40- Fiducia incrinata

P.O.V.
Michael

Friziono i capelli con un panno bianco mentre lo sguardo si perde nel panorama presente oltre le finestre del soggiorno di casa, in questo onnipresente mare che nel silenzio della notte riesce a farsi sentire, nel suo respiro di alta marea costante.

Qui i sogni sono divenuti realtà, a Cabo San Lucas, nella bassa California del Sud.

Niente più rumori di città, niente diavoli, niente angeli. Niente che ricordi un passato dal quale vogliamo fuggire, niente di niente, se non un nuovo inizio che da tre anni, ormai, vede il nostro tentativo di ricominciare.

La mia laurea a pieni voti in lettere antiche mi ha portato al misero mestiere di archivista di stato, il quale compito risulta essere la catalogazione di documenti inerenti la conservazione della memoria storica del luogo e il mantenimento organizzato delle azioni attuali.

Avrei sperato in qualcosa di meglio che il perdermi tra file di scaffali e occuparmi da solo della storia di un intero paese, ma così è stato, e da questo mestiere non posso più fuggire.

Non ancora, almeno. La speranza di essere preso come editor, da una di queste CE locali che si occupano solo della pubblicazione di manuali da viaggi, è sempre dietro l'angolo, come il poter finalmente conseguire la specializzazione in antropologia, corso che sto seguendo la notte al fine di ottenere un certificato valido.

Niente futuro certo, quindi, ma una vasta gamma di scelte, come accade a Katrina. In questi anni ha svolto molti lavori, tra i più disparati, e sono certo che quello che sta portando avanti ora, più che mai, non l'aggradi... ma la paga è buona e i soldi servono per questa casa sotto il tetto della quale dormiamo tutte le notti, avendo preso un impegno con la banca.

Mi siedo al tavolo della cucina, con la luce spenta, e mi passo entrambe le mani sul viso, cercando la pace mentale.

Quando siamo insieme non le mostro mai il mio stato d'animo eppure mi sento confuso, in errore per averla trascinata via dalla città nella quale stava per mettere radici. E forse, chissà, realizzare il suo sogno.

Al lavoro ha scelto noi, e sono stato io a metterla di fronte a questo bivio. Alle volte mi domando se sia stata una mossa sbagliata. Avremo potuto essere persone diverse, adesso. Forse separate, ma senza dubbio più appagate.

Sospiro pesantemente, lasciando correre via questi maligni pensieri, concentrandomi sul mare e, successivamente, sui pochi mobili che arredano la casa.

Il letto, al centro del soggiorno, è un materasso con vista mare, sul quale ogni notte dormiamo abbracciati o facciamo l'amore, per scacciare le reciproche preoccupazioni e forse... per sentirsi meno soli.

Un sentimento tetro, la notte, dentro quel letto, mi spinge a voler discutere con lei, ma non lo faccio mai. Perché la amo, e gridarle contro so che sarebbe sbagliato, specie per come sembra svilupparsi il discorso dentro la mia testa ma vorrei riuscire a farlo, perché non mi parla mai di ciò che pensa.

Vorrei che mi dicesse, una volta per tutte, che questa vita le fa schifo e non le basta. Che preferirebbe mangiarsi quintali di merda piuttosto che continuare a fare quel lavoro da domestica che tanto la denigra... con quei due capi che sembrano volenterosi di comandarla a bacchetta, ogni ora del giorno che lei passa avvertendo la mia mancanza.
Sì, le manco, è la sola cosa che mi dice.
Del resto non ottengo niente perché lei ha rinunciato a tutto per noi, mentre io... non so accontentarmi. E preferirei avere molto altro, adesso. Avere il giusto compenso dopo una vita passata a testa bassa, su un libro di studio.

Da sempre sono arrivista e questo lato del mio carattere non è mai cambiato.
Voglio ottenere quello che mi spetta, anche se quello che mi spetta diventa sempre più lontano.
Una piccola luce flebile, al termine del tunnel.
Riuscirò mai a raggiungerla?

Mi sollevo dalla mia postazione, recuperando un alto calice di vetro e raggiungendo il frigo. Afferro la bottiglia di vino rosso in mano ma poi attendo, variando la mia scelta verso qualcosa di più forte, e riposto in un altro angolo di casa.

