47- Il dolore

"Ho conosciuto il dolore
E ho avuto pietà di lui,
Della sua solitudine,
Delle sue dita da ragno
Di essere condannato al suo mestiere
Condannato al suo dolore;
L'ho guardato negli occhi,
Che sono voragini e strappi
Di sogni infranti: respiri interrotti
Ultime stelle di disperati amanti
-Ti vuoi fermare un momento? - gli ho chiesto-
Insomma vuoi smetterla di nasconderti? Ti vuoi
Sedere?
Per una volta ascoltami! Ascoltami
... e non fiatare!
Hai fatto di tutto
Per disarmarmi la vita
E non sai, non puoi sapere
Che mi passi come un'ombra sottile sfiorente,
Appena - appena toccante,
E non hai vie d'uscita
Perché, nel cuore appreso,
In questo attendere
Anche in un solo attimo,
L'emozione di amici che partono,
Figli che nascono,
Sogni che corrono nel mio presente,
Io sono vivo
E tu, mio dolore,
Non conti un cazzo di niente."

Roberto Vecchioni – Ho conosciuto il dolore

P.O.V.
Michael

Da diverse notti, nei miei sogni, un corpo di femminile bellezza mi tormenta, senza rivelarmi mai il suo volto.

Ne scorgo unicamente piccole parti. Un busto, dei seni piccoli ma perfetti, un piatto ventre ma mai il suo collo, né il suo viso.

Quei tre elementi concorrono a creare un quadro dai colori teneri, in grado di rilassarmi... ma non trascorre molto, prima che tutto si scurisca. Una torre incompiuta si sostituisce, per prima, al ventre della misteriosa bellezza, dando il chiaro segno di una mancanza, quasi interiore. I seni si tramutano in piccole ossa ed il busto altro non è che il percorso che devo seguire, e che non sono in grado di capire verso dove mi conduca.
A quel punto della storia, il cielo si fa nero e non vi è alcun soffitto o suolo, tutto è indistinto ed io, perso in quella macchia scura senza più punti di riferimento, a un tratto, mi trovo sveglio in un bagno di sudore, alle volte in grado di togliermi anche il fiato.

Oggi non ho avuto sconto a questa condanna, ed ancora una volta sobbalzo di scatto dal letto, trovandomi a fare i conti con un'onirica confusione mentale e un freddo in auspicabile al fianco, dove da tempo si stende Cat.

Tento di ritrovare il mio giusto equilibrio tra il sonno e la veglia, passandomi le mani sul viso a voler scacciare via lo strano incubo, ma ci sono delle immagini che restano impresse e non vogliono allontanarsi dai miei pensieri. Pagherei qualsiasi somma, dalle mie tasche bucate, per farli andare via, pur sapendo che non servirebbe a niente.

Scivolo fuori dalla prigione di coperte che mi ospita per potermi dirigere in cucina. Un bicchiere d'acqua mi rischiarirà le idee e mi darà la forza di tornare alla ragionevolezza, penso, con i dovuti tempi.

La mano trema leggermente afferrando il bicchiere di vetro, e la vista risulta tanto offuscata da lasciare passare in secondo piano la luce accesa della stanza, quasi governasse lo spesso velo oscuro cucito sulla mia iride.

Sono solo sogni ma stanno a simboleggiare qualcosa, lo stesso significato dal quale rifuggo, svegliandomi.

Ho giusto il tempo di pensare a un simile paradosso, prima che la mia attenzione venga catturata dal tagliere bianco, abbandonato al di sopra dei fornelli spenti, sul quale sono stati lasciati dei pomodori tagliati, in parte, alla julienne. Rimango immobile mettendo da parte il sogno e lasciando che si sostituisca alla catena di ricordi di una vita precedente, impossibile da controllare. Quasi mi viene da ridere nel ripercorrere il tracciato che sembrano suggerirmi, perché niente accade per caso. Né quegli assurdi sogni, né questi stupidi pomodori.

Con uno scatto improvviso afferro il tagliere e spalanco lo sportello che ospita il cestino. Faccio cadere i pezzi di verdura dentro la busta posta a contenitore e poi lancio lontano la plastica, osservandola cadere verticalmente nel lavello. Dopo non trovo pace. Niente è bastato a rasserenarmi, ci vorrebbe un'altra vita.

Basterebbero poche ore di riposo, credevo l'insonnia fosse passata da tempo... ma ecco che torna a tormentarmi come un antico demone, incapace di dimenticarsi della mia anima.

Le permetto di sbranarmi... rimanendo ad occhi chiusi e con la testa gettata indietro, contro i mobili della cucina, mentre me ne sto seduto sul freddo pavimento in piastrelle, aspettando che termini il suo pasto.

Dopo di che non ci sarà più niente. Un nulla confortevole e governato dall'odioso silenzio che ho finito per accettare, perché nulla è più importante; non i rumori, non i colori e nemmeno più le passioni. Si smette di essere umani e si diventa qualcos'altro.
Forse la persona che non ci saremo mai immaginati, forse la sola che ci saremo da sempre aspettati.

