore. Dai suoi occhi, passando per il suo sorriso fino a raggiungere la particolare attenzione che rivolge alla piccola, condotta qui solo al fine di conoscermi.

Consapevole di questo, infatti, la miniatura di Stephany sporge indietro la testa, per fissare negli occhi la mastodontica figura presente alle sue spalle e questa annuisce, rispondendo alla sua tacita domanda che deve vedermi protagonista. Una di quelle che non si scritturano per un ruolo ma finiscono, inevitabilmente, ad essere intrappolate al loro personaggio.

«È tanto bella, assomiglia a una principessa» esordisce con un'aria sognante, passando l'attenzione dai miei capelli alle mie scarpe, non risparmiando nessun anfratto del mio corpo. Mi sembra di rivedere, tramite lei, lo sguardo di Stephany e per alcuni secondi mi dimentico di aver provato affetto per questa creatura, dentro un pomeriggio intitolato dalle mie paure. Lo stomaco si serra e il fastidio si fa visibile, ma lo schiaffo lo ricevo solo poco dopo, nel suo incedere di domande. «Lei invece chi è, Michael?»

Il dito teso della piccola indica Evie, paralizzata in maniera quasi innaturale con una mano stretta alla borsa e gli occhi spalancati. Accorro verso Michael e la sua accompagnatrice, per evitare l'insorgere di un'ulteriore domanda.

«Ciao, tu devi essere la figlia di Stephany!»

Sulla faccia ho dipinto un sorriso mentre, in ginocchio di fronte alla chiamata in causa, le prendo tra le mie la mano che aveva teso per poter recuperare la sua attenzione, e averne il pieno possesso.

«Sì, sono Grace.»

«Io mi chiamo Katrina, molto piacere.»

«E sei la ragazza di Michael?»

Proprio come aveva fatto poco fa lei, adesso è mio il compito di portare indietro la testa e fissare l'uomo che ancora mi sorride, tanto dolcemente da essere una carezza al cuore. Non riesco ad allontanarmi da quella curva gentile e, con lei nell'anima, sono portata a rispondere.

«Sì, stiamo insieme.»

Perché un amore così non è facile da dimenticare. Non si può dimenticare. In un attimo la mentre viene percorsa dalle immagini di noi a Roma, alle cascate delle Marmoree. In mille altri posti dove eravamo un solo cuore, un solo corpo. Non potrà esserci nient'altro. Non esiste nient'altro... che non sia Michael.

«Che bello! Mio papà assomiglia a Michael, è alto proprio come lui, ma tu sei diversa dalla mamma.»

Tento di non prestare attenzione alla scelta con la quale Stephany abbia preso marito e mi concentro sul mio ragazzo, quello che vive nel presente.

«Come mai vi trovate qui?»

«Abbiamo deciso di fare un salto. Tra poco devo andare a lavoro e Stephany non è ancora tornata. Mi chiedevo se potessi badare tu alla piccola, mentre io sono via.»

Certamente, sarà facile. Badare a una piccola peste mentre sono costretta a rifare letti e occuparmi del menù della cena, ma cosa posso farci? Le ha promesso che se ne sarebbe occupato, ed i problemi li dobbiamo trascinare insieme, sulle spalle.

Prendo un profondo respiro, fissando occhi negli occhi la bambina.

P.O.V.
Michael

Lo vedo, è indecisa. Non avrebbe voluto prendersene carico e quest'odio, so per certo, non essere rivolto a questa giovane bambolina di porcellana, da collezione, quanto alla madre contro la quale si è scontrata da sempre. Cat è gelosa di lei da quando si sono conosciute e non gliene faccio certo un torto, visto che avverto ancora il sentimento di Stephany vivo come un tempo, nonostante tenti di nasconderlo.

Eppure dovrebbe capire che non è affatto un pericolo.

Per me esiste solo lei. C'è solo Caitlin nella mia vita. Nel mio cuore, in tutti i pensieri che la ospitano, nei miei sogni sul futuro e in ogni frangente. Non ho amato mai nessuno come amo lei, perché non c'è mai stato nessuno che mi capisse tanto. Che vivesse come me in una lotta continua tra amore e dolore. Tra disprezzo, rabbia e desiderio, alternandolo però alla pace. La pace... che abbiamo vissuto in eterni momenti trascorsi insieme, felici. Quei ricordi che farebbero arrossire una vergine per la loro macabra lussuria. Eppure la vita è tutto questo, l'amore è tutto questo, e non c'è altro modo in cui voglio viverlo se non dando il massimo. Se non amando così, senza riserve, il cuore puro di una donna che accetta, suo malgrado, di cedere a una richiesta che le è ostile, solo perché sono stato io ad avanzarla. Non ha idea di cosa potrei fare per lei. Basterebbe che lasciasse scivolare un desiderio da quelle sue morbide labbra ed io lo esaudirei, senza pensarci due volte.