Verso il liquido ambrato dentro il bicchiere in vetro e poi l'assaporo, rimanendo con gli occhi alla spiaggia presente pochi metri oltre questi vetri.

Se Caitlin fosse a casa, adesso, staremo guardando insieme questo paesaggio. Magari abbracciati sotto una coperta, come ci era successo in un vecchio risveglio a Roma. Magari traendo ancora di più forza, l'uno dall'altro... ma lei non è qui, e i pensieri mi schiacciano al suolo, mentre rimango fermo a bere un contenuto alcolico di bassa qualità.

Un'altra notte passata da solo.

Un'altra notte a covare una rabbia inespressa, verso me stesso, e verso di lei.

P.O.V.
Caitlin

Sollevo gli occhi in direzione dello scorrere dei numeri che identificano i piani, mentre siamo ferme entrambe in questo ascensore dalle pareti dorate.

Ancora pochi secondi e questa valigia, poco più grande di un piccolo trolley, raggiungerà la stanza di questa donna dagli abiti firmati e gli sguardi enigmatici.

Non ho potuto non notare il suo sguardo alle spalle, riflesso con distorsione nel vetro delle porte, e mi domando cosa di me la incuriosisca tanto. Niente mi attribuisce una caratteristica di particolare attrattiva, né tantomeno la mia mansione mi spinge ad essere una donna da conoscere.

Sono una semplice domestica che stanotte, in via eccezionale, si trova anche a vestire i panni della cameriera. Nulla di più... ma lo sguardo della donna non si allontana da me e confesso di stare iniziando a provare una strana agitazione.

Il sensore della porta della stanza riceve l'impulso dato dalla chiave magnetica, e in uno scatto permette il nostro ingresso, così da farci avanzare.

Trascino la valigia dentro mentre alle spalle la sento incedere con i suoi tacchi, sopra alla moquette.

In volto ha un mezzo sorriso, ma non è a me che lo rivolge, mentre si fissa intorno con compiacenza, permettendomi di continuarla ad analizzare.

Con due dita sbottona l'unico fermo della pelliccia, rivelando le sue lunghe gambe magre, strette in pantaloni di pelle, e una maglietta in tinta con il soprabito e le scarpe alte. Ha buon gusto, e sicuramente una classe innata mentre si avvicina al mini frigo della stanza, versandosi due boccette piccole di alcolici.

«Se è tutto, signora, allora io vado» pronuncio, indicando la porta con un pollice puntato all'indietro e partendo con il voltarmi già, ma abbassato il bicchiere dal viso stavolta è a me che si rivolge divertita, fissandomi dall'altro lato della stanza.

«Io ti conosco» mi dice, e il modo in cui l'ha confessato riesce, per alcuni secondi, a raggelarmi. «Sei l'organizzatrice della sfilata degli angeli, no? Los Angeles ha parlato per molto tempo di quegli abiti...»

Come un palloncino bucato dalla punta di un ago, il mio petto rilascia il fiato, sgonfiandosi di una strana tensione che vi si era raccolta.

La donna fissa incuriosita la mossa, tornando a bere ma avanzando stavolta sul letto, al di sopra del quale si siede, accavallando le gambe.

«Sì, sono io, ma mi sono occupata unicamente del logo e della serata.»

«Le foto di quella notte, però, e il promotore dell'evento non hanno certo lasciato che la tua piccola sfilata finisse nell'oblio, non trovi?»

«Per la verità non conosco nemmeno il nome di quell'uomo...»

Sussurro, e la mia interlocutrice pare esserne sorpresa.

«Divertente», commenta, ma non rilascia una parola di più.

Assapora ancora il suo drink prima di tornare a me.

«Sei fidanzata?»

Spalanco gli occhi, presa in contropiede.
Che cosa le interessa?

«Mi scusi, ma...»

«Può sembrarti una domanda impertinente, e forse lo è, ma non c'è motivo di spaventarsi. Sono una giornalista, è il mio lavoro mettere a disagio.»

La mia mente, in parte, sembra rasserenarsi.