Deboli nocche producono un rumore armonico contro del legno. Sembrano becchi di uccelli che scavano, alla ricerca di un chicco di grano sepolto nella terra. La loro curiosità non si dirama, e continuano allegri la loro caccia.

Tic. Tic.

Avrò dormito giusto due ore, quale vecchia abitudine, e niente mi convincerebbe ad alzarmi dalla mia postazione... se non fosse per via del fastidio che di colpo mi obbliga ad issarmi sulle mie gambe.

Tra le ciglia sembra essere caduta un'ingente quantità di colla vinilica, in grado di rendermi molliccio e deconcentrato lo sguardo, senza dubbio sporco e inadeguato. Specie per la piccola figura che mi attende da dietro questa porta.

«Ci hai messo un po' a rispondere, stai bene?»

Lo sguardo di Grace invece è arzillo, puntato in alto verso il mio viso quasi ad angolo retto rispetto alle spalle. Due trecce particolarmente lunghe e piene di nastri glielo incorniciano ma non sembra lo specchio della sua infantilità l'espressione che porta. È preoccupata sul serio e quasi infastidita del mio ritardo, nonostante le parole gentili.

«Che cosa ci fai qui, Grace?»

«La mamma è dovuta andare via. Si scusa ma mi ha detto di dirti che aveva un incontro urgente, e che per qualsiasi cosa avresti potuto chiamarla.»

«E ti ha lasciato qui a me?»

«Sei stato tu a dire che eri d'accordo, non ti ricordi?»

Ma certo, certo, il favore al quale ho acconsentito. Non so per quale motivo ma quasi mi sarei aspettato di non vederlo realizzarsi, eppure è troppo tardi.

Grace scivola veloce sotto l'arco eretto dalle mie braccia sollevate, ed entra in casa piena di entusiasmo. Corre in soggiorno e verso il letto mentre io me ne sto ancora in piedi sulla porta, esausto dalla sua presenza.

«Non vieni?»

Si tratta di una bambina piccola, provo a ripetermi, la figlia della tua amica e sei riuscito a stringerci amicizia, non rovinare tutto.

Non lo rovinare, proseguo nel mio confronto interiore, prendendo posto a fianco a lei sul materasso.

Grace è allegra mentre la mia bocca si spalanca in un profondo sbadiglio.

«Sei stanco? Sono le dieci, che ne dici di fare qualcosa?»

Potremmo farlo, se solo avessi delle idee e abbastanza competitività per sconfiggerla.

L'attenzione mi si calamita, nuovamente, verso lo zaino che, come lo scorso giorno, è issato sulle sue spalle, gentile ospite del portachiavi con la rana di gomma. Sfioro quel pendente con la mente ancora affogata nella cupidigia dell'insonnia, mantenendo un solo pensiero rivolto a quell'animale.
L'innocenza dell'infantilità, pronuncia la voce di Cat nel raccontarmi il suo quadro. Ma certo.

Riesco a dipingermi in faccia un sorriso e decidere quello che è più giusto fare. Si tratta solo di una bambina ed io sono sempre stato bravo a intrattenere i piccoli, quindi tanto vale giocare con chi non ha colpe del mio malumore. La casa è tanto vuota da non avere alcun tipo di fastidio a impedirci di variare con le sfide, quindi tanto meglio.

Prima di spiegare a Grace che cosa stiamo per andare a fare, fisso la porta di casa, rendendomi conto che Caitlin non è ancora tornata.

P.O.V.
Caitlin

Tengo lo sguardo fisso sulle porte scorrevoli dell'ingresso. Alcuni clienti mi fissano, aspettandosi forse di vedermi impiegata in qualche lavoro umiliante ma non ho scrupoli di mostrarmi come sono, a Raimòn e a tutti loro, specie in un giorno come questo. Riesco a sorridere, e questa felicità è in parte immotivata, visto quello che sto per vivere.

«Caitlin, ¿estás bien?» Mi domanda Irma a fianco, ed io annuisco con vigore, senza darle ulteriori spiegazioni. Di conseguenza torna al suo straccio, occupandosi di pulire di nuovo a terra. Per quanto mi riguarda, invece, posso dire che è giunto il mio momento.

La persona che stavo aspettando supera, proprio adesso, l'accoglienza dell'hotel nei suoi tacchi alti e occhiali da sole, camminando poco più lontana da me per direzionarsi verso gli ascensori.

Mi frappongo tra lei e la sua meta. 

«Perché mi stai ignorando, Evie?» Le chiedo diretta, andando dritta al punto della questione ma sorridendo, perché in qualche modo questa situazione mi diverte.

«Non ti sto ignorando» se la sbriga con una mezza frase, detta tra i denti, e non posso certo accettarla.

«A me sembra di sì, invece. Sei sparita» le faccio presente, camminando all'indietro mentre lei non sente storie, e continua a incedere nei suoi tacchi, producendo non poco rumore nell'attrito contro il pavimento dell'hotel.

«Ho da fare.»

«L'intervista è andata bene?»

«Sì, è andata bene.»

«Lo hai detto a tuo marito?»