«D'accordo, vedremo cosa fare insieme. Allora, Grace, ti piace il nascondino?»

Perdo la risposta di lei non appena mi concentro sulle clavicole nude che lascia intravedere l'apertura del cappotto della mia Cat, rivelando il pallore della sua pelle. I riccioli sciolti e rossi le sfiorano appena, nella scalatura sul davanti, la giugulare, e per un istante sogno di posare la bocca proprio in quel punto, lasciandovi un lento bacio. Poi l'attenzione risale, e arriva a percorrerle il viso, soffermandosi sulle labbra. Scivolandole lungo la mandibola, per poi risalire verso la tempia.

Intenta ancora a parlare alla piccola non si accorge del mio sguardo. Sono altre paia di occhi a farlo, osservandomi con un disgusto che si mescola alla paura provata, nel rivedermi qui.

Odo appena Cat suggerire a Grace di seguirla al piano di sopra. Il loro addio si fa reale solo quando la mia ragazza si soleva in piedi, ergendosi di fronte a me e vietandomi la visione di qualsiasi altro.

«Noi ora andiamo di sopra. Vuoi accompagnarci?»

«Temo di dover andare. Si è già fatto tardi.»

Ed è la verità visto che mi sono trovata ad aspettarla per molto tempo. Forse, però, è stata trattenuta dalla sua gita in trasferta quindi non posso certo intervenire in proposito.

«D'accordo, allora. Ci vediamo a casa.»

Quale bel modo di dire "arrivederci". Sì, sì, ci vedremo a casa perché è il luogo che abbiamo costruito insieme, con il nostro sudore. Il solo spazio che contiene tutta la famiglia che mi è rimasta.

«Sì, ci vediamo a casa.»

Mi chino quanto basta a incontrare le sue labbra e le bacio, ad occhi chiusi, assaporando il gusto che ospitano. Nonostante la timidezza iniziale, Cat è portata a rispondermi e le nostre lingue si incontrano, con uno strano pudore che però non vieta alla bambina di dire la sua particolare opinione con una smorfia.

«Bleh!» Ci rimprovera, costringendoci ad allontanarci con un mezzo sorriso. Le guancie di Cat sono appena rosate, colpevoli dell'avventatezza dimostrata ma passa un attimo prima che possano ri acquisire il loro colorito e dettare, con il loro pallore, la serietà raggiunta. Starà pensando che probabilmente Logan e Stephany non si baciano. Forse non davanti alla piccola, forse nemmeno nella loro camera da letto. Non mi rendo partecipe dei suoi pensieri e la lascio torturarsi, perché un po' mi diverte e perché le permetterebbe di capire che, nonostante il rischio, non torno da nessuna che non sia lei.

«Avanti, ci vediamo più tardi. Non perderla di vista» mi raccomando, vedendo Cat annuire e poi tendere la mano a Grace che, senza esitazioni, la afferra e la esorta a camminare verso gli ascensori.

Io, invece, devo raggiungere ben altra meta.

Con passo sicuro mi dirigo verso l'uscita, seguendo la figura che in un attimo mi aveva voltato le spalle per poter fuggire via e andarsene ma è inutile che lo faccia, perché ormai non serve più a niente.

Afferro la maniglia della porta in vetro, affiancata dalle uscite scorrevoli, e tiro a me l'infisso per poter permettergli di proseguire. O meglio, lasciandogli modo di farlo, nonostante mi chini verso di lui e sussurri, in una piccola frase:

«Prego, prima le signore.»

Lo vedo rabbrividire. Il suo volto mi è celato ma non la reazione del suo corpo, specie non appena scappa via, distanziandosi da me.

Sorrido, vedendo il suo cappotto muoversi ad ogni metro che guadagna con i capelli che gli oscillano e il vento che rema loro contro.

Gli faccio ancora lo stesso effetto di un tempo.