«Si dovrebbe dire il contrario.»

«Non amo mentire. Allora? Mi risponderai? Sei fidanzata?»

«Sì.»

«Da molto tempo?»

«Sei anni.»

«Niente di meno, e il tuo fidanzato è con te?»

Recupero l'indifferenza che basta nell'evitare di rispondere ad ulteriori domande.

«È una specie di interrogatorio?»

«Chissà... magari se esce qualcosa di interessante riesco a tirare su qualche articolo. Di sicuro è stato sorprendente trovare l'organizzatrice di una simile festa mondana nei panni di una cameriera.»

Osservo, nella nostra distanza, quegli occhi chiari che non si lasciano sfuggire nessuna mia mossa, e finalmente riesco a pronunciare la domanda che mi rimbomba in testa da tutta la sera.

«Io e lei ci siamo mai incontrate, prima d'ora?»

Nelle sue iridi, ora, intravedo come delle fiamme, alimentate da un divertimento che si è fatto compagno della sua serata in compagnia del whisky, e di un'impertinenza che arriva a infastidirmi.

«Chi lo sa, magari in una vita precedente» risponde, senza farlo affatto.

Aggrotto la fronte, confusa e arrabbiata, decidendo secondo l'istinto.

«Credo che sia il momento di andarmene...»

«Ancora un attimo, Katrina» pronuncia la sua voce alle mie spalle, facendomi correre un brivido lungo la schiena.

Il fastidio mi provoca sempre strane reazioni, e la maggior parte delle volte sono impossibili da controllare.

«Mi piacerebbe se imparassimo a conoscerci. Sono meno cinica e cattiva di quanto pensi. Questa città mi è nuova, anche io provengo dalla grande L.A., quindi mi piacerebbe se mi aiutassi ad ambientarmi.»

«Perché dovrei farlo? Non è stata molto cortese con me, in questo nostro primo incontro.»

«Me ne dispiaccio, ma come ho detto sono una giornalista... potrebbe esserti comoda la mia amicizia, come immagini ci sono molte cose che so, e di cui potrei metterti al corrente.»

«Ad esempio?»

Sorride, enigmatica, ma non lascia trapelare nessun indizio dalla sua bocca serrata.

Rimane a fissarmi, per un tempo eterno, prima di decidersi a parlare.

«Mi spiace, ma rivelo i miei segreti solo a gente fidata. Allora... accetti di diventare mia complice?»

Complice non suona affatto bene. Riecheggia alla mente azioni illeciti e illegali, storie da raccontare ai propri parenti attorno a un tavolo di festa ed io non voglio nessuna di queste cose. Specie da una donna sconosciuta, e misteriosa come lei.
Anche se... proprio il termine "complice" è lo stesso che usai il giorno in cui conobbi Michael.

Ed inoltre, se è vero che questa estranea proviene da Los Angeles e mi conosce così bene forse ci sono realmente cose di cui è a conoscenza, ed un sesto senso mi dice che è una occasione per poterle scoprire. Non so bene cosa riguardano ma se c'è una cosa che mi ha condotto a fare la mia relazione con Michael è credere al destino, sempre. Niente accade per caso, non esistono coincidenze. Solo questi incontri fortuiti, in grado, forse, di dare una svolta alla tua vita.

Ed è così che, in questa camera d'albergo, decido di dare vita a uno strano rapporto di amicizia che mai, prima d'ora, mi sarei aspettata.

P.O.V.
Michael

I fari della macchina di Cat illuminano la stanza in cui mi trovo quasi fossimo nel pieno di una giornata di sole, costringendomi così a svegliarmi dal torpore per potermi alzare in piedi e raggiungerla.

La chiave all'interno del cruscotto compie un giro, arrestando il motore, proprio nell'attimo in cui apro piano la porta di casa per riuscire a cogliere il suo arrivo.

Lunghi momenti di pausa, in cui probabilmente sta lottando per poter recuperare tutte le sue cose dalla macchina, ed ecco che dopo la sua chioma di capelli compare, illuminando la notte tetra con il suo rosso fuoco, di affascinante conquista.