A quest'ultima richiesta, che ormai ci vede entrambe ospiti dell'ascensore, si toglie di scatto gli occhiali per fissarmi con un misto di odio e rancore, ma so farci bene i conti con quello sguardo.

«Ma si può sapere che vuoi?»

«L'ultima volta che ci siamo viste mi hai avanzato una richiesta; vuoi che parli con Sebastiaen. Ho detto che lo farò, per te, per Evie, e per questo voglio conoscere la donna per la quale mi approccerò a una discussione con l'ex ragazzo del mio ragazzo.»

«La consoci» sussurra, inforcandosi di nuovo le stecche delle lenti tra i capelli sciolti e il retro delle orecchie, fissando in basso mentre l'ascensore sale.

«Allora diciamo che non conosco l'uomo che è stata e ciò che l'ha spinta a diventare quella che è.»

«Katrina...» mi supplica, presa dall'angoscia per la quale sto lottando. Voglio che mi racconti cosa le è successo, perché lo posso vedere, un simile ricordo le grava sulle spalle come un macigno.

«Ti prego, ti voglio conoscere. Tu sai già molte cose di me ed io quasi nessuna...»

«Questo non è vero.»

«D'accordo, forse solo in parte... ma voglio parlare con te e sentire quello che ti è successo. Tra poco partirai e non vorrei niente di incompiuto tra di noi.»

Vedo che ci sta pensando. Nonostante non riesca a leggerle le iridi o notare il mutamento delle pupille, ho scoperto da piccoli gesti la chiave per interpretarla. Minuscoli segnali impercettibili che compie, e che noto solo adesso essere un ponte tra il presente e il passato vista la loro vita immortale. Grazie a loro non c'è bisogno di parole, almeno non in momenti tanto inutili.

«E cosa pensi di fare? Ricevere una confessione e ottenere l'anima pura a sufficienza per farmi, lasciarmi, andare via?»

«No, voglio di più» la informo, suscitando la sua sorpresa che si manifesta nell'alzare di scatto la testa. Le parlo attraverso gli occhiali da sole, aspettando che mi comprenda. «Voglio un'intervista.»

Le mie parole la fanno scoppiare a ridere. Divertita, annuisce in una specie di resa che non ha niente a che fare con la conferma, quanto piuttosto con la stanchezza nonostante non sia a conoscenza, ancora, di quanto il suo stato d'animo possa essere stato corroso da una mole in quantificabile di eventi in grado di sfibrarlo.

Me ne parlerà. Ne sono certa più che mai non appena l'ascensore si arresta, permettendoci di dirigerci verso la sala da pranzo del secondo piano che ospita al momento la colazione.
Discuteremo insieme di quello che è stato e di tutto quello che ci è capitato di affrontare, e non ci saranno più segreti. Nessun mezzo sorriso o frase incompiuta, nessun segnale lanciato nell'aria come una freccia di fumo che si incastra, con la punta, nella cupola del cielo.

Più niente che non sia sincerità, perché una cosa unisce me ed Evie nel profondo ed è la forza che permettiamo ai nostri sentimenti di possedere.

Tale gesto può apparire distruttivo o meno, non ci interessa, perché amare ci rende umani e permette al cuore di battere, ancora più forte dopo che lo avevamo creduto rotto.
Dopo che lo abbiamo visto infrangersi con crepe e sbagli che lasciano scivolare fuori incubi, e temibili voci che, per troppo tempo, si sono sovrapposte alla nostra.

«Ci vediamo al molo. Tra mezz'ora» mi sussurra, voltando la testa all'indietro nella mia direzione e bloccandomi con il suo sguardo.

I miei passi si arrestano mentre i suoi incedono, permettendole di varcare la zona riservata ai clienti che, al momento, sono accomodati di fronte alle loro abbondanti colazioni.

La sua silhouette in nero spicca tra gli uomini in giacca e cravatta che le lanciano dei sguardi, più lunghi di quanto sia decenza offrire ma Evie non se ne cura. Raggiunge suo marito e gli deposita un bacio lento sulle labbra. Vedo che, ad occhi chiusi, lui ricambia e nient'altro è più importante. Né gli sguardi languidi, né il fatto di essere circondata da soli uomini.

Ci sono premi in grado di oscurare tutto, e sollevando gli occhi verso i miei, una volta seduta a tavola, Evie sembra incline a raccontarmeli.

Stormi di gabbiani vorticano in infinite ellissi al di sopra del movimento psichedelico del mare, cantando un vocalizzo stridulo che ha il sapore di libertà. Chiudo gli occhi rimanendone all'ascolto e assaporando il profumo di salsedine che mi raggiunge i vestiti, imprigionandosi nella lana di questo cappotto scuro e particolarmente lungo.

Restano scoperte solo le caviglie dai jeans, le uniche che riescono ad essere accarezzate dal vento mentre le mani si nascondono all'altezza delle ascelle, avendo incrociato le braccia, solo per cercare calore.

La giornata non è delle migliori, il cielo è grigio e non è presente il sole, ma devo dire che non mi dispiace. Sembra di essere bloccati in un altro tempo. Fermi in un altro luogo, mentre il resto del mondo scorre.