P.O.V.
Caitlin

Sento la stanchezza in ogni parte del corpo. Non c'è centimetro del mio essere che non abbia subito, con violenza, ogni azione della giornata e non tenti di ricordarmela nella dolorosa agonia gridata di ogni fitta interna, muscolare.

Avanzo assieme a quei cori ancestrali per poter essere parte del conforto che mi offre la casa nella quale vivo, ancora sprovvista come è di mobili.

Dovremo occuparcene, prima o poi, e iniziare a vivere sul serio questa realtà. Un occhio esterno ci direbbe capaci di fuggire da un momento all'altro, senza lasciare niente di valore, alle spalle. Non vorrei che fosse così, vorrei avere delle radici come le piante delle quali mi occupo e che sono le prime a ricevere le mie cure, non appena riesco ad afferrare un bicchiere e riempirlo d'acqua, nella cucina.

Sto attenta a non esagerare, ed a versare il liquido a pochi centimetri dal terriccio per non scioccarla, mostrandole la dovuta gentilezza. Dopo di che il turno è il mio. Sono reduce da una giornata puntellata di sfide, capitolate per la maggiore da una figura non più alta di un metro. Non è stato affatto facile ed ho bisogno di una doccia, per potermi scrollare l'odore dell'hotel di dosso.

A passi stanchi raggiungo il bagno e mi spoglio di fronte allo specchio. Apro il soffione dell'acqua e regolo la temperatura fino a una condizione simile all'ebollizione. Lascio che il silenzio governi la scena. Poco dopo, però, mi accorgo di un particolare, e ogni cosa si arresta.

Una specie di voglia è dipinta, in nero, sul mio fianco destro. Fisso quella macchia sulla pelle con il ritmo del cuore in gola, e le dita arrivano a toccarla. Mi accorgo presto che si tratta solo di uno strato superficiale di polvere, ma le mani non riescono a fermarsi. Le dita scavano, feroci, in quel lembo di carne, lasciando degli inevitabili e rossi graffi. Dopo però, ancora affamate delle mie paure, si procurano a investigare ogni angolo del mio corpo, rimasto di fronte allo specchio.

Il terrore non passa. Le unghie continuano a ferirmi imperterrite e dal ventre, tramite un taglio, scivola un piccolissima goccia di sangue.

Sono di spalle allo specchio. Il respiro affannoso, i capelli sconvolti e gli occhi fuori dalle orbite a fissare quella goccia di sangue che scivola fino al mio ombelico per poi cadere a terra.

A lei, si congiunge anche una mia lacrima, sciolta dall'iceberg del mio terrore solo per distruggermi, assieme alla sensazione di tornare a sentirsi sporca.

È stata sufficiente solo l'illusione di una nuova macchia sulla pelle, uno dei tanti segnali indicativi del ritorno della malattia che di nuovo, come un tempo, il cuore è tornato a tremarmi mentre il corpo cerca di non mostrare, al suo riflesso, l'orrore dell'indagine che sta per compiere.

Sollevo le mani e poso le dita tra la nascita del collo e le mascelle, tastando il gonfiore delle ghiandole. Dopo passo una mano tra i capelli per poter verificare lo stato della cute, la sua eventuale presenza di eruzioni mentre il cuore continua a pompare tachicardia in ogni suo ritmo.

Al seguito, è la paura verso la stanchezza che mi ha visto vinta, entrando, a raggiungermi. Che si sia trattato solo di una giornata pesante o il mio corpo, nuovamente, è tornato a remarmi contro? Quale è la verità?

La porta di casa annuncia l'ingresso di lui tramite il giro della chiave nella toppa, e prima che possa raggiungermi mi chiudo nella stanza e scivolo sotto il getto dell'acqua calda, lasciando a quella cascata il compito di tranquillizzare i miei pensieri.

Terminata la loro guerra, i miei palmi scivolano sopra le palpebre degli occhi in modo da tranquillizzarli. Il buio mi viene donato e in esso cerco un appiglio al quale aggrapparmi.

Ho preso le pillole? Non me le sono mai dimenticate. Ho una sveglia impostata sul telefono, il contenitore sempre in borsa. Ricordo come se fosse ieri la prima visita dal dottore di base che mi raccomandava l'assunzione delle medicine, così da abbassare la mia carica virale e non permettere all'infezione di sconfiggermi, e sconfiggerle.