Osservo le sue mosse, consapevole del fatto che non mi abbia ancora notato. Il modo in cui si china nella macchina per prendere una delle sue innumerevoli buste con dentro il cambio di abiti, portato a casa solo per un giro completo nella lavatrice. Poi come estrae le chiavi da dentro la loro prigione, gli occhiali da sole che si spostano in testa, non avendo mani disponibili per portarli, lo zainetto che si carica in spalla e le buste, ed ecco, quindi, tutto il suo armamentario al completo. Con esso si solleva e incammina, dopo aver chiuso con uno scatto di luci la macchina.

E finalmente mi trova. Si sbilancia in un sorriso dolce, che mi era mancato durante la sua assenza, e che ricambio, sentendo poco dopo come venga ricompensato da un tenero bacio a stampo.

Le permetto di soggiornare sulle mie labbra quanto le basta per trovare conforto e pace da questo ritorno a casa.

Poi le sue braccia si attorcigliano al mio collo, e la sua testa si sbilancia indietro, con una disperazione commediale, lasciando andare la sua esasperazione, assieme a una richiesta.

«Mi trascini fin dentro casa?» Domanda, ma non riesco ad essere completamente divertito del suo stato attuale.

«Sei stanca?» Indago, lasciando gli occhi correre sui suoi abiti.

«Come non mai, ti ho smosso a pietà?»

Non rispondo, non rivelandole la rotta dei miei pensieri, ed è questo il motivo che la spinge a sollevare lo sguardo e fissarmi.

«Va tutto bene?»

Annuisco lentamente, in una menzogna, permettendole di analizzare quella bugia.

Non va affatto bene, che sia lei a fare le domande. Dovrebbe fornire risposte ma la sua voce non emette le giuste parole. Non sembra volermi dire la verità.

«D'accordo, allora mi farò una doccia. Dopo facciamo qualcosa insieme, se vuoi» mi dice, liberando il mio collo dalla sua stretta e non posso che restarla a fissare, senza riuscire ad annuire un ulteriore volta.

Mi fissa con sospetto e poi emette una piccola confessione:

«Oggi ho avuto una giornata particolarmente strana.»

«Come mai?»

«È arrivata una giornalista, in hotel, e si è fissata con me. Non lo so, mi è sembrata una cosa insolita, mi conosce dalla sfilata.»

La sfilata, certo. Quale bel ricordo. La riuscita dei suoi vecchi successi che torna ancora una volta, in pompa magna, a riecheggiare in uno squillo di trombe la vita migliore che avrebbe potuto avere. Se solo non fosse stata con me.

«Che cosa voleva?»

«Che la accompagnassi a fare un giro in città. Non ti scoccia vero? Domandi lavori tutto il giorno» mi ricorda, riportando esattamente la realtà. Sarò chiuso tutto il giorno in quelle quattro pareti, perso tra cataloghi di fogli di una città che sto per odiare, se solo la fiducia tra noi non ne tornasse a bagnare la terra.

«Fai come credi, escici se vuoi.»

«Sicuro di stare bene?»

Non ho apertamente detto di farlo, ho semplicemente annuito, ma lascio cadere l'argomento perché è tardi, e l'alcol che ho in corpo non mi favorirebbe nell'esprimere ciò che realmente penso.

«Sì, vai a fare la doccia, ti aspetto in soggiorno.»

«Ci inventeremo cosa fare, visto che la tv non è stata ancora montata» replica, lasciandomi vicino alla porta mentre inizia a togliersi in casa la sciarpa.

Un tempo non occorreva inventarsi niente, veniva tutto naturale, ma è normale anche che con il passare degli anni qualcosa cambi. Anche se il mio amore per lei, nonostante tutto, non si è acquietato.

P.O.V.
Caitlin

Evie.

Ecco il nome della fastidiosa ed eccentrica giornalista che cammina al mio fianco per le strade di questa città, quasi fossero la sua nuova casa. Con i suoi pantaloni attillati, maglie scollate a rivelare il seno ed occhiali da sole tondi, in perfetto stile vamp.

Non ho idea di come appaiamo una a fianco all'altra, ma sono certa che il risultato sia alquanto avvincente.
È più alta di me di una spanna e mi sovrasta.
Le manca solo una chewing-gum per sembrare una pin-up, perché il resto c'è tutto. Persino il carattere snob che non si vergogna di mostrare.