Leggeri passi di tacchi alti si avvicinano alla mia postazione, i miei occhi li seguono. Mi permettono di vedere Evie approcciarsi a me, in piedi di fronte agli scogli e a questo parapetto in ferro bianco mentre la schiuma delle onde tenta di raggiungermi, avvicinandosi ogni centimetro di più.

«Aspetti da molto?» Mi domanda, e noto con piacere che si è tolta gli occhiali. Odio che ci sia uno schermo a dividere lo sguardo tra due persone, specie quando si approcciano ad avere un discorso particolarmente sincero, che non vuole barriere a porre dell'imbarazzo.

Scuoto il capo, negativamente. «No, non preoccuparti.»

In testa ho un berretto che non avrei mai creduto di indossare in questa stagione. Il naso, e le guance, devono essersi arrossati dal freddo, e Evie nota tutto, capendo la mia bugia ma decidendo di non indagarla.

«Possiamo tornare indietro, se vuoi. Non è necessario avere questa conversazione. Ci sediamo a un bar e ordiniamo qualcosa. Parliamo dell'intervista di ieri, o di quello che vuoi fare...»

«Dopo, magari» commento, impedendole di scappare e lasciandole abbassare la mano che aveva teso, indicandomi uno dei caffè poco lontani.

«D'accordo, allora... vogliamo sederci?»

Alle nostre spalle una panchina in legno, con dei freni cementizi ai piedi, ci suggerisce di mettere a riposo i muscoli tesi nella tensione che è inevitabile provare. Non mi sono preparata niente, e nemmeno lei. Non c'è copione a quello che stiamo per fare, e se solo avessimo pensato, anni addietro, che ci saremo trovate a parlare così, a cuore aperto, credo che nessuna delle due ci avrebbe creduto.

Mi è impossibile ricollegare il nostro vecchio ricordo a quello che stiamo vivendo, specie vedendola abbassare la testa per sfuggire ai miei occhi. I suoi capelli la coprono, le unghie laccate in nero battono tra di loro, eppure a volte gli occhi le si sollevano, ed hanno il colore del mare.

«Michael mi ha detto che la sera che siete venuti a casa nostra, tu e Seima...» parto con il dire, ma la voce si arresta. Le dita di lei hanno smesso di ticchettare tra di loro mentre la sua testa è voltata verso di me, come lo è il mio corpo, posto con una spalla contro il legno dello schienale, in direzione del suo. «Quando ti ha accompagnato a casa mi ha detto che lo hai baciato.»

«Scusami.»

«No, io... voglio sapere da quanto lo ami.»

«Non era amore.»

«Evie, io...»

«Era devozione. Sai bene il potere che è in grado di esercitare. Sa come affascinare, ed io ero completamente assuefatta.»

Resto in silenzio, non possedendo parole con le quali esprimermi e, forse, aspettandomi che sia lei a rivelarmi il suo cuore.

«Sai che ci conoscevamo da molti anni, è stata la mia prima cotta ed è durata per molto tempo, dal momento che non riuscivo ad esprimermi.
Sono stata a conoscenza di tutte le sue avventure, le ho viste nascere... ed ho assistito all'amore con Sebastiaen, per quanto non ne sapessi niente, volendo rimanere in disparte.» La sua testa si allontana da me quanto basta a volermi nascondere l'ironia del suo sorriso stanco, e lo sguardo che si macchia di rimpianto dolore. «Sapevo che non provava niente per me» esordisce d'un tratto, per poi ritrarsi subito dopo, in una chiusura che ci vede ancora più lontane.

«Mi dispiace, non volevo...» inizio ma non so finire, ed il suo modo sincero di fissarmi poco dopo, tanto dolce quanto rassegnato, stempera la gravità che ho commesso nel tirare fuori Michael come primo argomento.

«Non importa, hai detto che vuoi conoscere Evie. Ma Evie non è niente senza il passato che si porta Jeremy.»

«Possiamo evitare di continuare a parlarne, se vuoi.»

«Non è che ci sia molto altro da dire. Ti ho odiata più di tutti gli altri. Più di Emily che se lo portava a letto, di Stephany che gli girava appresso pur sapendo dell'amore di Logan per lei. Quasi più di Sebastiaen... ti ho detestata più di lui, perché con te Michael era un uomo diverso. Sembrava più felice che mai, spensierato ai limiti del possibile. Era certo di aver trovato l'amore della sua vita e questo distrusse i miei sogni, più di qualsiasi altra cosa.»

È strano che stia parlando con lei proprio in riva al mare. Lo stesso posto rimasto l'ultimo confronto tra me e Michael nella nostra Los Angeles, dopo la sfilata. Proprio allora, il mio ragazzo mi aveva confidato tutte le verità prima dell'inizio della nostra nuova vita, e re indossare l'emozioni di allora mi connette più che mai all'attimo che sto vivendo.

«Quando mi ha detto del vostro bacio mi sono sentita tradita, per quanto possa essere stupido. Non eravamo amici ma quella sera ho diviso con te il mio pasto. Sebastiaen, tra me e Michael, è sempre stato un argomento tabù e non avrei mai pensato... che tu potessi provare lo stesso o che lo avresti fatto, pur sapendo che stavamo insieme.»