Un gioco dell'oca, la conta dei linfociti per misurare i danni al mio debole sistema immunitario. Una barzelletta la mia carica virale.

Avrei la forza di vivere tutto questo adesso? Uscendo dalla doccia, diversi minuti dopo accompagnati da assassine riflessioni, percorro il corridoio della mia casa in direzione della mia borsa, con un asciugamano indosso, e non ne sono convinta. Non sono convinta di esserne in grado. Distruggere questo sogno, nonostante tutti i problemi che comporta, è come inghiottire del veleno. Lo stesso che sto spingendo giù nella trachea, ingoiando le mie pillole, nella speranza di avere una vita più facile.

Forse queste preoccupazioni sono nate solo a causa della vicinanza al mio controllo. Mi capitano spesso questi attacchi di paura e panico, micidiale cocktail, anche se continuano ad essere improvvisi, presenti quando meno me lo aspetto e pronti a stringermi la gola, con uno stretto cappio al collo.

La genitrice di quel fiocco? Io sola.

Recupero gli abiti preparati e mi dirigo verso la camera da letto dove, finalmente, è presente il nostro materasso e Michael vi è steso sopra, con un libro di lettura. La luce calda della lampada sul comodino, molto più in alto del pavimento sul quale è appoggiato il nostro morbido giaciglio, illumina di sfumature dorate i suoi capelli nero carbone, rischiarando persino le pareti recentemente verniciate. Sembra assorto dalla lettura di quel trattato politico al quale non mi sarei mai avvicinata, in una libreria, nemmeno per caso, figuriamoci per acquistarlo. Lo stesso non si può dire di lui che segue il mondo degli interessi sociali con particolare cura e attenzione, analizzandone i risvolti su una serie infinita di inconvenienti.

Poso il ginocchio sul materasso in un mezzo sorriso, e arrivo fino a lui, privandolo del libro. Nonostante la concentrazione deve avermi visto arrivare ed ora mi osserva dietro le lenti degli occhiali indossati perfino il giorno in cui ci siamo conosciuti. Un bagliore concupiscente rischiara la sua iride più scura perfino della cute, mentre le mani sono rimaste sollevate a reggere un'invisibile copertina rigida che, per il tempo della mia doccia, era rimasta incastrata tra le sue dita e il suo ventre, proprio dove sono ora io.

Esprimere quello che provo in questo momento è difficile. Sono arrabbiata e allo stesso tempo maliziosamente affascinata da questo sguardo che mi rende più vittima che carnefice. Non avrei creduto che, tanto presto, ci saremo ritrovati ad una vicinanza simile eppure eccoci qui. Nonostante la notte che mi ha fatto passare a contatto con la sua fredda schiena, dopo la nostra litigata, eccoci qui, nella calda sfumatura di una luce elettrica gialla. Nella nostra nuova stanza e sopra al letto che abbiamo imparato a condividere. Niente più scudi. Niente espressioni messe in secondo piano rispetto ai nostri sguardi. Ci fissiamo semplicemente negli occhi, straordinariamente vicini, fastidiosamente ancora, un poco, lontani.

«Le parole che mi hai detto non mi sono piaciute» ammetto, alludendo chiaramente al nostro litigio. Riesce a cogliere l'antifona, e rispondere afferrando la palla al balzo.

«Non dovevano piacerti, stavamo litigando.»

«Lo stiamo facendo ancora?» Legittimamente domando, e a una simile richiesta serra la bocca, continuando a fissarmi con quel suo sguardo caldo.

«Mi manchi» confesso, sollevando una mano per poter sfiorare la sua spalla nuda. Anche il petto è scoperto. Non indossa quasi mai il sopra del pigiama e questo non va che a mio beneficio, specie non appena mi stringe a sé.

Quasi mi avesse letto nel pensiero, un istante dopo le sue braccia mi circondano, ed io mi trovo stesa di schiena con il suo corpo che mi bracca.

Per un attimo, l'emozione di riavvertire addosso il suo calore mi offusca la vista e i sensi ma tutto torna centuplicato non appena posa la sua bocca sulla mia, e da il via a un bacio particolarmente spinto. Niente a che vedere con quello che ci siamo dati nella hall dell'hotel, con Evie alle spalle e una bambina affianco a noi.

Questo è il ricordo del "noi" di un tempo, quello che non abbiamo smesso di essere.