«In che parte della città siamo?» Domanda ad un tratto, fissando i palazzi intorno.

«A "El Pueblito".»

«Ottimo, dobbiamo raggiungere il resort "Cabo del Sol".»

Spalanco gli occhi, un po' per la sua richiesta specifica, un po' perché ci siamo già allontanante dalla città con diversi mezzi pubblici e soprattutto perché sembra orientarsi bene, pure senza mappa, visto che il Resort dista già pochi metri.

Non credo le serva realmente una guida per visitare questi luoghi, pensando anzi al fatto che sia qui solo per una ragione che mi sfugge, ma che presto scoprirò.

«Agli ordini, allora, raggiungeremo il resort» replico, prendendola in giro in maniera nemmeno tanto celata ma lei si volta nella mia direzione, sorridendomi dietro i suoi spessi occhiali, e decide di spiazzarmi.

«Bene», commenta, tornando a fissare avanti. O è un modo per destabilizzarmi oppure in quel cervello non c'è realmente niente. Mi chiedo perché mi dia il tormento così, senza alcun motivo logico, e perché si sia fissata con me, solo a causa di una stupida sfilata.

«Sembra che siamo arrivate.»

«Perché siamo qui, Evie?»

«Lo scoprirai presto, cara.»

Decisa come al suo solito, avanza nei passi con grazia, approcciandosi all'ingresso di questo club di golfisti.
La seguo, senza dire una parola, ormai esausta dal modo con cui mi ha trascinato avanti e indietro tutta la mattinata.

Con soddisfazione le vedo raggiungere i tavoli offerti dalla ristorazione, ed accomodarsi ad uno di essi mentre è intenta a togliersi gli occhiali.

Indecisa su dove sedermi, rimango a distanza per alcuni istanti, per poi optare per il posto che le è dinanzi, ormai fin troppo a stretto contatto con il suo viso.

Segue la mia mossa e nel frattempo il cameriere ci raggiunge, porgendole un menu che è libera di sfogliare in eterno.

«Sei venuta qui per la ristorazione?»

«Per la verità, pulcino, qui c'è un ottima vista» commenta, osservando dei giovani uomini in piedi sotto questa terrazza, intenti a discutere tra loro.
Forse di finanza o dei vari investimenti fatti in borsa, pronti come sono a seguire il vertiginoso sali e scendi di quel tormento che da la nausea, pur di guadagnare.

«Sei in cerca di una storia?» Chiedo, domandandomi da sola quanto possa essere sbagliato il termine.
Evie non sembra una tipa da "storie", non come le intendo io, di quelle che durano anni.

«È la storia di altri che mi interessa, vedila così.»

Resto a fissarla per alcuni istanti, prima di decidere di arrendermi.
Non appena il cameriere torna a noi, la sento destreggiarsi nell'ordinazione di una bevanda dietetica, ricca di un'insieme di sostanze che non mi spingerei mai ad unire, per evitare di vomitare.
Per quanto mi riguarda ordino un semplice caffè, e con questa mia ultima richiesta l'uomo scompare, lasciandoci nuovamente sole, a noi stesse.

La trovo già intenta a fissarmi e la cosa mi agita. Non capisco come riesca a mettermi in questo stato, nemmeno la conosco... ma già mi provoca del fastidio, impossibile da arginare.

«Vuoi chiedermi qualcosa, Evie?»

«Io non ti vado molto a genio, giusto?»

«È così palese? Non riesco a celarlo?»

Sorride, dipingendosi in viso un'espressione che non le avevo ancora visto indossare, e che mi sembra, tra le sue, la più sincera.

«Nemmeno tu mi vai a genio, ma cosa ci possiamo fare? Semplice destino che coincide con il lavoro, nulla di più.»

«Che cosa pensi di ricavare, nel tormentarmi così?»

«Conosco l'uomo che fece da promotore al tuo evento, non vuoi sapere chi è?»

«No, non mi interessa più.»

«Peccato, ti sarebbe potuto essere utile.»

«E per quale ragione?»