«Sono una persona cattiva, Katrina.»

«No, non lo sei. Non lo sei mai stata ed è proprio questo che mi fa arrabbiare.»

Sorride a testa basta, lasciando alcune delle ciocche caderle di fronte.

«Fa arrabbiare anche me. Non immagini quanto.»

La me di un tempo si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata arrabbiata.
Evie mi ha fatto riscoprire l'odio, eppure allo stesso tempo è come se mi insegnasse che non esiste sentimento più austero che non possa essere controbilanciato con una massiccia dose di emozioni buone. Non riesco ad alzarmi per questo motivo. Non voglio farlo, e in qualche modo ciò mi confonde.

«Ricordi cosa ci siamo dette quando eravamo al ristorante, la sera in cui hai scoperto la dedica nell'agenda?» Attendo che me lo ricordi, sollevando il mento per concentrarsi su di me. «Mi hai detto che è facile per le persone parlare, insultare, ferire senza interessarsi delle conseguenze. Sai invece che parole ha pronunciato Michael, dopo che ho avuto il coraggio di baciarlo, quella sera? Mi ha detto che non gli piacciono "le cose, e le persone, troppo facili". Hai idea di come questo mi abbia fatta sentire? Gli avevo appena aperto il mio cuore e lui aveva deciso di calpestarlo.»

Una frase del genere sembra essere nata da un incubo. Da denti aguzzi di una persona che non credo di conoscere. Per quale ragione ha ritenuto necessario ferire tanto uno dei suoi più cari amici, solo per averlo baciato?

Avrebbe potuto ritrarsi mentre, invece, ha scelto di spruzzare veleno, che pare aver portato a delle conseguenze.

«Quella frase è stata la svolta che ha dato inizio a tutto. In quell'attimo ho capito che sopprimere ciò che mi sono sempre sentita di essere non mi aveva aiutato, e non mi rendeva affatto più affascinante. Anzi, mi faceva apparire insicura e ridicola, per cui è stata la rabbia a direzionarmi verso una nuova scelta.»

«Non sembra il sentimento migliore da far svettare.»

«Per un uomo che non ha mai urlato il suo dolore nei confronti di nulla sì, può esserlo» mi dice, mostrandomi la sua allegria, e rimango minuti immobile ad assorbirne il significato, finendo per comprenderlo. «Non era mai da sola, ma sempre intervallata da altro» esplicita rendendo più chiari i miei pensieri e l'immagine che mi sono fatta del suo passato.

«Hai ottenuto indietro la libertà» commento, nell'attimo esatto in cui un gabbiano sorvola, ad ali spiegate, sopra le nostre teste per fuggire lontano, verso il centro della piazza alle nostre spalle.

«È così, seppure è durata solo un momento. Mi sono sempre sentita donna, Katrina, non è niente verso il quale ti spingono. Non è una perversione, non è un trauma da bambini. Ci si lascia comandare dall'anima e a lei si dà ascolto, quando si prende coraggio di liberarla dalla sua prigionia.»

Una morsa inspiegabile mi attorciglia lo stomaco in un laccio emostatico che blocca il sangue e mi ferma il respiro. Non riesco a capirne il motivo ma per un attimo il dolore è inimmaginabile.

«Non ho mai pensato a una perversione» sussurro, lasciando Evie a riflettere.

«I primi tempi è stata dura. Abbandonando il teatro mi sono fatta in disparte. Ero ancora a Los Angeles quando ho affrontato la terapia ormonale. Avevo fretta di sbarazzarmi del mio vecchio corpo.»

I suoi occhi si chiudono nel ricordarlo. Non ho idea di cosa possa vedere al loro interno, non so quanto possa farle piacere riviverlo. Le sto chiedendo tanto, ma forse può aiutarci entrambe.

Ne sono certa non appena comprendo la repulsione da lei provata per quell'involucro che sembra contenere la nostra anima, i muscoli, il sangue e ogni tipo di pensiero, come una prigionia, condannandoci a un destino che non ci sembra giusto di dover scontare. In termini interiori quanto esteriori.

«È stata dura», la sua voce lo confessa, ed esce fuori come una mezza risata questa piccola frase, affiancandosi a una leggera lacrima che le scorre lungo la guancia per finire, poi, su uno dei suoi palmi stretti in dei pugni che contengono la stoffa, sopra le ginocchia.

«I primi tempi avevo continui sbalzi d'umore. Il mio corpo stava mutando piano, gli estrogeni assunti facevano il loro lavoro correttamente, ma nessuna rivista che avevo sfogliato, per informarmi, mi aveva anticipato del mio cambiamento caratteriale. Di colpo diventai più emotiva, ed è una cosa difficile da digerire in un momento tanto complesso...» la voce le si affievolisce mentre quel mezzo sorriso sembra non essersene andato. Con il dorso di una mano, che di colpo spalanca, si pulisce di quella piccola lacrima che il giorno illumina come un diamante impresso nel suo zigomo, e mi si rivolge per cercare appoggio. «Se sei tanto curiosa fai domande specifiche. Risulta complesso parlare a ruota libera.»