La sua lingua scava a fondo, cerca il contatto con la mia e mi ruba il respiro, oltre che un pezzo della mia anima. Mi rivendica con rabbia, quasi volesse che la furia cancellasse via tutto il dolore che ci siamo inferti, e per un attimo riesce a farlo davvero. Arrivo a dimenticarmi di tutto in un'immensa tabula rasa e il conforto che trovo, in quella privazione, non ha eguali.

Mi era molto più che mancato. In una notte come questa ho bisogno di lui più che mai. All'alba della nuova visita di controllo, della scelta di un incontro con Sebastiaen, nel rivivere tutto ciò che ho passato in questa nuova città ho bisogno del mio sostegno, di quell'uomo che mi ha scelta e amata, e che continua a farlo.

«Io ti amo» esalo tremante sulla sua bocca, proprio come ho fatto al termine della nostra prima volta, quando ho creduto di stare possedendo tutto. «Niente potrà cambiare quello che provo, nessuno potrà.»

Ho bisogno che lo sappia. Nell'aurora di tutte le possibili, e spiacevoli, novità ho bisogno che sia certo di noi e del nostro amore, perché è reale.

«Presto ti farò una domanda, Cat, e tu dovrai rispondere con sincerità» mormora, con gli occhi lucidi nel sentirmi dire parole tanto belle nella nostra riconciliazione. Le sue, invece, sono un mistero, come tutto ciò che gli appartiene.

«Chiedimelo ora.»

«Credi già di saper rispondermi?»

Non so a cosa si riferisca. Per un momento il sospetto che sappia di Sebastiaen, e di un nostro possibile incontro, mi raggiunge, ma scaccio via quell'idea dalla testa, allontanando il discorso.

«Ti va di andare in piscina? Devo ancora batterti, ricordi?»

L'attività fisica mi farà bene. Nonostante la stanchezza è necessaria alla mia debole condizione strutturale, assieme a una dieta equilibrata. Non posso rinunciarci, e questo lo sa anche lui. Forse per questo, o per la sfida in atto, annuisce in un mezzo sorriso e decide di darmela vinta.

Mezz'ora dopo, l'odore del cloro mi raggiunge assieme al calore emanato da questo posto in cui è stipato il vapore delle docce e i respiri concitati dei tifosi, nelle tribune sopra le corsie, in questo impianto al chiuso.

Con uno sguardo accattivante, incito Michael a fare meglio di me, entrare in vasca e battermi. Seguirmi ad ogni colpo di bracciata e vincere la gara del respiro. Si può scoprire la mia bravura, se esortata dal bisogno di lasciar affogare in quest'acqua i miei demoni e battere nell'orgoglio il mio amato.

Riesco a verificarlo in tre quarti d'ora. Orgogliosa del mio risultato osservo Michael, immerso nell'acqua fino ai fianchi, dalla mia posizione di supremazia e vittoria, seduta sulle mattonelle vicina al blocco di partenza della corsia, con l'acqua a bagnarmi i polpacci.

Ho vinto alla grande, nonostante dica di avermi lasciato fare e tenti di convincermi con carezze lascive sulla pelle scoperta, dandomi dei brividi. Fingo di crederlo e rido delle sue battute quando il suo sguardo si incupisce e i suoi occhi si allontanano da me per dirigersi verso un gruppo di ragazzi.

Non riesco a capire cosa abbia attirato la sua attenzione. Tento di decifrarlo ma gli obbiettivi al centro del suo cecchino passano, in un basso sottofondo di risate, alle mie spalle e spariscono nelle docce.

Michael non aspetta due volte e in un attimo afferra la mia mano e mi allontana per sempre dall'acqua.

Veramente, non so cosa possa aver sentito. Sembravano normali discorsi da liceali, niente di più. Sport e qualche risata ma non ho modo di chiederlo che il mio ragazzo esordisce con una sentenza.

«Cambiamo sport. Non voglio più fare nuoto.»

Non posso controbattere. Di colpo è una maschera e, quasi con uno scatto di rabbia, afferra il mio accappatoio e me lo mette addosso, coprendo il costume rosso che porto.

«Muoviti in camerino, torniamo a casa.»

La sua schiena è ciò che mi mostra andandosene. La stessa che si era fatta carico della nostra storia e mi aveva sorretta, mutandosi in uno scudo impenetrabile, ora, che non ci condanna ad altro che all'assenso.

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