La sua bevanda energetica e il mio caffè raggiungono il tavolo, permettendole così di giocare con la cannuccia della bibita tramite le dita sottili, rifinite di smalto.

«Così eviteresti di rifare la camera a persone sconosciute, o servire ai tavoli del ristornante di un hotel.»

La fisso con tutto l'odio che ho in corpo, senza riservarle alcuno scrupolo.

«Perché è solo il tuo mestiere a valere qualcosa, giusto?»

«Puoi contarci.»

Annuisco, accettandolo, oramai.
Ognuno crede che i propri affari siano migliori rispetto a quelli di altri. Lo fanno le donne di successo, come lei. Gli imprenditori, gli arricchiti, e capisco in un attimo il motivo per il quale sono qui: la mente, da sola, ha cercato distrazione da una routine opprimente, e si è prostata al cospetto di una figura tanto autoritaria e facoltosa perché, inconsciamente, mi ricorda che è ciò che voglio diventare. Vorrei ottenere la totale indipendenza e respirare facilmente, senza gonfiarmi la bocca di queste parole prive di senso e piene di vanto, perché non fa per me.

Per riuscirci, però, non voglio ottenere nuove strade. Voglio far valere il mio talento... che, in qualche modo, ho messo da parte negli anni.

La sua bocca a cuore, perfettamente tinta in un rossetto scuro, si chiude intorno alla cannuccia in modo provocante mentre fissa uno degli uomini più lontani, ed io scuoto la testa confermando, dentro me, la nostra palese diversità.

Dovrei alzarmi da questa sedia e correre via, tornare alla mia vita tranquilla, ma per qualche motivo rimango incollata. Forse è ancora una volta colpa del mio immenso interesse per le novità e le stranezze, per i misteri che tanto mi incuriosiscono, come dissi a Michael la prima volta che andammo al cinema. Non mi sottraggo di fronte a domande irrisolte e la giornalista sembra possederne a bizzeffe. La particolarità è che, forse, potrebbero riguardarmi.

Richiamata dai miei pensieri, solleva gli occhi verso i miei e mi osserva in un cinismo che si avvicina, pericolosamente, a una strana forma di disgusto.

«Che donna sei, Katrina?»

Nemmeno mi domando più il perché delle sue insolite domande.

«Credo, principalmente, una persona schiva, pronta a sacrificarsi per ciò a cui tiene.»

«Quindi non sei un'avventuriera. Non ti butti nelle questioni a capo fitto.»

«Dovrei farlo?»

«Gli uomini apprezzano in maniera molto particolare il coraggio. Prima ne vengono incuriositi, poi tentano di sopprimerlo, e prevalere sugli altri. Sono pericolosi, gli uomini.»

«Mi aspettavo una presa di posizione più femminista, da parte tua.»

«Perché sono una donna che sa cosa vuole, e tenta sempre di poterlo ottenere?» Il mio sguardo è sufficiente a farla annuire, con un sorriso, voltandosi su di un lato per poter avere così la schiena per metà appoggiata allo schienale della sedia, mentre fissa il panorama offerto da questo luogo. «Si diventa forti per propria scelta, o perché ci hanno obbligato altri, ma nessuno lo è. Non fino in fondo.»

«Nel tuo caso?»

«Entrambe le condizioni, temo» mi dice, abbassando per un attimo gli occhi prima di tornare a me. «Perché non svolgi il tuo lavoro, Katrina?»

«Lo sto facendo, sono una cameriera.»

«No, intendevo... perché non dipingi più?»

«Non ne trovo il tempo.»

«A causa di questa tua nuova vita?»

Non rispondo alla domanda, lasciandola fissarmi e trarre le conclusioni che sembra già da tempo possedere.

«D'accordo, non rispondermi. Ci sarà tempo per farlo» dice, prima di sollevarsi in piedi e abbandonarmi al tavolo.
Volgo la testa quanto basta per osservarla sistemarsi la maglietta, abbassandosi lo scollo, e avvicinarsi a quattro uomini che, al momento, sono saliti in questa veranda.
In particolare all'unico che fissava in maniera tanto palese poco fa, e che chiede, con un gesto, ai suoi amici di essere lasciato solo con lei.