«Per un ex attore di teatro?»

«Ho sempre imparato a mente i copioni.»

«Riesco a vedere da sola che è difficile da raccontare, per quanto possa essere limitata nel comprenderne appieno le cause, quindi è questa la mia domanda: perché lo stai facendo, Evie?»

«Perché siamo amiche. Non è così?»

Me lo chiede quasi come se le stesse per cadere l'intero mondo addosso. Prima che precipiti, offro in dono una delle mie poche certezze, annuendo con fervore.

«Sì, Evie, è così.»

«Credo che possa farmi bene. Il mio psicologo me lo ha sempre consigliato.»

«Sei in terapia?»

«Ho avuto anni difficili.»

«Lo frequenti ancora?»

«Non più da quando mi sono sposata.»

Rimango in silenzio osservando la sua fede argentea, posta al giusto dito che, come gli altri, ancora stringe leggero la stoffa. Poi ritorno a lei, cercando di comprendere.

«Gerard sa tutto, non è vero?»

«Dell'uomo che sono stata?» Alcuni secondi di silenzio confermano il mio assenso. «Sì, lo sa. Mi ha aiutato anche con i soldi per la vaginoplastica, non appena ha capito quanto fosse importante per me. Ma mi ha amata anche durante la trasformazione del mio corpo. Questo mi ha fatto comprendere la purezza del suo sentimento.»

«Perché ti sei allontanata da Los Angeles, Evie?»

Prende un profondo respiro. Avrebbe voluto domande specifiche, magari simili a quelle di una ragazza impertinente in grado di svilirla e raffigurarla come una donna inferiore, probabilmente perché avrebbe avuto le giuste risposte.

Deve essere particolarmente preparata alle frecce appuntite, nessuno le ha mai offerto un fiore, mentre io sento il bisogno di cullarla, di strapparle un sorriso. Immagino che abbia vissuto cose inspiegabili, emozioni troppo toste perché una persona come me, una qualunque, possa capirle.

Non è debole né fragile, ma è ferita da una mancanza di rispetto che sento il bisogno di donarle.

«Come ti ho detto, lasciando il teatro ho iniziato con la cura ormonale. Non avevo idea dei costi, né di quali medicine garantisse o meno lo stato. Sapevo solo che dovevo ridurre, con pastiglie, la creazione di testosterone e introdurre ormoni femminili, come mi era stato detto dal mio medico. Il teatro mi aveva concesso di mettere qualche soldo da parte, ma con quelli finii di pagarmi gli studi e, presto, mi occorse un lavoro.»

Vedere nella mente la figura del mio vecchio conoscente in piedi, di fronte a uno specchio, a buttare giù per la trachea delle medicine, piccole come bottoni di camicia, è anche troppo facile da immaginare, mentre l'espressione che può aver avuto è inafferrabile. Con che sdegno fissava il lento progresso dei suoi tentativi? C'è stato un attimo in cui aveva pensato di abbandonare tutto?

«I primi tempi non fu un problema, le cure andavano lente. A pesarmi era il dover continuare a vestire abiti maschili avendo deciso di intraprendere una via tanto nuova e solitaria. Volevo essere donna ma risultava impossibile... mentre continuavano a chiamarmi con il mio vecchio nome e facevano battute idiote, in uno spiacevole cameratismo, gli uomini nei confronti delle colleghe di lavoro, o delle semplici clienti. Detestai la loro volgarità con tutta me stessa.»

Al termine della frase, i denti, leggermente, afferrano il suo labbro inferiore, quasi ad impedirgli di correre nel raccontare questa particolare storia. Occorre molto coraggio, e c'è troppo... da dover dire e da dover ascoltare.

«L'emozione più forte, però, la provai una sera, di ritorno da un turno di lavoro. Il mio corpo aveva iniziato a mutare, come altri aspetti della mia vita. Mai prima di allora avevo provato, sulla mia pelle, cosa significasse per una donna camminare da sola la sera, per strada. Per tutto il tragitto verso casa, ebbi paura di ogni coppia di passi alle spalle che mi seguiva. Non mi riusciva di smettere di tremare. Mi maledissi per aver scelto di percorrere strade secondarie, per quanto più brevi. Pregai di non essere lasciata sola, che qualcuno si aggiungesse alla mia strada. Indossavo un vestito... non avevo ancora fatto alcun tipo di intervento e temevo un aggressione, o qualsiasi altra parola derisoria in grado di uccidermi.
Ricordo di avere avuto difficoltà addirittura nell'aprire il portone al piano terra del mio condominio; la paura mi aveva vinta e mi aveva fatta sentire debole come non mai. Capii di voler essere una giornalista da quella sera, perché ero consapevole che se mi fosse successo qualcosa... non avrei avuto voce per chiedere aiuto, né la volontà di elemosinare misericordia. Volevo mettere fine ad ogni sorta di ingiustizia e diseguaglianza, e divenne il mio credo. Penso di essere nata per questo.»

«Lo penso anche io» le confesso, capendo quale immenso mondo ci possa essere dietro alle poche parole che dice, e che tenta di offrirmi con placida leggerezza.