Gli altri si dileguano di comune accordo e in questa ritirata, per un attimo, Evie volge la testa verso di me, forse per constatare che sia rimasta al mio posto.

Lo faccio, ed osservo in silenzio la scena che si sta svolgendo di fronte. A un certo punto vorrei ritrarmi e tornare al mio caffè ma qualcosa cambia, impercettibilmente.
L'espressione dell'uomo muta, da provocante passa alla paura, e poi ad un palese disagio.
Non capisco cosa stia succedendo mentre Evie continua a parlare con una palese tranquillità, muovendo leggera da una parte la testa e lisciandosi i capelli con le dita di una mano, provocatoria e irraggiungibile, persino per un uomo del genere.

Gli occhi disperati di lui si soffermano su qualcosa, al piano terra del giardino del resort, e non capisco di cosa si tratti finché, con la coda dell'occhio, non vedo una squadra di uomini in divisa salire i gradini che conducono fino a qui, diretti verso Evie.

È un attimo. La giornalista si volta. L'uomo anche, in direzione degli ufficiali, e nonostante i tacchi alti lei riesce a correre verso di me con facilità mentre rimuove, dallo scollo della maglia, un piccolo microfono che prima non avevo notato.

Spalanco gli occhi mentre la sento afferrarmi la mano e costringermi a correre, lontano dagli agenti.

Poi la stretta mi abbandona non appena passato l'ingresso del resort e mi accorgo che, nonostante le alte calzature, lei è più veloce di me, tanto da lasciarmi indietro.

Forse la confusione, forse una strana consapevolezza mi rallentano: se non mi avesse preso la mano non sarei mai stata ricollegata a lei, e forse lo sapeva.

Ne ho quasi la certezza, di questa sua trappola, quando due dei poliziotti mi afferrano e mi costringono a sdraiarmi a terra mentre il resto degli altri corre dietro di lei, ma ormai è palese la sua vittoria.

Chiudo gli occhi mentre la mia faccia viene premuta di lato contro l'asfalto, giurando dentro di me che, al nostro prossimo incontro, non esiterò a tirarle quelle patetiche mesh che si confondono ai suoi capelli castani per questo scherzetto che mi ha tirato, e che, senza dubbio, era premeditato.

Osservo il procedere lento del mio carceriere che, nella sua divisa blu scuro, non allontana gli occhi dai miei, intrappolati dietro queste sbarre. L'unico luogo dentro il quale non avrei mai pensato di finire, ma la vita è piena di sorprese.

Calcio con la punta del piede un piccolo sasso che fa da coinquilino a questo metro quadro dove è presente solo una panca, appesa alla parete, sulla quale siedo in attesa di una novità.

Tra meno di mezz'ora dovrei cominciare il mio turno a lavoro. Raimòn si arrabbierà, e non poco, se non comparirò, puntuale, al suo cospetto. Potrebbe discutere anche con Demtria di un mio possibile licenziamento. Prendo in analisi l'eventualità... valutando che non è una grave perdita, in fondo, l'essere licenziata da quell'inferno. Basterebbe avere la certezza di poter trovare altre occasioni, nel prossimo futuro. Niente può essere peggio rispetto a quello che sto già vivendo.

L'uomo che circa due ore prima mi aveva reso parte integrante dell'asfalto del Messico, entra in questa stanza dipinta in un verde spento che ne evidenzia il suo scopo di transito, palese attesa di novità che, mi auguro, possano essermi favorevoli.

«Hanno pagato la cauzione, puoi lasciarla andare» comunica al mio carceriere che estrae un mazzo di chiavi e si incammina nella mia direzione.
In risposta mi sollevo in piedi, con fierezza, puntano l'uomo che mi aveva resa colpevole di un reato che nemmeno avevo mai commesso.

Questi mi ricambia, persino quando la gabbia viene aperta, e così mi permette di parlargli direttamente, non appena sono certa di essere libera dalle grate della prigione.

«L'avevo detto che non era mia la colpa» gli ricordo, vedendogli quindi sollevare un sopracciglio, affatto convinto delle mie parole.

«Cerca di non farti più rivedere qui dentro e potrei crederti. Avanti cammina.»

La sua mano sulla schiena mi spinge ad avanzare verso l'uscita, e vorrei rimetterlo apposto, voltandomi come una furia, ma non lo faccio.
Seguo semplicemente l'uscita e mi incammino nell'aria gelida della notte, lasciando che sia il buio di questa mia nuova città a farmi da soffitto.

Il commissariato chiude i battenti alle mie spalle nell'attimo esatto in cui rilascio andare il fiato, generando una nube di calore caldo nell'aria che si congiunge alla limpidezza delle stelle, visibili persino da qui, grazie alla scarsa illuminazioni e alla lontananza del centro.

Rimango fissa su di loro finché la testa non si abbassa, automaticamente, fissando la strada e mi accorgo di una figura di fronte a me.

Il buio ne evidenza solo la sagoma ma quando avanza, lasciando solo pochi metri tra di noi, questo unico lampione la illumina, portando la mia mano a stringersi in un pugno, involontario.

«La vita di prigione ti ha fatto bene, sei diventata una vera dura» commenta, sbilanciandosi in una risata che fa saltare i miei nervi, uno alla volta.

«Che cosa vuoi, Evie? Non ti è bastato lo scherzetto che mi hai appena tirato?»

«Scusami», mi dice, gli occhi, ancora una volta, ridotti in due piccole fessure dalle quali scaturiscono piccole fiamme, «ma mi dovevo vendicare.»

«Di me?»

«Prometto di sdebitarmi», prosegue, ignorando la mia domanda mentre sposta il peso da un piede all'altro. «Che cosa ne dici di una cena?»

«Non voglio avere più niente a che fare con te.»

«Avanti, Katrina, mi hai aiutata in un grosso affare...»

La sua testa si sbilancia all'indietro, i capelli le si muovono di conseguenza, e capisco da come mi guarda che sta dicendo la verità.

«Chi era quell'uomo?»

«Uno stronzo che si è arricchito usando i fondi della popolazione per i suoi tornaconti illegali. Per altro è inserito persino in politica. Vedi, non sono una donna cattiva. Posso essere un po' difficile da trattare, ma niente che ci vieti, in fondo, di diventare amiche.»

«Amiche? E perché dovremmo diventarlo?»

Sorride, mordendosi un labbro e analizzandomi, da capo a piedi, con una sicurezza sfrontata.

«Te l'ho detto. Perché io ho le risposte.»

«Non ho formulato nemmeno delle domande.»

«Non a voce, pulcino, ma le hai, e stranamente i tuoi occhini da cerbiatta mi hanno tanto sciolto il cuore da permettermi di fornirtele» commenta, avviandosi in direzione di una macchina mai vista prima d'ora. Un modello vintage, rosso acceso, del quale non riesco a distinguere la marca.
La notte inghiotte ogni cosa.

«Sono convinta di conoscerti» replico, fissando il suo modo di camminare e la nuca, le spalle, che stavolta mi si sono rivolte, senza permettermi di analizzare il suo viso che però, sento poco dopo, subisce la smorfia di un sorriso, che ne deforma il tono di voce.

«Abbi coraggio, allora, Katrina, e scopri quanto possa essere vero. Impara a vivere una realtà cruda con leggerezza.»

Le sue parole si disperdono nel buio di quest'ora tarda ma i suoi occhi, di nuovo rivoltimi, fanno da punto a una frase che continua a riecheggiare nella mia mente quasi fosse un eco, e così decido di farlo.

Decido da sola di compiere questi passi, lungo l'asfalto, e congiungermi a quella macchina rossa in un viaggio insolito, privo di meta. Sedermi al sedile, in pelle beige, del passeggero e ascoltare le note prodotte dall'accensione della radio, mentre, con la coda dell'occhio, fisso la figura disinvolta al mio fianco inserire la chiave nel cruscotto e poi far compiere un piccolo semicerchio al volante.

Non mi concentro su nient'altro che non sia il suo viso mentre quegli occhi, tanto noti quanto imperscrutabili, fissano la strada che corre di fronte a noi e tacciono, lasciando che sia io la sola traduttrice dei misteri che celano.

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