«I primi servizi che feci, per una rete di cronaca locale, erano incentrati sulla Down Town, dove ero cresciuta. Ho tentato di combattere la delinquenza con tutta la mia forza, ma ogni servizio durava il tempo che bastava a far rendere conto al mio capo della mia particolare situazione, impedendo che tutto ciò che avevo fatto andasse in onda.»

«Ma... come? Come poteva scoprirlo?»

Evie rimane un attimo in silenzio, e lentamente ci arrivo da sola. L'immagine di lei di fronte al bodyguard, la sera della festa dedicata all'intervista, mi torna in mente in un lampo, rischiarandomi le idee.

«Oddio... i documenti. Evie, hai ancora i vecchi documenti, non è vero? Per questo mi hai chiesto di mostrare i miei, alla festa?» Lentamente annuisce, ed io non posso fare a meno di sorprendermi. «Ma... perché? Non è possibile cambiare oppure...»

«Costa una discreta somma economica, come tutte le azioni implicate nella mia trasformazione, ma non è per questo che ancora non li modifico, ormai guadagno più che a sufficienza. No, no, è un monito e un ricordo, mi esorta a non essere più la persona di un tempo e per fortuna, quando meno lo credevo possibile, due anni fa sono stata accettata dal mio attuale datore di lavoro che non si è fatto problemi nel leggere il mio vecchio nome. Non è un uomo che si scandalizza ed è stato il mio trampolino di lancio. Mesi dopo, durante un servizio, ho conosciuto Gerard ed ho ottenuto tutto ciò che volevo dalla vita. Mi ha capita ancora di più di quanto potesse fare il mio capo, mi ha aiutata. Mi ha amata, anche nel mio vecchio corpo, e mi ha sempre considerata una donna, proprio come mi sento di essere.»

«E non sei più tornata a casa?»

Lo chiedo con una nota di apprensione, capendo quanto possa essere temibile come argomento.

«La mia famiglia non possiede una mentalità molto aperta, i miei genitori sono particolarmente anziani. Non si prendono più il lusso di invitarmi alle celebrità natalizie, e nemmeno a un semplice pranzo domenicale. Si può dire che abbiamo chiuso tutti i rapporti.»

«Mentre la famiglia di Gerard?»

«Mio marito ha dieci anni più di me. I suoi genitori, ormai, sono morti ed io sono rimasta la sua unica famiglia.»

«Deve amarti molto.»

«Più di quanto io ami me stessa. Prima di conoscerlo sentivo che chiunque mi considerava un oggetto, una specie di pacco regalo con una sorpresa tra le gambe. Si chiedevano "come sarà la sotto?", orripilati e affascinati al tempo stesso, alle volte avendo il giusto coraggio per chiedermelo.
Nessuno mi aveva mai amato senza rilegarmi al sesso, ed è stato come respirare aria pulita il tornare a risentirsi una persona, un essere umano come gli altri. Durante il mio cambiamento ero stata allontanata dagli uomini perché non facevo parte del loro genere, e dalle donne perché non appartenevo nemmeno a loro, quasi che le ovaie e il ciclo mestruale, che non potrò mai avere così come un figlio mio, ti possano classificare come "donna completa". Ma è sufficiente solo quello, per esserlo? La ritengo una cosa assurda.»

Il mio modo stanco di sorridere, pone alla gogna tutto ciò che sento, rivelando la mia vera identità.

«Il sangue», commento, fissandomi le mani tanto bianche da mettere in luce le arterie, «ma certo.»

E capisco che questa difficoltà che avverte, nel parlare, non può essere da sola. Deve essere accompagnata dalla mia stessa incapacità, in modo da permetterci di progredire.

«Evie?»

«Sì?» Chiede, voltando la testa verso la mia. Mi prendo un momento, prima di tornare a parlare.

«Io ho l'hiv.»

Segue un piccolo silenzio, poi l'angolo destro della sua bocca si solleva, le labbra sono leggermente separate e da loro fuoriesce una risata arresa, quasi presa in contropiede.

«Però! Che bella coppia di amiche!»

«Già.»

«E adesso stai bene?»

«Lo tengo sotto controllo ogni due mesi. Non è degenerato in aids, e spero che non sia solo questione di tempo.»

«E Michael lo sa...»

«Lo sa. Sei la terza persona americana a cui lo dico. Anche la mia famiglia, in Irlanda, mi ha voltato le spalle.»

«Per questo motivo sei venuta fino a Los Angeles? È stata la prima cosa che ti ho chiesto, alla cena alla quale ci siamo conosciute.»

«Lo ricordo, mi mettesti in difficoltà.»

«Per tutto ciò che hai passato, ne sono convinta ora più che mai, meriti di essere felice.» Questo mi dice, ed io analizzo diffidente la sua certezza. «È così, Katrina, devi esserlo. E devi capire se Michael è l'uomo giusto, con cui tentare.»

«Ne ero certa, prima che tu provassi a metterlo in dubbio.»

«Certa? Sul serio? Non si è mai comportato male con te?»

«Capita a tutti di litigare.»

«Non parlo del litigio, Katrina. È fondamentale discutere. Sto parlando di piccoli segnali, riguardo alla sua persona, che non ti hanno convinto appieno. Non so niente dell'uomo che è quando ti ama, e vorrei scordare per sempre l'amico di un tempo, lasciandomelo alle spalle. Ma ho affrontato nuovamente questo argomento per te, sei capitata sulla mia strada, nell'hotel che Gerard aveva scelto per noi. Può essere stato un segno. Ho deciso di non ignorarlo.»

Questo discorso inizia ad essere troppo scomodo, e fastidioso rispetto all'argomento principale.

«Questo è tutto» conclude, lasciando la sua voce disperdersi contro le onde del mare.

«Sento come se avessi da farti ancora milioni di domande.»

«Sei curiosa. È una cosa bella.»

«Quanto è importante "Mr. L" e come fai a conoscerlo?»

«Sono dentro molti affari. Conosco molti uomini di successo.»

«Hai veramente chiesto tu, a Reiner, ieri notte di accompagnarmi e offrirmi un lavoro?»

«L'ha fatto sul serio?»

«Vuole farmi entrare nella Land Art Society.»

«Non gli ho chiesto niente del genere. Doveva solo accompagnarti da Sebastien, ecco tutto.»

«In cambio di cosa?»

«Ho promesso di fare un servizio su uno dei suoi hotel presenti in questa zona. Me ne devo occupare prima di partire. Se solo avessi immaginato che avresti scoperto il mio gioco non ti avrei tirata in un simile inganno, volevo rimanere fuori da tutta questa questione... ma ero contro il legno della porta dello studio, quando ti ho sentita distruggere tutto. Non potevo ritrarmi e andarmene, non volevo lasciarti sola. Sebastiaen... è stato un uomo difficile da digerire, persino per me ma ora... lo considero una delle poche persone giuste, rimaste a questo mondo. Certo, con pregi e difetti.»

«Non voglio parlargli.»

«Perché?»

«Ho paura di quello che mi dirà. Da quello che mi ha anticipato so per certo che non si tratterà di niente di bello, ma l'uomo che amo non mi ha mai fatto niente. Non voglio sentire del suo passato.»

«Sei libera di non farlo. Puoi decidere di non andare a quell'incontro, spetta solo a te, Katrina.»

«Non mi spingerai a compiere una scelta?»

«Detesto chi costringe.»

«Lo hai fatto venire fino a qui.»

«Un altro favore che ho deciso di far saldare.»

«Allora hai perso un'opportunità a causa mia.»

«Chi lo sa se andrà sprecata. Ad ogni modo» comincia a dire, alzandosi dalla panchina e fissandomi dall'alto, «ho scoperto che non si portano debiti e crediti nella tomba. Tanto vale scontarli prima.»

Scuoto la testa non riuscendo a credere alla sua auto ironia immortale, mente Evie continua a osservarmi con un sorriso insondabile.

«Allora, ti va di accompagnarmi fino all'hotel? Devo prendere il registratore e saldare l'affare con Reiner.»

«Dopo farai le tue valigie e te ne andari via, non è vero?»

«Ti lascerò il mio numero così potrai chiamarmi, ogni volta che vorrai.» La ringrazio con un lieve cenno del capo che non è affatto convinto di sé stesso, e presto mi riprende. «Allora? Ci muoviamo?»

Esortata dalla sua richiesta mi sollevo, sentendo le gambe molli venire costrette a sorreggere tutto il peso delle quali le carico, causa per la quale rimango indietro, vedendola avviarsi lungo la strada da seguire.

Osservo la sua schiena e l'andatura lenta che sfoggia nell'incedere, mentre metto le mani nelle tasche e tento di ripararmi, curvando le spalle in avanti, contro il freddo di questa giornata.

«Katrina?» Mi richiama la sua voce, ruotando il busto quanto basta per tornare a fissarmi. Poi si gira del tutto, continuando a camminare lentamente all'indietro, spedita quanto basta e consapevole di avere una piazza completamente vuota alle spalle.

Eccezione fatta per i gabbiani che volano via, non appena avvertono il rumore dei suoi tacchi rompere il loro silenzioso equilibrio, costringendoli a migrare verso terre più favorevoli.

«Vuoi sapere, veramente, perché l'ho fatto?»

Questo è ciò che mi domanda, mentre il grigio del cielo fa da cornice al suo volto abbellito dalla premurosa cura data ai capelli liscissimi, castano chiaro intervallato da alcune sfumature di biondo.

I volatili, alle sue spalle, si sollevano in piccoli gruppi per lasciar proseguire la sua retromarcia, guidata da un sorriso bellissimo, ad alta definizione, che sfoggia come il più importante dei premi.

«Perché, Evie?»

«Per fargli scoprire che non mi aveva ferita, che non può niente contro di me, nessuno può. Per fargli capire che ho vinto.»

Non abbandono i suoi occhi color del mare, continuando a procedere verso di lei, mantenendo viva la visione del suo sorriso almeno finché, con lo scatto di un semi giro, non mi da nuovamente la schiena e continua ad avanzare vittoriosa.
Fiera della sua realtà.

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